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Sumud freedom camp di Judy Maltz
Giovani ebrei americani arrivano in Israele per lottare contro l’occupazione. Una storia di coraggio e perseveranza di ebrei e palestinesi Fadel Amer prepara la cena nella sua grotta per un misto inusuale di ospiti: giovani attivisti sociali dal Nord America, dirigenti della resistenza popolare non violenta palestinese e un ex combattente israeliano. Sarà un pasto semplice di pomodori stufati, fave, hummus e pane pita. Ma Amer pensa che è il minimo che può fare per ringraziare coloro che hanno dedicato tempo e sacrificato comodità per unirsi alla sua lotta. Amer è nato in questa vera e propria grotta nel villaggio di Sarura, 55 anni fa. E’ ciò che ne rimane oggi. Circa 20 anni fa gli abitanti del piccolo villaggio sulle colline a sud di Hebron, spaventati dalla violenza dei coloni e dal giro di vite dell’esercito israeliano, raccolsero le loro cose e se ne andarono. Sarura è uno delle decine di villaggi vicino alla città palestinese di Yatta, i cui residenti, che abitavano le grotte, venivano – e in alcuni casi tuttora sono – minacciati di evacuazione e esproprio. Adesso, con l’aiuto di una nuova coalizione formatasi di recente tra gruppi di ebrei e palestinesi contro l’occupazione, cercano di ritornare. La scorsa settimana un gruppo di circa 300 palestinesi, ebrei israeliani e della diaspora hanno unito le proprie forze con le famiglie originarie di Sarura per costruire il Sumud Freedom Camp (“sumud” in arabo vuol dire “perseveranza”) sul terreno dell’antico villaggio. Loro obiettivo è rendere Sarura di nuovo abitabile in modo che gli antichi abitanti possano tornare. Partecipano all’iniziativa due gruppi di ebrei contro l’occupazione – Il Centro per la nonviolenza ebraica e Tutto ciò che è rimasto – insieme con due organizzazioni palestinesi che promuovono la resistenza non violenta – Giovani contro gli insediamenti e Holy Land Trust – e inoltre i Combattenti per la pace, un gruppo di attivisti pacifisti palestinesi e israeliani. Inoltre si sono uniti circa 130 attivisti politici e sociali delle comunità ebraiche all’estero – prevalentemente negli Stati Uniti – per una iniziativa prevista per il 50° anniversario dell’occupazione israeliana.
Questo padre di 10 figli, con una khufia bianca e nera sul capo, Amer è diventato il caso emblematico per gli attivisti. E’ il primo residente di Sarura che ritorna nella sua precedente dimora. Negli ultimi giorni, con l’aiuto degli attivisti accampati fuori, la grotta dove è nato e cresciuto è diventata di nuovo uno spazio vivibile. E dice che nei prossimi giorni alcuni dei suoi cugini e nipoti pensano di seguire il suo esempio e tornare lì. “Sono nato qui e qui morirò” dichiara Amer. La sera l’aria è fredda e gli abitanti del campo hanno indossato maglioni e acceso falò. I fuochi forniscono anche la luce dal momento che qui non c’è elettricità. Il giorno in cui sono arrivati sono state piantate quattro tende: due per metterci materiali; una per dormire; e un’altra come posto di osservazione, nel caso che visitatori sgraditi volessero creare problemi. Il campo Sumud è situato a poche centinaia di metri da Havat Ma’on, un avamposto illegale con precedenti di ostilità nei confronti della popolazione locale palestinese. Domenica scorsa, dopo due giorni tranquilli, non disturbati, le truppe israeliane hanno attaccato il sito, buttando giù tre delle quattro tende e confiscando il generatore che gli attivisti avevano portato con loro. Una delle tende è stata rimessa in piedi, ma dopo pochi giorni le truppe israeliane sono tornate e l’hanno di nuovo buttata giù. Ai residenti del campo Sumud è stato detto che il loro accampamento era illegale ma non è stato loro consegnato nessun ordine scritto dell’esercito. Durante lo scontro del mattino, Isaac Kates Rose, un canadese-ebreo è stato arrestato per due ore, dopo che aveva tentato di bloccare i soldati. I residenti di Sumud camp hanno raccontato che è stato rilasciato dopo che loro hanno risposto positivamente ad una richiesta dell’esercito di abbattere la loro tenda di guardia. Quest’ultimo contrattempo non ha tuttavia influenzato la decisione di restare finché tutti residenti non siano tornati nelle loro case di origine. “Stiamo qui fino alla fine” dice Ashley Bohrer, un organizzatore di campagne per il Center for Jewish Nonviolence uno dei piccoli gruppi di attivisti che hanno passato ogni notte nel campo da quando è stato istallato. E’ un cammino accidentato e pericoloso quello verso il campo, situato a circa un chilometro sulla strada per Atwani, percorso nel modo migliore con una jeep. La sera prima della seconda visita dell’esercito una decina di attivisti si stavano congelando in una grande tenda eretta proprio fuori dalla grotta di Amer, con una bandiera palestinese attaccata ad un’asta proprio nel centro. Stavano in gruppo su materassi per terra. Alcuni bevevano tè alla salvia in bicchieri di plastica per riscaldarsi, altri si passavano un narghilè, mentre i pochi fortunati con una batteria sul cellulare ancora carica contattavano il mondo esterno.
Grida di gioia si sono sentite quando le lampadine improvvisamente si sono accese: “Hey, ha gridato in inglese un giovane attivista – possiamo ricaricare i telefoni! E’ tornata l’ elettricità”. Era successo che Amer aveva usato i suoi contatti per collegarsi al generatore di un vicino villaggio palestinese. L’elettricità sarebbe stata disponibile per tre ore. Bohrer, di 28 anni, indossa una maglietta viola con la scritta “Occupation is Not Our Judaism” (l’occupazione non è il nostro giudaismo). Il suo cammino per diventare una stella ebrea del movimento di solidarietà palestinese non è stato immediato né ovvio. E’ cresciuta a Los Angeles in una famiglia appartenente allo Chabad (il movimento ortodosso all’estero). Dopo aver iniziato lo studio dell’ arabo alla George Washington University, racconta che “ho cominciato a guardare con occhi nuovi l’orrore e la brutalità dell’occupazione.” La prima risposta a questo risveglio è stata di negare la sua identità ebraica. E’ stato solo durante la guerra su Gaza dell’ estate 2014 quando per la prima volta ha incontrato persone della stessa fede che la pensavano come lei, che ha capito che essere Ebrei non contraddiceva con l’opposizione all’occupazione. “Mi si è aperto un mondo” Bohrer, che insegna filosofia all’Hamilton College a New York, già lo scorso anno era stata coinvolta in una analoga collaborazione tra attivisti palestinesi e ebrei antioccupazione, prevalentemente della diaspora, per costruire un nuovo cinema ad Hebron. Un anno prima aveva partecipato ad un’altra iniziativa comune per ripiantere ulivi di proprietà palestinese, sradicati dai coloni. Un fondatore di Tutto ciò che rimane Kates Rose si è trasferito a Gerusalemme quattro anni fa dopo la laurea all’Università di Toronto per essere più vicino all’occhio del ciclone. Oggi è attivo come organizzatore presso il Centro per la nonviolenza ebraica. Le radici del suo attivismo sociale, dice, sono nella casa a Toronto. “Potrei dire che tutto è cominciato con un magnete che mia madre teneva sul frigorifero, che diceva: “Sii gentile – Nessuna eccezione” Antwan Saca, direttore dei programmi di Holy Land Trust, basata a Betlemme – organizzazione palestinese dedicata alla resistenza nonviolenta – qui ha l’incarico di seguire i social. Mette in streaming tutti gli incontri e gli scontri con l’esercito israeliano sulla sua pagina Facebook. Grazie a questo più di 15.000 visitatori hanno seguito gli scontri del giovedì mattina. Saca non trova strano che ebrei abbiano unito le forze con lui per opporsi all’esercito israeliano. “Quando gli ebrei hanno marciato con Martin Luther King jr. per sostenere i diritti civili negli Stati Uniti, quello è stato un modello per noi”. Elie Avidor è arrivato relativamente in ritardo nel mondo dell’attivismo politico. Il 66enne consulente per la sicurezza antincendio che si è unito ai Combattenti per la Pace un anno fa, ha passato le ultime due notti nel campo, insieme a persone che in media hanno meno della metà dei suoi anni. Avidor, che ha combattuto sulle Alture del Golan nel 1973, guerra di Yom Kippur, ha trascorso 20 anni in Stati Uniti e Canada, prima di tornare, dieci anni fa, a Tel Aviv. “Quello che mi ha fatto diventare un attivista è stata la partecipazione al mio primo servizio durante il Memorial Day Israelo-Palestinese lo scorso anno. Non puoi andare a un evento così e non commuoverti. Così dopo quel’ esperienza mi sono chiesto che cosa poter fare per aiutare a cambiare le cose.” E se gli chiedi quanto è attivo nella sua organizzazione, Avidor risponde con un sorriso: “Mia moglie direbbe “troppo attivo”!
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