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10/07/2017
Turchia: disobbedienza civile vs autoritarismo
di Andrea Carteny
docente di Storia dell'Eurasia presso la Sapienza Università di Roma
In un momento in cui la Turchia sembra aver ritrovato la sua affidabilità – mantenendo fede agli impegni di contenimento del flusso di rifugiati dalla Siria – e dinamicità internazionale – con il sostegno al Qatar all'interno della crisi esplosa nella penisola arabica –, il governo di Recep Tayyip Erdogan pare aver trovato un nuovo avversario interno capace di canalizzare le non poche resistenza alla svolta autoritaria seguita al fallito golpe del 15-16 luglio 2016.
Sembra davvero che la Turchia kemalista e laica, tenuta però alla porta dell'integrazione europea, sia stata sconfitta dal ritorno alla Turchia ottomana e tradizionale (come riaffermato da Antonello Biagini nella nuova edizione appena pubblicata della 'Storia della Turchia contemporanea').
Il risultato è una transizione al passato e a un modello autoritario, accelerata dalla repressione seguita al fallito golpe dello scorso anno e rilanciata con la controversa vittoria al referendum costituzionale per la riforma in senso presidenziale dello Stato tenutosi il 16 aprile scorso. Il risultato positivo di stretta misura per l'iniziativa presidenziale - non considerato conforme agli standard minimi dagli osservatori internazionali e contro cui hanno fatto ricorso le opposizioni per brogli nel voto – permette al regime, nonostante tutto, di proseguire nell'opera di epurazione della società turca, emarginando e reprimendo ambienti e individui percepiti come eventuali oppositori del presidente ed 'agenti' terroristici, nonché minacciando di convocare un ulteriore referendum per il ripristino della pena di morte, nel caso in cui il Parlamento non avesse la maggioranza per approvare questo provvedimento.
Stato d'emergenza e politiche di repressione
Il procrastinarsi dello stato d'emergenza, rinnovato a metà aprile per ulteriori tre mesi, ha permesso infatti al governo di aumentare il controllo sui media e sulla società civile, oltre che sui partiti politici. Wikipedia e social media rimangono interdetti all'accesso nel Paese: con oltre 80 giornalisti in carcere, la Turchia è salita alle prime posizioni del ranking internazionale per politiche di repressione della stampa.
L'intimidazione è inoltre estesa anche a giornalisti e scrittori stranieri: i governi di Italia, Germania e Francia si sono trovati nei mesi passati ad intervenire presso l'esecutivo di Ankara per chiedere notizie e la scarcerazione di cittadini europei, messi in stato di fermo senza specifiche accuse anche soltanto per trovarsi nelle zone del sud-est anatolico, dove vige uno stato di allerta militare anti-terrorismo contro le formazioni armate del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). L'ultimo atto di questi giorni riguarda il fermo degli esponenti (turchi e stranieri) al vertice di Amnesty International in Turchia, accusati di vicinanza all'oppositore Fetullah Gulen.
Intanto, la convocazione di una marcia per la giustizia ('Adalet') e la democrazia da parte del maggiore partito d'opposizione, il kemalista Partito repubblicano del popolo (Chp) guidato da Kemal K?l?çdaro?lu, ha portato per settimane in strada migliaia di persone nelle più grandi città turche, da Ankara verso a Istanbul, per un percorso di circa 450 chilometri. I marciatori si sono diretti fino al carcere di Maltepe, dove è imprigionato il deputato e vicepresidente del Chp Enis Berbero?lu, a seguito della condanna a 25 anni di reclusione emessa il 14 giugno scorso, per aver attentato alla sicurezza nazionale: il giornalista aveva diffuso attraverso il quotidiano 'Cumhuriyet' alcuni video secretati, denunciando il traffico di armi tra la Turchia e le milizie in campo nella guerra in Siria.
Manifestazioni di piazza contro Erdogan
È questa la prima iniziativa di disobbedienza civile della Turchia moderna, convocata dalla principale forza di opposizione e a cui hanno aderito gli esponenti sia del Partito democratico dei popoli (Hdp, organizzazione politica filo-curda che vede 10 suoi deputati in stato di arresto con l'accusa di connivenza con il Pkk, e che ha invitato i manifestanti a proseguire la marcia fino al carcere di Edirne, dove è rinchiuso il popolare co-leader Selahattin Demirtas), sia i tanti cittadini che non accettano le 'purghe' di massa messe in atto nella pubblica amministrazione all'indomani del tentato golpe (circa 90 mila i licenziamenti fra i dipendenti pubblici). I segnali di un coinvolgimento sempre più ampio della società, che si riscontra anche nell'adesione di sindacati e industriali all'iniziativa, sono sottolineati dagli osservatori internazionali sul posto (come testimoniato giornalmente da Mariano Giustino, inviato di Radio Radicale).
Di fronte al sostegno espresso dalle tante persone che hanno accompagnato la marcia, si sono registrati tuttavia non pochi momenti di provocazione, con attivisti governativi e nazionalisti che hanno lanciato pietre e oggetti contro i manifestanti, spesso esibendo la mano a forma di 'rabia' (le quattro dita distese con il pollice piegato all'interno della mano), simbolo dei Fratelli musulmani in Egitto e ora rielaborato in chiave nazionalista turca.
Scioperi della fame e manifestazioni non violente sono in atto in queste settimane nel Paese: in particolare, Nuriye Gülmen (docente universitaria) e Semih Özakça (maestro di scuola elementare) sono i due insegnanti – prima licenziati e poi arrestati – arrivati a oltre 100 giorni di digiuno. Decine di suicidi sono stati segnalati dal Chp come conseguenza del licenziamento (e del disonore) di quei militari e poliziotti accusati di coinvolgimento negli ambienti golpisti. La società turca è infatti colpita pesantemente dai provvedimenti di polizia con accuse di terrorismo (per legami con il Pkk) e di sovversione per connivenza con l'organizzazione considerata responsabile del tentato colpo di Stato, la confraternita 'Cemaat' (chiamata comunemente 'Izmet', il 'servizio') del leader spirituale Gulen, residente negli Stati Uniti dal 1999.
Braccio di ferro tra due Turchie
È in questo contesto che la marcia per la giustizia e la democrazia può diventare la cornice per un movimento nazionale.
I timori per una partecipazione di massa sono stati stigmatizzati dal presidente Erdogan, che ha paragonato la marcia al tentato golpe del 2016, ma anche dal Partito di azione nazionalista (Mhp) ormai sempre più allineato alle posizioni governative del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) di Erdogan. La divaricazione della società turca e la tensione nel Paese si rispecchiano in una polarizzazione sempre più evidente nella politica, in cui all'asse pro-Erdogan dell'Akp-Mhp si contrappone un inconsueto avvicinamento dei kemalisti del Chp con gli ambienti filo-curdi dell'Hdp.
Sembra soprattutto un braccio di ferro tra movimento democratico (non violento) e regime erdoganiano, che ancora una volta oppone una concezione di Turchia europea (laica e democratica) a una Turchia asiatica (musulmana e autoritaria).