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29 Marzo 2018

 

Intervista a mia madre sul Sessantotto

di Andrea Pomella

 

Mentre mia sorella, mia moglie, mio cognato e i bambini mangiavano i bignè, a mia madre ho detto: “Sediamoci sul divano”. Glielo avevo preannunciato al telefono: “Ti farò due domande sul Sessantotto, mi racconterai quello che ricordi, niente di impegnativo”. Ma la sola idea l’aveva messa in apprensione. “È passato tanto tempo”, aveva sussurrato. 

Mia madre non era nel movimento, non partecipò alla battaglia di Valle Giulia. Nel 1968 aveva diciotto anni, viveva in un paese a venti chilometri da Roma, aveva lasciato la scuola a quindici e non pensava alla Primavera di Praga né alla rivoluzione culturale cinese. Era l’ultima di sette fratelli, tre maschi e quattro femmine, figli di un fornaciaio e di una materassaia immigrati dall’Abruzzo. 

 

A quel tempo lavorava in un laboratorio farmaceutico come confettatrice. “Iniziamo da questo”, le ho detto, sistemandomi il portatile sulle gambe. “Sai cos’è una confettatrice?”, mi ha chiesto. “È l’operaia che dà il colore alle pastiglie. Le bagnavo tutto il giorno con acqua e zucchero e alla fine aggiungevo il colore”. Sapevo che mia madre, prima che nascessi, aveva lavorato nell’industria farmaceutica, ma non sapevo che fosse una confettatrice. Ho cercato il significato della parola sulla Treccani, c’è scritto: “Macchina con cui si esegue la confettatura”. Mia madre era una macchina. 

 

“Eravamo una cinquantina di operaie, tutte donne. Ci avevano scelto sulla base di un unico criterio: dovevamo essere vedove o nubili, lo stipendio che ci passavano a fine mese doveva essere la nostra unica ragione di vita”, ha rievocato con malcelato rancore. “Lavoravamo dalla mattina alla sera, eravamo ricattabili in qualsiasi momento. In fabbrica non c’era il sindacato, quando cinque di noi presero la tessera della CGIL, ci licenziarono. Facemmo causa e la vincemmo, il giudice ci reintegrò. Ma a quel punto ci rinchiusero tutte e cinque in una stanza, lontano dai laboratori. Avevamo il divieto di avvicinarci agli stabilimenti. Il lavoro che ci affidarono serviva solo a mettere alla prova i nostri nervi: dovevamo staccare le etichette dalle bottiglie vuote”. Ha fatto una pausa e le è venuto in mente un aneddoto: “In quel periodo il direttore fu arrestato perché aveva messo in vendita un farmaco senza l’autorizzazione del ministero. Noi andavamo a lavorare ma restavamo tutto il giorno in sala d’aspetto, gli stabilimenti erano sotto sequestro. Quando il direttore fu rilasciato ci disse: «Ho salito il gradino di Regina Coeli, adesso sono un vero romano». Resistetti ancora per poco, poi quando la sede della società fu spostata a Pomezia mi licenziai. Avevo lavorato lì per nove anni”.

 

Le ho chiesto se, pur facendo quella vita, le arrivasse l’eco del profondo sommovimento che scuoteva la società italiana, la spinta che invocava una radicale modernizzazione del paese. La miccia era stata accesa dagli studenti universitari già nell’autunno del ’67 con le occupazioni degli atenei di tutte le principali città del centro-nord. “Avevi percezione di tutto questo?”.

“Noi volevamo aderire al Sessantotto, certo”, mi ha risposto (come se si possa aderire a un anno, combaciare con esso, come un cerotto sulla pelle, o dichiararsene seguaci o sostenitori, spalleggiare un’idea, un concetto che nella sua intima materialità è fatto dell’immaterialità dei giorni), “ma incontravamo l’ostruzionismo delle più anziane che temevano di perdere il lavoro”. Il Sessantotto visto da una ragazza di provincia era questo: uno tsunami che seduceva e al contempo spaventava. “Una volta partecipammo a una manifestazione a Roma, ci sentivamo come se ci avessero invitato a una festa a cui mai avremmo immaginato di partecipare”.

 

Andare a Roma per quelle ragazze doveva essere come andare verso il sole, mirare al cuore del mondo. “Che il Sessantotto fosse un anno eccezionale lo abbiamo capito dopo. Non era un fatto singolo, un evento che te lo ricordi per tutta la vita. Erano tante cose insieme accadute prima, durante e dopo quell’anno, e che in seguito avremmo racchiuso sotto il nome di Sessantotto. Lo sbarco sulla Luna, avvenuto l’anno dopo, per esempio, me lo ricordo poco. Successe di notte e io andai a dormire perché la mattina dovevo lavorare. Quando nel ’63 morì Kennedy, invece, avevo appena tredici anni ma me la ricordo bene”. 

Ho guardato mia madre per un momento pensandola all’interno di quel flusso storico che sono stati gli anni Sessanta del Novecento. È difficile immaginare una madre nella Storia, collocarla in un tempo extradomestico, perlomeno una madre come la mia, una madre come tante, non una Simone de Beauvoir, ma una confettatrice.

 

Le ho detto di parlarmi della musica. Da bambino mi opprimeva con le canzoni degli anni Sessanta. La mia generazione è cresciuta tutta allo stesso modo, schiacciata da una dittatura musicocratica. “Ascoltavo i Beatles, i Rokes, Gianni Morandi, Mina, Rita Pavone, i Camaleonti, i Dik Dik. Nel tempo libero uscivo poco, mio padre mi costringeva a rientrare al massimo alle diciotto, «quando si fa notte», il che voleva dire che d’estate potevo tirare fino alle ventuno. La domenica pomeriggio andavamo a ballare nelle balere, il Cha cha cha, l’Alligalli, il Ballo della mattonella. In quel periodo iniziavano ad aprire le prime discoteche, come il Piper, dove però non ho mai messo piede perché i miei fratelli non me l’avrebbero permesso”. 

Mia moglie ci ha offerto il vassoio con i bignè. “Ne avete ancora per molto?”. “Abbiamo quasi finito”, le ho risposto. Volevo sentire ancora la voce di mia madre su una questione importante: ciò che è venuto dopo, ossia gli anni di piombo, il terrorismo, la violenza politica, la strategia della tensione, le bombe, la rivoluzione che aveva cambiato aggettivo, e che da culturale era diventata armata. “Nei primi tempi”, ha detto mia madre, “pensavamo che le Brigate Rosse fossero nel giusto, poi abbiamo capito come stavano le cose. La nostra gioventù è finita lì. Nel ’72 mi sono sposata e nel ’73 sei nato tu”. Aveva ventitré anni mia madre quando sono nato io. Mi ha fatto una certa impressione immaginare la mia nascita posta accanto al dilagare della lotta armata, entrambi i fenomeni (privato e pubblico) a suggellare la fine di un’età irripetibile.

 

Dunque, quando il mondo era impegnato a sognare, mia madre lavorava tutto il giorno in una fabbrica. Quante occasioni offre la Storia di avere diciott’anni in un periodo così vivo, pulsante, creativo, luminoso? A quanti, tra tutti gli esseri umani che nei secoli hanno vissuto sulla Terra, è capitato questo? Quanti hanno avuto in sorte di essere giovani quand’era giovane il mondo? Mia madre è stata tra questi, ma mentre la osservavo seduta sull’orlo del divano di casa mia, con le ginocchia strette e le dita intrecciate, cinquant’anni esatti dopo il Sessantotto, ho capito che a lei non è stato concesso di avere sogni, e se li aveva (ma certo che li aveva) era stata educata a svilirli. La Storia spesso è un’astrazione che non coincide con la pratica quotidiana del vivere. Allora mi è tornata in mente una frase di Walter Benjamin: “Gli dica di rispettare i sogni della sua giovinezza quando sarà uomo”. A lei però non l’ho pronunciata quella frase. Ho detto solo: “Va bene, basta così”. Al che mia madre ha sospirato. Poi ci siamo alzati dal divano e siamo tornati a noi.

 

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