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Set 07, 2018

 

Fu vera gloria?

Può sembrare strano che, di fronte agli sconvolgimenti nazionali e mondiali in corso, si ricordi il cinquantenario del Sessantotto. I malevoli potrebbero pensare al narcisismo di una generazione, ormai anziana o vicina ad esserlo, la quale, non paga della sua ingombrante presenza sociale, ancora indugia ad autocelebrarsi.

Eppure quegli eventi, collocabili grosso modo intorno all’anno fatidico, segnarono effettivamente uno spartiacque. Ci fu davvero una svolta, il cui senso non è facilmente afferrabile, da cui gli eventi attuali ancora dipendono. Le idee che da allora hanno avuto corso sono diverse da quelle precedenti. E non si comprende quel che sta accadendo ora, in Italia e nel mondo, se non anche come un logoramento e un almeno parziale rigetto di quelle idee. Del resto, considerando i vertici del potere mondiale, già un presidente americano, Clinton, si è formato in quegli anni, e un altro, Obama, nel clima che ne è scaturito; mentre è abbastanza chiaro che l’attuale, Trump, opera in senso contrario.

Detto ciò, davvero il senso quel che allora accadde non è chiaro, e questo non aiuta nella comprensione dell’oggi. 

Cosa era davvero in gioco?  E cosa lo è oggi? 

Quel che è certo è che il giudizio intorno a quegli eventi, se vi fosse vera gloria o meno nel prendervi parte, e quale assetto realmente abbiano scosso, non possiamo lasciarlo ai posteri. Più di quanto non appaia, ci interpellano. Forse perché vi si trova la chiave del presente, e ancor più di quel futuro a cui tanto poco oggi si pensa.


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Set 07, 2018

 

La trasgressione al potere

di Cristiana Cattaneo e Claudio Torrero

 

Quello che cerchiamo di descrivere è un fenomeno di cui sotto certi aspetti si parla più che a sufficienza, mentre sotto altri, e sono quelli che più interessano, può dirsi quasi ignorato.

È del tutto ovvio ad esempio, e finanche banale, parlare di consumismo. Già son vari decenni che uno degli aspetti maggiormente visibili, e anche diffusamente commentati, della vita collettiva delle società a più alto sviluppo di industrializzazione è il coinvolgimento dell’intero corpo sociale nel consumo di quello che le enormi capacità dell’apparato produttivo hanno reso disponibile.

Dal punto di vista storico, si è trattato della risoluzione creativa del nodo che aveva dilaniato le società industriali tra l’Ottocento e il primo Novecento, vale a dire il conflitto di classe. Rendendo accessibile agli strati subalterni la fruizione di ciò che il loro lavoro contribuiva a produrre, si otteneva il duplice risultato di integrarli più profondamente nel sistema e al tempo stesso di creare nuove fasce di mercato per una produzione sempre a rischio di essere eccedente.

Grazie a questa soluzione il sistema di produzione capitalistico si è assicurato la sopravvivenza rispetto ai fattori che ne facevano presagire la fine, e anzi, considerando l’intero arco del Novecento, ha vinto la competizione con ciò che si presentava come alternativo sul piano dell’organizzazione sociale.

Ma quel che più ci preme è che il consumismo è un vero e proprio paradigma antropologico, che segna una profonda frattura con le epoche precedenti. Frattura che non è stata a sufficienza valutata.

 

Keynes e Freud numi tutelari

Come spesso avviene in questo genere di cose, la novità non fu immediatamente avvertita, e soprattutto non venne progettata da alcuno. Tuttavia è lecito, almeno per chi a posteriori è chiamato a stabilire le ascendenze di un fenomeno, individuare figure-chiave capaci di dare alle cose un’identità rappresentabile. E per quanto l’accostamento possa apparire strano, si può pensare che il fenomeno in questione abbia due padri, non importa quanto consapevoli ma di certo significativi: Keynes e Freud.

Suggeriamo che l’orizzonte culturale del quale parliamo, di cui il termine consumismo esprime una connotazione deteriore ma essenziale, riceva da queste due figure la sua determinazione più propria.

John Maynard Keynes è noto per essere stato l’artefice di una svolta nella teoria economica rispetto alla visione del liberalismo classico e alla sua fiducia nelle capacità delle leggi di mercato di produrre, in virtù della loro stessa azione, un equilibrio nella distribuzione delle risorse sociali. A tale visione, messa a dura prova dalle tensioni sfociate nella Prima Guerra Mondiale, Keynes oppone la consapevolezza della necessità di un’azione dei poteri statali che sia di stimolo alla vita economica. Ebbene, di tale azione è senz’altro parte una strategia sociale volta all’innalzamento del reddito dei ceti più umili, in quanto dotati di una più immediata propensione al consumo.

Più in generale si può dire che con Keynes i consumi diventino la chiave di volta dell’intero sistema economico. Poiché quest’ultimo è a costante rischio di recessione, un ampliamento della sfera dei consumi costituisce il miglior antidoto. Con questo però l’intero modo di percepire l’economia viene rivoluzionato. Mentre finora i comportamenti più utili erano quelli ispirati all’ascetismo della produzione, paradossalmente ora è l’edonismo del consumo a diventare determinante.

Cosa ciò comporti nella psiche collettiva è facilmente intuibile. Emerge l’idea che il comportamento socialmente utile non sia più la rinuncia ma l’appagamento. Il frutto finora proibito diventa ciò di cui godere senza remore.

Perché questa rivoluzione nella coscienza si compia, occorre però che la svolta in economia si connetta a una svolta altrettanto radicale nelle scienze umane. Ed è qui che entra in campo Freud.

Beninteso, quel che la sua opera ha suggerito va ben oltre le intenzioni dell’autore. Ma paradossalmente proprio la sua tesi che la civiltà sia frutto della repressione degli istinti ha dischiuso ben altra prospettiva. Ebbe a dire Marcuse:

La concezione dell’uomo che emerge dalla teoria freudiana è il più irrefutabile atto d’accusa della civiltà occidentale – ed è al tempo stesso la difesa più incrollabile di questa civiltà[1].

In realtà la difesa era tutt’altro che incrollabile. Affermare che la repressione è necessaria alla vita sociale significa già metterla in discussione, facendola dipendere da un aspetto convenzionale per sua stessa natura passibile di cambiamento.

Quel che Marcuse fece, e prima di lui Reich, cioè leggere la teoria freudiana in termini rivoluzionari, era dunque legittimo. Eppure la rivoluzione che si rappresentavano era ben diversa da quella che in realtà avvenne, a cui involontariamente essi cooperarono.

Quando Marcuse, che si muoveva nell’ambito dell’analisi marxiana, reinterpretando il comunismo come società emancipata dalla repressione, si avvide che una sorta di emancipazione stava avvenendo nel quadro stesso della società capitalistica, coniò il concetto di desublimazione repressiva, intendendo che un estremo inganno fosse all’opera per impedire la liberazione autentica[2]. Mentre però quest’ultima arretrava inesorabilmente su un orizzonte sempre più remoto, quel simulacro di liberazione incoraggiato in ogni modo dai media e dall’industria prendeva corpo, fino a mostrarsi come l’unica realtà.

Non il comunismo si era realizzato, ma il trionfo del consumismo. Non l’estrema utopia di relazioni affrancate dal dominio, bensì una mercificazione dei corpi e una sollecitazione degli istinti perfettamente funzionali a quanto il nuovo assetto economico richiedeva.

Un modello antropologico basato sul principio di realtà, sulla necessità cioè di differire il soddisfacimento delle pulsioni in vista del raggiungimento di mete future, è coerente con un’economia al cui centro è la disciplina sociale della produzione. Quando invece l’elemento decisivo è il consumo, il principio di piacere è legittimato a diventare dominante. Se l’Io freudiano si trova a far da mediatore tra le pulsioni e il Super-io, espressione degli imperativi sociali, paradossale è la condizione in cui quest’ultimo prescrive la regressione al soddisfacimento più immediato.

 

Una civiltà faustiana

In un libro oggi per lo più dimenticato, Il tramonto dell’Occidente[3], Oswald Spengler ebbe a definire la civiltà occidentale moderna come faustiana. Il termine fa pensare allo slancio titanico del mondo della tecnica dispiegata, oppure a qualcosa di inquietante di cui il patto col diavolo è metafora.

Quel che è certo è che principi etici un tempo indiscutibili hanno subito uno stravolgimento, lasciando il posto al predominio delle ragioni strumentali. È il mondo della moderna economia, che brutalmente sostituisce il principio del profitto a universi più complessi, dove più scopi dell’agire coesistono e si intrecciano[4]. Come ha mostrato Polanyi infatti, nelle culture tradizionali non esiste una sfera dell’economico separato, ma le azioni volte alla sussistenza rivestono simultaneamente altri significati[5]. Se il mito di Faust si connette a un’idea di caduta, tale idea può ben rappresentare l’impoverimento delle relazioni conseguente alla modernizzazione.

Altri significati tuttavia quel mito suggerisce, almeno nella versione datane da Goethe.

Faust è il sapiente disilluso, che si disfa dell’abito della ricerca e della dedizione in cambio di una vera e propria regressione. Vuole tornare giovane, e immergersi nel turbine dei sensi. Avendo sperimentato la frustrazione dell’autosacrificio, rivendica l’immediato soddisfacimento. Non a caso il patto col maligno ha quale posta un attimo di totale appagamento, il cui prezzo può ben essere l’eterna dannazione.

La storia è sufficientemente nota: per quanto Faust si immerga in ogni sorta di piacere, l’attimo agognato inesorabilmente sfugge, fino a che egli si trova a vivere una nuova, ancor più amara disillusione. Accade allora, in una condizione di perdita di sé, che egli compia un’azione finalmente gratuita, venendo incontro al bisogno altrui. Inaspettatamente si trova a vivere ciò di cui invano era andato in cerca, e adempie in quel momento al compito di un’intera vita.

Il fatto che a quel punto il diavolo, essendosi recato a riscuotere il compenso, sia rimasto beffato ha fatto discutere. Quand’anche si pensi che la salvezza in extremis valga come celebrazione dell’idea borghese del lavoro che redime, non deve sfuggire l’essenziale: che la redenzione è stata possibile allentandosi il vincolo della brama, del cieco egoismo da cui Faust finora è stato attanagliato.

Già da quando era in origine un sapiente, lo animava una motivazione indebita: la volontà di potere che ha poi prodotto la caduta, lo sprofondare nella regressione. Distrutta quella motivazione, per effetto del duplice scacco, a quel punto si è dischiusa la salvezza.

In questa luce l’esistenza sociale odierna può ben dirsi faustiana. Milioni di persone hanno venduto senza darsi pensiero la propria anima dietro la promessa di un facile appagamento, di cui non a caso il desiderio di rimanere indefinitamente giovani è la rappresentazione più eloquente. Quale forma potrà assumere il riscatto, o quale forma già eventualmente assume nella trama del destino di ciascuno?

 

Modernizzazione e rivolta

Alle orecchie di chi, come noi, si è formato negli anni roventi intorno al Sessantotto, ancora risuonano gli slogan contro la funzione ideologica della famiglia e dell’educazione, scagliati come sicura profezia di un loro imminente scardinamento. Ma nessuno poteva sospettare quanto ciò fosse destinato a realizzarsi, benché in un contesto assai diverso da quello immaginato.

Non che ovviamente il Sessantotto sia colpevole di quella disgregazione del tessuto delle relazioni umane che in genere accompagna l’incalzare dei processi di modernizzazione: è ovvio che quei processi sono del tutto indipendenti e producono conseguenze analoghe nei più diversi contesti. Come in Europa e negli Stati Uniti lungo il Novecento o anche ben prima, oggi su ben più vasta scala nelle diverse aree mondiali i legami tradizionali della famiglia e della comunità vanno frantumandosi per lasciare emergere individui irrelati, più o meno orgogliosi della propria autonomia.

L’individualismo come carattere distintivo dell’uomo moderno è del resto, prima di ogni sociologia, un tratto su cui la filosofia europea va riflettendo da duecento anni.

Tuttavia il Sessantotto ha rappresentato, più di qualsiasi altro evento, il modo in cui quel che avveniva sul piano dei meccanismi sociali è stato elaborato dalla coscienza collettiva. Nel contesto di una cultura diffusa a livello planetario, una nuova seduzione si presentava con la forza della necessità. Non appariva più accettabile che le immense possibilità dischiuse dallo sviluppo economico e dalla tecnica fossero mortificate da un assetto dei rapporti vissuto come oppressivo.

Sotto questo aspetto la filosofia più coerente del Sessantotto fu quella di Marcuse, dove al modello della lotta di classe, ora dilatato su scala planetaria con le masse affamate del Terzo Mondo quale nuovo proletariato, veniva sovrapponendosi un altro modello, come le particolari scelte linguistiche e concettuali non mancavano di segnalare. Più ancora che di sfruttamento, che è un fatto economico, si parlava infatti di repressione, che implica una dimensione più intimamente esistenziale e psicologica. E nel riferirsi a Marx, più che alla critica dell’economia borghese ci si rifaceva a quella categoria più propriamente filosofica che è l’alienazione.

L’uomo della società moderna è alienato, cioè scisso, non in possesso di sé: questa è la consapevolezza fondamentale del Sessantotto. L’oppressione economica andava ricondotta ad altri tipi di oppressione più antichi e radicali, come quella dell’uomo sulla donna e via dicendo.

Bisogna d’altra parte ricordare che il Sessantotto si confrontò con il fallimento delle esperienze sociali scaturite dal rovesciamento dei rapporti capitalistici di produzione. Il socialismo di tipo sovietico era la dimostrazione di come quel rovesciamento non bastasse a liberare l’umanità, poiché i rapporti di oppressione si riproducevano anche in assenza di proprietà privata.

A una questione tanto conturbante parve fornire risposta l’esperienza cinese, la quale, contrapponendosi ideologicamente a quella russa, elaborò quei messaggi che avrebbero caratterizzato la cosiddetta Rivoluzione Culturale.

La trasformazione dei rapporti economici non è sufficiente a liberare l’umanità: occorre che l’uomo stesso sia trasformato, cioè rieducato a diventare qualcosa di diverso da quel che finora è stato. Bisogna che la disuguaglianza sia estirpata in profondità dal cuore degli uomini: per questo gli intellettuali erano mandati nei campi e così via.

Quella che, col senno di poi, sarebbe apparsa una delle vicende più devastanti della storia, fu vista allora come la straordinaria epopea della costruzione di una società finalmente libera. Dalla Rivoluzione Culturale cinese il Sessantotto ricavò il modello di un umanesimo fanatico, nonché l’idea che fosse vano attendersi un assetto stabile e soddisfacente insieme dei rapporti: neppure il socialismo, che inevitabilmente cristallizzava nuove forme di dominio. Non restava che una critica continua, un continuo appello a porre in discussione i rapporti intersoggettivi.

Sappiamo oggi come l’ideologia della mobilitazione permanente delle masse fosse funzionale a un feroce scontro di potere all’interno dei gruppi dominanti, per il quale furono pagati costi umani anche superiori a quelli in Russia. È pure chiaro che le immani distruzioni di quel periodo aprirono la strada a tumultuosi processi di modernizzazione della Cina che si sarebbero sviluppati in seguito in un diverso quadro. Non è stata però forse a sufficienza considerata l’influenza che la Rivoluzione Culturale esercitò sul modo di concepire le relazioni nelle ricche società occidentali. Un’influenza che non si è affatto esaurita col Sessantotto ma è proseguita in forme più sottili e in larga misura inconsapevoli fino a oggi.

Quale altro evento può aver così profondamente contribuito a imprimere la convinzione che tutto ciò che è depositato nella tradizione in merito alle relazioni fondamentali tra gli uomini, come il rapporto tra genitori e figli o tra maestri e allievi, meriti di essere sottoposto al dovere del sospetto e vada in ultimo scalzato?

 

La contestazione del Super-io

D’altra parte non si può negare che il Sessantotto europeo e soprattutto americano, più che a Marx, debba a Freud le sue categorie fondamentali.

A Freud si deve un certo tipo di antropologia e di visione della civiltà.

L’idea che l’uomo sia per natura costituito da pulsioni istintuali che chiedono il soddisfacimento fornì una comprensione della realtà e dei rapporti facilmente afferrabile e comunicabile, del tutto in accordo con il materialismo implicito nella civiltà moderna.

L’idea che questo tipo di visione possa costituire la premessa di un atteggiamento critico rappresenta il tratto più specifico e caratterizzante dell’ideologia del Sessantotto, ciò che connette la base essenzialmente materialistica con quell’idealismo talvolta estremo che ne ha accompagnato le manifestazioni.

Tale tratto è anche ciò che ha impedito di vedere fin da subito la solidarietà profonda che legava i movimenti giovanili all’esistente a cui pensavano di contrapporsi.

Una particolare suggestione la esercitò quello schema interpretativo dei conflitti dell’infanzia che Freud aveva ricavato da una disinvolta lettura della tragedia greca: il complesso di Edipo.

L’idea che il bambino, ovviamente maschio, sia primariamente mosso dal desiderio di congiungersi con la madre, e che il padre intervenga a impedire questa unione facendo sperimentare al bambino la durezza della legge e dell’autorità, diede forma alla convinzione che si stava facendo strada: che i rapporti di potere che si manifestano sul vasto teatro della storia affondassero le radici nella sfera interiore.

E poiché nei fatti il Sessantotto fu sotto molti aspetti un conflitto generazionale, i figli in rotta con i padri erano indotti a vivere la loro rivolta come una lotta con il Super-io, nella quale la posta in gioco era un tipo umano intimamente libero dal dominio.

 

Padri e figli

Il conflitto generazionale è in realtà in ogni tempo una manifestazione tipica di processi di modernizzazione in atto: i figli non si riconoscono più nei modelli tradizionali, di cui i padri si fanno ancora tenaci difensori. È accaduto più volte nella storia occidentale, allorquando un vecchio paradigma culturale è stato sostituito da uno nuovo: addirittura nel mondo antico, come nell’Atene dell’età di Pericle e nella Roma degli Scipioni.

Nel nostro caso abbiamo una generazione, quella di chi ha vissuto la Seconda Guerra Mondiale, ancora legata a un’etica dell’autosacrificio, che è in fondo un residuo arcaico ma proficuamente reinvestito nello sforzo di edificazione della Modernità. La generazione che fu coinvolta negli scontri ideologici e nei grandi traumi storici della prima metà del Novecento, venendone plasmata in alcune disposizioni di fondo: come chi non può accontentarsi di ricevere il mondo così com’è ma deve lottare per impadronirsene e trasformarlo. La generazione insomma che ha conferito slancio titanico alla società industriale e si attendeva, forse con eccessiva ingenuità, che i figli ne avrebbero goduto i frutti.

Da parte loro questi ultimi, come generalmente accade, si sono forse adeguati alle attese ben più di quanto si avvedessero. Solo che, per prendere possesso di ciò che era stato allestito, dovevano sbarazzarsi dell’etica del sacrificio.

Lo fecero nell’unico modo che il modello dei padri concedeva loro: nel quadro di una lotta ideologica. Immaginarono così di portare a termine una liberazione che i padri avevano tradito, e la parola d’ordine della rivoluzione ebbe per un’ultima volta significato e risonanza sulla scena mondiale. Quando poi questo involucro ideologico venne meno, la crisalide di un nuovo mondo poté mostrarsi sotto gli occhi costernati di tutti, ben diverso da come si sarebbe voluto vederlo.

Quello che era avvenuto è facile a dirsi: chi pensava di mettere in discussione l’esistente stava in realtà aderendo alla sua metamorfosi.

Il vecchio atteggiamento culturale, quello dell’autosacrificio, corrispondeva alla gloriosa ascesa della civiltà industriale, quando bisognava plasmare le coscienze nello spirito di rinuncia e irreggimentarle nelle produzione. L’orizzonte mentale era allora fissato a un’idea di penuria, intesa come condizione originaria da cui eroicamente l’uomo è chiamato a strappare le sue ricchezze, materiali e morali. Mezzi insostituibili erano dunque la concentrazione e l’autodisciplina.

Ma ora che l’orizzonte è mutato, e pare accogliere l’abbondanza frastornante di ogni bene, ora che le potenze rassicuranti della tecnica e delle riforme sociali mostrano di poter liberare l’umanità da quegli aspetti drammatici che in passato l’hanno funestata, tutto cambia per la coscienza individuale.

Per milioni di uomini e donne, in Europa e in America, compito fondamentale comincia a non più essere la produzione. A produrre sono sempre più le macchine, e uomini e donne e bambini di paesi lontani, dove il lavoro è a buon mercato.

Nelle metropoli dell’industrializzazione, da dove quest’ultima si è propagata al resto del pianeta, un nuovo compito è dato alle moltitudini: consumare.

La sovrabbondante massa di beni di ogni tipo, che un sistema produttivo sempre più discreto rovescia ininterrottamente sul mercato, deve trovare sempre maggiori capacità di smaltimento, pena l’incepparsi dell’intera macchina: questo il compito a cui le popolazioni americane ed europee si sono sentite chiamate.

Quando gli esponenti più radicali del Sessantotto avevano riformulato la vecchia parola d’ordine rivoluzionaria dell’abolizione del lavoro salariato, parlando senz’altro di abolizione del lavoro, non si rendevano conto di quanto stessero cogliendo il senso degli eventi.

 

Il trionfo della regressione

In realtà il lavoro è tutt’altro che abolito. Permane, con la stessa brutalità conosciuta dall’Europa dell’Ottocento, nelle aree mondiali che stanno realizzando oggi la loro eroica ascesa. E permane d’altra parte anche da noi, sempre più rarefatto e virtuale ma non meno presente nella vita di ogni giorno. La sua stessa crescente rarità, effetto dei processi di automazione, determina un’ansia diffusa che ne aumenta il valore simbolico.

Eppure qualcosa è cambiato. È cambiato in profondità, nella coscienza e negli atteggiamenti della gente.

Ci sono stati tempi in cui il lavoro poteva essere concepito come maledizione, e generazioni intere hanno vissuto l’esistenza come un sacrificio senza riscatto. Ma neanche nello stato di coscienza più oscurato, quelle generazioni hanno del tutto perso la speranza che il loro sacrificio non fosse vano, ma potesse generare un avvenire migliore per i figli. La stessa vicenda dei movimenti rivoluzionari, con tutto il loro senso di autosacrificio, non sarebbe pensabile senza quella disposizione.

Ciò che ora è cambiato è la percezione del valore temporale delle azioni.

In primo piano non è più il futuro ma il presente: un presente in cui sono date tutte le possibilità di appagamento.

Quello che sconvolgeva i vecchi operai di Torino durante il Sessantotto era che i giovani dicessero: vogliamo tutto, e lo vogliamo subito!

Il vecchio Edipo sotto questo aspetto rappresenta una struttura della coscienza temporale non più attuale: rinvia a un tempo in cui si deve attendere, subordinandosi con pazienza a una legge esterna fino ad averla sufficientemente interiorizzata da poterla a propria volta rappresentare.

La rivolta contro il padre manda in frantumi l’intera struttura: l’attesa è bruciata, non c’è più nulla da interiorizzare, l’individuo non ha più bisogno di alcun modello a cui rapportarsi.

Negata alla radice è l’esigenza di una guida, sia esterna sia interna. Qualsiasi ideale normativo dei comportamenti è limitativo, e dunque repressivo, del flusso desiderante che costituisce la vita psichica.

Se la legge del padre aveva quale funzione fondamentale impedire l’unione incestuosa con la madre, salvaguardando così l’ordine delle categorie mentali che impedisce di cadere nella confusione, l’uccisione simbolica del padre ha come conseguenza il diritto a trasgredire: il che ha effetti di enorme portata.

Mentre era al culmine l’ebbrezza ideologica con cui ci si strappava di dosso ogni vincolo del passato, non ci si avvide, o solo alcuni furono sfiorati dalla consapevolezza, di quel che di fatto era in corso: la solenne svendita dei sogni proibiti che costituiscono l’immaginario del moderno uomo secolarizzato, di cui a suo tempo i poeti maledetti furono allucinati profeti.

In vendita ciò che gli Ebrei non hanno mai venduto, ciò che né nobiltà né delitto hanno mai goduto, ciò che ignorano l’amore maledetto e la probità infernale delle masse; ciò che né il tempo né la scienza hanno da riconoscere;

Le Voci ricostituite; il destarsi fraterno di tutte le energie corali e orchestrali e le loro applicazioni istantanee; l’occasione, unica, di svincolare i nostri sensi!

In vendita i Corpi senza prezzo, al di fuori di ogni razza, di ogni sesso, di ogni discendenza! Le ricchezze che scaturiscono ad ogni passo! Saldo di diamanti senza controllo!

In vendita l’anarchia per le masse, la soddisfazione irreprimibile per dilettanti superiori; la morte atroce per i fedeli e gli amanti!

In vendita le abitazioni e le migrazioni, sport, fantasmagorie e comodità perfette, e il rumore, il movimento e l’avvenire che fanno!

In vendita le applicazioni di calcolo e i salti inauditi di armonia. Le trovate e i termini non sospettati, possesso immediato,

Slancio insensato e infinito verso splendori invisibili, verso insensibili delizie, – e i suoi pazzeschi segreti per ogni vizio – e la sua letizia spaventosa per la folla.

In vendita i Corpi, le voci, l’immensa opulenza incontestabile, ciò che non si venderà mai. I venditori non hanno certo esaurito la svendita! I commessi viaggiatori non hanno da rendere così presto la loro provvigione![6]

 

Tratto da: Cristiana Cattaneo e Claudio Torrero, Tornare e educare, Effatà Editrice, Cantalupa 2009

 

Note

[1] HERBERT MARCUSE, Eros and Civilization. A Philosophical Inquiry into Freud, trad. it. Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1964, p. 11.

[2] «Il «principio del piacere» assorbe il «principio di realtà»; la sessualità viene liberata (o meglio liberalizzata) in forme socialmente costruttive. Questa nozione implica che vi sono modi repressivi di desublimazione, a confronto dei quali gli impulsi e gli scopi sublimati contengono una maggior dose di deviazione, di libertà, e di rifiuto di dar retta ai tabù sociali» (HERBERT MARCUSE, One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, trad. it. L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Einaudi, Torino 1964, p. 91).

[3]  OSWALD SPENGLER, Der Untergang des Abendlandes, trad. it. Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano 1981.

[4] «L’imprenditore, il consumatore, il lavoratore, ognuno a suo modo, inseguono l’antica Magia che seduce Faust, e gli fa obliare se stesso in uno Streben che non ha mai fine e nel quale tutto si confonde con prepotenza. Il capitalismo è questo Faust sedotto da una manipolazione mercantile di tutto, che vuole solo estendersi» (GEMINELLO ALVI, Le seduzioni economiche di Faust, Adelphi, Milano 1989, p. 15).

[5] «[…] prima dell’epoca moderna, le forme in cui gli uomini organizzarono la creazione delle condizioni materiali della loro esistenza attrassero la loro condizione molto meno di quanto federo altri aspetti della loro esistenza organizzata. A differenza della parentela, della magia o dell’etichetta, con le loro fondamentali espressioni concettuali, l’economia in quanto tale rimase senza nome. […] Le stagioni portano i tempi del raccolto con le loro attività e le loro pause; il commercio di lunga distanza ha i propri ritmi di preparazione e di raccolta, conclusi dalla solennità del ritorno delle spedizioni; qualsiasi genere di manufatti, si tratti di canoe o di ornamenti preziosi, viene prodotto e infine impiegato da gruppi diversi di persone; ogni giorno si prepara il cibo sul focolaio domestico. Ognuno di questi eventi rappresenta un intreccio di aspetti economici. L’unità e la coerenza di questi aspetti non ha però un riflesso cosciente. Ciò perché le diverse interazioni tra gli uomini e il loro ambiente naturale hanno molteplici significati, uno soltanto dei quali è rappresentato dalla dipendenza economica. Possono essere operanti altre forme di dipendenza, più vive, più drammatiche o più intensamente sentite, che impediscono agli atti economici di formare un tutto significativo» (KARL POLANYI, Primitiv, Archaic and Modern Economies, trad. it. Economie primitive, arcaiche e moderne, Einaudi, Torino 1980, pp. 82-83).

[6] ARTHUR RIMBAUD, Solde, da Illuminationes, trad. it. di Ivos Margoni, da Rimbaud, oeuvres – opere, Feltrinelli, Milano 1964, p. 295.

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Set 07, 2018

 

Il Sessantotto e la Via di Mezzo

di Dharmapala

monaco buddhista

 

Ero negli anni sessanta troppo giovane per partecipare agli eventi, che pure mi attraevano irresistibilmente; così all’inizio dei settanta, appena adolescente, mi ci gettai a capofitto. Il Sessantotto italiano durò peraltro dieci anni ed ebbi tutto il tempo di crescere nel suo grembo.

Quando finì, a vent’anni avevo già vissuto il compimento di un grande ciclo, e al tempo stesso ero ancora troppo giovane per rimanerne vincolato. O forse l’inquietudine, da cui in quegli anni mi ero fatto guidare, mi sospingeva ancora altrove.

Iniziai, non da solo, un cammino che mi conduce ad oggi. Un tempo enorme pare trascorso, eppure quegli anni sono ancora lì pulsanti.

Tra quanti del Sessantotto hanno una percezione viva, o per averlo vissuto o per esserne davvero stati interpellati, ci si divide in due schieramenti.

Da una parte coloro che tuttora vivono dentro il mito in cui, come me, sono cresciuti, che ha determinato il loro accesso alla realtà. Per costoro quel che è venuto dopo è una sorta di lungo esilio, in cui il mito si fa lontano senza per questo perdere il suo carattere fondante.

Quel che nei fatti è accaduto si diversifica a seconda dei temperamenti e delle circostanze. Ci sono quelli che si sono semplicemente mantenuti fedeli, senza sapere a cosa ciò li conducesse. Poi quelli che, per un eccesso e un fraintendimento nella fedeltà, sono entrati in spirali distruttive: dal terrorismo alla droga. Infine quelli che del mito si sono serviti per carriere e arrampicate sociali.

In tutti questi casi, anche se gli esiti sono ben diversi, il mito resta tale: cioè un orizzonte di senso in cui si interpreta la realtà. Non si può esserne consapevoli perché si è al suo interno.

Il secondo schieramento comprende invece coloro da cui il mito è stato posto in discussione. Tra costoro ci sono quanti per una diversa prospettiva culturale ne hanno sempre diffidato, ma anche alcuni che vi hanno creduto, e che a un certo punto ne hanno preso le distanze.

Cosa si vede entro lo sguardo di costoro?

Si vede che il senso che a una mente lucida gli eventi mostrano non è quello che si attribuisce loro essendone coinvolti. Le grandi passioni non sono testimonianza inequivocabile di libertà: possono venire suscitate da precise strategie, i cui obiettivi sono spesso ben diversi da quel che viene esplicitamente dichiarato.

Consideriamo che la coscienza di chi visse il Sessantotto fosse di partecipare a un grandioso processo di emancipazione, senza pari forse nella storia umana. A essere posta in discussione era l’organizzazione della moderna società industriale, i suoi ordinamenti culturali ed educativi, e ancora più profondamente strutture che regolano la vita umana fin dalle società più antiche, come la famiglia e le norme sessuali. In quegli anni si visse l’ebbrezza di una svolta antropologica, da cui sarebbe uscita un’umanità restituita a una sorta di originaria innocenza.

Proviamo però a pensare che i processi stessi di modernizzazione richiedessero che ci si sbarazzasse di istituti ormai obsoleti, in modo da isolare gli individui e farne una massa informe di consumatori, che non riconoscono più alcuna legge se non quella dell’impulso immediato. Cosa di meglio che un grande movimento di emancipazione, che con la sua potenza d’urto liberasse il campo da tutto ciò – disciplina, educazione, famiglia, religione – che poteva essere d’intralcio?

Tra i due schieramenti – quello di chi vive dentro il mito e quello di chi lo critica – la comunicazione è quasi impossibile.

I primi vivono se stessi come una minoranza consapevole che si teme destinata alla sconfitta per l’inerzia e l’ottusità dei più, ovvero per le resistenze profonde che il cambiamento suscita. I secondi hanno ragioni ben più valide per attribuire a sé la consapevolezza, però si vivono impotenti a contrastare un corso di cui senza saperlo i primi sono battistrada. Pur appellandosi a un senso comune atavico, sanno che può essere sviato.

Chi, come me, è passato dal primo al secondo schieramento, può testimoniare della sua dignità, più difficile da riconoscere perché il primo ha comunque una forte presa sull’immaginario. Chi si identifica con un mito ha infatti sempre un vantaggio comunicativo su chi ne smaschera gli inganni: consente di continuare a sognare, il che talvolta è più importante che vedere le cose come stanno.

Tant’è vero che anche nel secondo schieramento, senza per lo più avvertirlo, si presuppone a propria volta un mito, sia pur di segno opposto: quello delle radici, o della tradizione. Se la situazione è insoddisfacente, è perché ci si è allontanati da quel che da tempo immemorabile costituisce il fondamento della convivenza.

Da una parte la rottura col passato e la proiezione in un futuro utopico. Dall’altra l’idealizzazione del passato. E allora?

Nella visione buddhista è inevitabile che la nostra mente funzioni per opposizioni. Ne abbiamo bisogno per orientarci nella vita di tutti i giorni. Dobbiamo sapere ad esempio cosa è valido e cosa non lo è per poter agire.

Accade però che gli opposti, qualora siano assunti come un rigido criterio di distinzione, producano una percezione della realtà limitata, quindi in ultimo non vera. Bisognerebbe adottare la Via di Mezzo, che non è un banale compromesso, ma la consapevolezza che quegli opposti, considerati isolatamente, non colgono la realtà nella sua ricchezza e ci tengono separati da essa. Occorre abbandonarli per potervi accedere. O reintegrarli in un quadro più ampio.

Nel nostro caso, a chi continua ad avvertire il Sessantotto come la grande esperienza liberatoria che ha scosso gli equilibri costituiti, potrebbe sfuggire una corretta comprensione delle condizioni che l’hanno prodotto e di quelle che ha contribuito a determinare.

Non avendo una visione lucida, il suo agire potrebbe ottenere risultati ben diversi da quelli che vorrebbe. Come ancora non molto tempo fa si producevano inferni pensando di realizzare il paradiso in terra, così certi ideali umanitari potrebbero oggi colludere con interessi di tutt’altro tipo.

Soprattutto non vede che effettivamente il Sessantotto ha lasciato, dal punto di vista sociale, culturale ed educativo, un panorama di rovine. La contestazione delle tradizionali forme di riproduzione della vita umana ha davvero contribuito al loro disgregarsi, senza peraltro fare emergere valide alternative. Il risultato è uno sgretolamento del tessuto sociale, che rende gli individui facile preda di poteri economici sempre più incontrollati.

Chi oggi rilancia l’ideologia dei diritti individuali in direzioni un tempo inimmaginabili si fa alfiere di un nichilismo di cui è irresponsabile sottovalutare il pericolo. Sotto questo aspetto chi vi resiste esprime una risposta sana, che andrebbe in ogni modo valorizzata.

C’è però anche dell’altro.

Quale che sia il giudizio sui cambiamenti storico-sociali, anche avendo completamente rigettato l’idea di progresso, nessuno ha il potere di fermarli. Si può pensare che l’economia e la tecnica andrebbero poste sotto controllo, che si dovrebbe impedire loro di stravolgere continuamente gli assetti della vita umana, ma nuovamente non possiamo stabilire se, come e quando ciò avverrà. In ogni caso il cambiamento è condizione naturale della vita, e quello che viene prodotto dai grandi apparati sociali non fa che amplificarlo. Dovremmo quindi prenderne atto, e vedere quale risposta efficace può essere elaborata. Una risposta che, prima che intervenire sulle condizioni esterne, dovrebbe modificare la coscienza.

In questa prospettiva può essere plausibile pensare che, proprio quando il cambiamento si fa più intenso, quando l’umanità si vede proiettata verso scenari sempre più lontani dal passato, si debba mantenere il legame con le radici, che paiono connetterci con quel che l’uomo è da sempre, al di là del cambiamento. Il ritorno alla fede religiosa è sotto questo aspetto ritorno alla tradizione: cioè al filo valoriale e sapienziale che connette le generazioni, proteggendole da ciò che le può disperdere.

D’altra parte le tradizioni stesse non sono immuni dal cambiamento. E non solo perché possono smarrire il loro nucleo più profondo, ma anche perché possono ritrovarlo. Una tradizione è anzi viva nella misura in cui sa rinnovarsi; laddove il rinnovamento non è semplice cambiamento, ma un modo più efficace, nelle condizioni culturali date, per riconnettersi all’origine.

Può darsi sotto questo aspetto che nel mito del Sessantotto ci sia una verità, che anche i più disincantati dovrebbe riconoscere.

Dopo la metà del Novecento il cambiamento era già tale che tutte le forme tramandate si mostravano inadatte a contenerlo. Ne scaturì la più grande rivolta generazionale della storia. Che fu senz’altro pilotata da poteri ben maggiori di quelli contro cui si abbatteva, e in questo davvero contribuì all’evoluzione del sistema anziché sopprimerlo. È lecito però negare che nel suo nucleo più profondo ci fosse un’aspirazione autentica? Tanto da scuotere i fondamenti di tutta la civilizzazione umana?

Bisognerebbe francamente riconoscere la dignità di filoni culturali ingiustamente emarginati.

Se ci rifiutiamo attribuire alla Modernità un valore a priori positivo, accettandone invece la problematicità, sono stati più che altro i pensatori tradizionalisti a gettar luce su di essa. È difficile del resto comprendere qualcosa se non si ha un diverso riferimento con cui confrontarla.

Quel che però forse a tali pensatori sfugge è che la Tradizione è a sua volta una realtà complessa, con una stratificazione e dei conflitti, e con innegabili sofferenze. Almeno dall’emergere delle grandi civiltà statali, la dimensione spirituale si trova spesso confusa con quella di apparati coercitivi che se ne appropriano con altri scopi. Tutte le grandi religioni storiche palesemente si confrontano col problema. E non si comprende forse la Modernità se non come sforzo di sciogliere quel nodo.

È ben vero poi che i nuovi rapporti di potere sono non meno gravosi. Non si può però negare che nella moderna società occidentale vi sia un principio di libertà sconosciuto altrove. Un principio che tutte le ideologie moderne – con l’ambiguità delle ideologie - hanno in vario modo affermato, e a cui la cultura che accompagnava il Sessantotto ha attribuito una portata antropologica. La liberazione non doveva essere solo da questo o quell’ordinamento, ma da strutture sedimentate nell’uomo stesso.

Il Sessantotto non fu del resto del tutto antitradizionale. Si rifiutava quel che appariva consuetudine svuotata, ma si cercava, come per coloro che andavano in India, strati culturali più profondi a cui attingere.  

Non esiterei insomma a dire che la rivolta ebbe anche un senso spirituale. Espresso in modo confuso, come quasi tutto: e per questo gli effetti distruttivi sono di gran lunga sovrastanti. È stato però il movimento che, con una diffusione planetaria mai vista prima, ha segnalato a tutti l’urgenza del rinnovamento. Sotto questo aspetto ne siamo più che mai interpellati.

Nel panorama inquietante dei nostri giorni, in cui la terra pare ribollire per una modernizzazione a cui nessuna zona è più in grado di sottrarsi, siamo ben lontani dall’aver chiaro quale senso spirituale vi si celi. Appare urgente, per scampare al diluvio dei beni materiali che ci sommerge, occuparsi dell’uomo. Il che significa investire in azione educativa, cioè finalmente rimettere in circolo quel bene più prezioso da cui da tempo si è sprovvisti. Ma non sarà possibile senza saper al contempo dire cosa l’uomo sia.

Venuta meno la fiducia che la cultura laica, di cui la Modernità era orgogliosa, sappia dirlo, piaccia o meno diamo per scontato tutti che spetti alle religioni. Ma queste ultime sono interpellate a loro volta a trovare dentro di sé una risposta che non sia scontata.

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