Fonte: https://mundo.sputniknews.com/

https://comune-info.net/

14 giugno 2018

 

La revolución del 1968 in América Latina

di Raúl Zibechi

Traduzione a cura di Camminar domandando

 

Può una rivoluzione apparentemente sconfitta cambiare il mondo più in profondità di quelle che hanno conquistato il potere dello Stato? Il '68 e l'irruzione degli invisibili in América Latina, il libro di Raúl Zibechi

 

Prima del 1968, di “mondiale” avevamo conosciuto soprattutto la guerra. Dovettero trascorrere venti lunghi anni perché quell’aggettivo così ambizioso potesse essere accostato a qualcosa di profondamente diverso. Non furono molti, allora, quelli che per raccontare quanto avveniva a Parigi, a Praga o a Pechino azzardavano l’utilizzo della parola “rivoluzione”, certo anche perché nessuno dei grandi sommovimenti di mezzo secolo fa riuscì a conquistare il potere degli Stati in cui era esploso. Eppure, a cinquant’anni di distanza, possiamo dire che difficilmente qualcosa ha cambiato il mondo più della cultura politica venuta alla luce in quelle rivoluzioni apparentemente sconfitte. Lo sguardo anticoloniale latinoamericano aiuta a comprenderlo, forse meglio che in altre geografie considerate magari più “epiche” dalla storiografia eurocentrica. Per questo è così straordinariamente interessante la rilettura del ’68 in Messico e in tutto il Sudamerica, soprattutto dove la presenza delle popolazioni indigene, nere e meticce conservava un alto profilo, che fa Raúl Zibechi nel suo secondo libro, “L’irruzione deli invisibili“, edizioni Piagge, uscito adesso anche in Italia. In questa settimana, Raúl è ancora in Toscana per presentarlo, un’occasione da non perdere per capire non solo perché dal ’68 in poi l’América Latina e il mondo non sono più gli stessi, ma soprattutto per orientare la rotta dei cambiamenti in profondità di oggi e di domani.

 

Solo se guardiamo al di sotto della linea di galleggiamento, puntando la lente d’ingrandimento sulla vita quotidiana, possiamo comprendere i cambiamenti profondi provocati dagli avvenimenti che si verificarono intorno al 1968, dando il via a un ciclo di lotte sociali con profonde ripercussioni politiche.

 

Un elenco delle nuove organizzazioni sociali sorte in quegli anni sorprenderebbe anche gli stessi protagonisti. Fu il periodo in cui si attivarono i popoli originari e afroamericani, ma anche i contadini e gli studenti, i sindacati operai e le guerriglie che seguirono le orme del Che Guevara, caduto in combattimento nell’ottobre del 1967 in Bolivia. In suo onore, Cuba proclamò il 1968 come «Anno del guerrigliero eroico».

 

Fra le grandi azioni popolari, nell’immaginario collettivo occupa un posto di rilievo il massacro di Plaza de las Tres Culturas a Città del Messico, che pose fine alle massicce proteste studentesche contro il regime che dovette assassinare centinaia di giovani perché non turbassero lo svolgimento dei Giochi Olimpici, inaugurati alcuni giorni dopo il massacro di Tlatelolco.

 

Nel contesto operaio, l’azione più importante ebbe luogo tre mesi dopo la fine di quell’anno, nel marzo 1969, quando circa 40.000 operai dell’industria automobilistica della città di Córdoba (Argentina) scesero per le strade sfidando il regime militare di Juan Carlos Onganía. Appoggiati dagli studenti, il 29 marzo gli operai occuparono il centro della città, sfuggirono alla polizia che esaurì i gas lacrimogeni, assaltarono commissariati, occuparono edifici pubblici e fronteggiarono le truppe che il governatore dovette chiamare per ristabilire l’ordine.

Il Cordobazo fu la sollevazione operaia più notevole dell’epoca; non fu vittoriosa ma costrinse la dittatura a iniziare la ritirata. La cosa più significativa è che nei mesi seguenti ci furono 15 sollevazioni popolari in una decina di città argentine, fra cui Rosario e Córdoba, che tornò ad essere protagonista di una nuova sollevazione nel 1971. Nelle fabbriche e per le strade, gli operai travolsero il controllo abitualmente esercitato su di loro.

In Colombia i contadini furono protagonisti di un’analoga rottura degli argini. Il presidente Carlos Lleras Restrepo (1966-1970) tentò una politica riformista in sintonia con l’Alleanza per il Progresso; di conseguenza aveva bisogno dell’appoggio del mondo contadino per promuovere dall’alto una riforma agraria che neutralizzasse i proprietari terrieri, refrattari al minimo cambiamento. Per questo promosse la creazione dell’Associazione Nazionale dei Contadini (Asociación Nacional de Usuarios Campesinos – ANUC), che secondo lui avrebbe dovuto ««istituzionalizzare le relazioni dello Stato con le classi popolari, e in particolare con il mondo contadino, che negli anni ‘60 cominciava a dimostrare una crescente iniziativa politica attraverso organizzazioni di categoria, mobilitazioni spontanee per la terra e appoggio diretto o indiretto alla guerriglia» (Zibechi, L’irruzione degli invisibili, edizioni Piagge, Firenze 2018, pp. 34-35).

 

Il mondo contadino invece approfittò dell’occasione per sottrarsi alla tutela del governo riformista di Lleras. Nettamente in rottura con i proprietari terrieri e anche con il governo, che cercava di conciliare interessi contrapposti, negli ultimi mesi del 1971 i contadini occuparono 645 fondi agricoli di grandi proprietari terrieri.

 

La terza grande rottura degli argini fu quella operata dagli studenti, che ebbe in Uruguay una delle sue maggiori espressioni. Nei cinque mesi che intercorsero tra la Marcia del primo maggio del 1968 e la chiusura dei corsi all’Università della Repubblica, all’Università del Lavoro e nelle scuole superiori, decretata da Jorge Pacheco Areco il 22 settembre, ci furono: 56 scioperi, 40 occupazioni, 220 manifestazioni e 433 attentati con “bombe” molotov e “bombe” di vernice, secondo le cifre riportate da Landinelli nel suo libro intitolato 1968: la revuelta estudiantil.

 

In maggio c’erano 10 licei occupati, due chiusi per sciopero, tre chiusi dal governo per evitare che venissero occupati, e gli scontri con la polizia erano quasi quotidiani. In luglio il governo decretò la militarizzazione dei funzionari statali addetti ad elettricità, acqua, idrocarburi e tele-comunicazioni, che erano in lotta, e si verificò la confluenza tra operai e studenti.

 

Sia lo Stato che le stesse organizzazioni studentesche e sindacali furono scavalcate dall’attivismo di base. Quell’anno furono assassinati gli studenti Líber Arce, Susana Pintos e Hugo de los Santos, un fatto inedito nella storia dell’Uruguay.

 

Intorno al 1968 emerse una nuova generazione di movimenti e di attivisti, molto più politicizzati e attivi dei precedenti. Buona parte delle organizzazioni che negli anni successivi svolsero un ruolo sociale e politico di rilievo nacquero in quegli anni. Citiamo alcune delle più importanti: il Movimento Julián Apaza in Bolivia, culla del katarismo; la Federazione delle Cooperative Edili di Mutuo Aiuto (FUCVAM) in Uruguay; il Consiglio Regionale Indigeno del Cauca, in Colombia, e l’Ecuarunari in Ecuador. Alcuni anni più tardi, ma sempre sotto l’influsso dell’ondata del ’68, sorgono le Madri di Plaza de Mayo, in Argentina, e il Movimento dei Lavoratori Rurali Senza Terra in Brasile.

 

Nel 1968, Paulo Freire scrive La pedagogia degli oppressi, che è l’atto di nascita dell’educazione popolare, e il sacerdote peruviano Gustavo Gutiérrez tiene una conferenza intitolata «Verso una teologia della liberazione», da cui prende le mosse la corrente religiosa che porta questo nome. Sul terreno del pensiero critico, sono gli anni dell’elaborazione e della diffusione della teoria marxista della dipendenza da parte dei brasiliani Ruy Mauro Marini e Theotonio dos Santos, e della formulazione della teoria della marginalità da parte di Aníbal Quijano, José Nun e Miguel Murmis.

 

Con questo gruppo di autori, il pensiero latinoamericano si presenta al mondo con carattere e lineamenti propri, nello stesso modo in cui il movimento sociale acquista maturità e modalità diverse da quelle del primo mondo.

 

Questo circolo virtuoso intorno al 1968 fu brutalmente interrotto dai colpi di Stato in Cile e Uruguay nel 1973 e in Argentina nel 1976, e dalla repressione in quasi tutti gli altri paesi. Ma provocò cambiamenti molto profondi, sia nelle società che nel sistema politico.
In primo luogo, delegittimò le vecchie oligarchie e le destre, nonché buona parte delle forze che appoggiavano gli Stati Uniti. Anche se i cambiamenti non furono immediati, le basi su cui governavano quelle oligarchie furono erose dall’irruzione delle nuove generazioni di giovani.

 

In secondo luogo, l’irruzione di nuovi soggetti collettivi, fra cui donne, indigeni, afro-discendenti e giovani occupano un posto di primo piano, diede il via a un’ampia contestazione del patriarcato e delle relazioni coloniali di potere. Come sottolinea il sociologo Immanuel Wallerstein, dopo il 1968 «i ‘popoli dimenticati’ iniziarono a organizzarsi come movimenti sociali e anche come movimenti intellettuali».

Il terzo punto è costituito dai cambiamenti culturali che si produssero a partire dagli anni ’60, che possiamo riassumere in una minore legittimazione dell’imperialismo, dell’autoritarismo e di tutte le forme di dominazione, in un ampia gamma di ambiti diversi, dalla famiglia e la scuola fino ai luoghi di lavoro e alle istituzioni.

 

Stiamo ancora vivendo, o subendo, se così si vuol dire, le conseguenze del ’68. Da allora in poi, nulla tornò ad essere come prima. I potenti ebbero più difficoltà ad imporre il loro volere; i dominati tendono a uscire da questa loro condizione. Il mondo, nel bene o nel male, è un luogo meno stabile e più caotico; ma i cambiamenti sono diventati la norma nelle nostre società.

 


 

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