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28 maggio 2017

 

Acqua e sale. Hanno vinto i prigionieri palestinesi

di Bassam Saleh

 

Un carissimo amico palestinese, la mattina di sabato 27 maggio, mi comunica la notizia che i prigionieri politici palestinesi, nelle carceri israeliane, hanno sospeso lo sciopero della fame iniziato il 17 aprile scorso, per la libertà e la dignità. Un attimo di esitazione prima di dire qualcosa, poi, con un grande sollievo, rispondo: hanno vinto, ha vinto la loro volontà contro i loro carcerieri, ha vinto la vita, e la resistenza che continua.

40 giorni di sciopero, il più lungo sciopero di massa nelle carceri israeliane; 1800 prigionieri hanno vissuto nutrendosi solo di acqua e sale, e tanta determinazione e voglia di libertà. Le autorità d’occupazione che hanno girato la faccia dall’altra parte, rifiutando di trattare con la leadership dello sciopero, hanno dovuto piegarsi alla volontà di chi ha come unica arma di lotta la sua propria vita. Il governo israeliano si è visto isolato e sotto pressione a livello popolare in tutto il mondo, un po’ meno a livello dei governi, e ha dovuto rivedere la sua posizione e accettare la trattiva con il leader del movimento dei prigionieri Marwan Barghouti, e gli altri dirigenti dello sciopero. Una trattativa, come riferiscono le fonti ufficiali palestinesi, durata 20 ore nel carcere di Ashkalon. Alla fine i prigionieri hanno ottenuto la firma israeliana sulle loro legittime richieste, e hanno deciso di sospendere lo sciopero.

L’auspicio è che il governo di occupazione rispetti questo accordo. I dubbi non mancano, ma dobbiamo sperare, forti della grande esperienza di questi 40 giorni, che ha ridato vitalità a tutto il movimento nazionale palestinese. Lo dimostrano le manifestazioni in sostegno allo sciopero e di protesta contro l’occupazione in tutta la Palestina, come è stato anche in tantissime città del mondo.

Questi 40 giorni rimarranno incisi nella memoria collettiva palestinese, anche perché il mondo si stava occupando del nuovo presidente americano e dei suoi incontri alla Casa Bianca, anche con il presidente palestinese Abu Mazen, in preparazione di quel viaggio che ha alimentato tante speranze. E poi la visita di Trump in Arabia Saudita e i tre vertici “cucinati” in due giorni: saudita-statunitense,  Usa-Consiglio di cooperazione dei Paesi del Golfo, e infine vertice arabo-islamico in presenza di Trump. Risultato: commesse americane che ammontano a 460 miliardi di dollari. Politicamente, neanche una parola sui prigionieri in sciopero della fame. Anzi, Trump ha messo anche Hamas insieme a Hezbollah e Iran tra i gruppi terroristi. Quindi la necessità di creare un patto sunnita – americano per combattere l’Iran, o meglio l’asse sciita, relegando la causa palestinese in secondo o in terzo piano; di conseguenza Israele non è più il nemico del mondo arabo. Ancora, Trump vola direttamente da Riyad a Tel Aviv, un fatto mai successo nella storia dei rapporti degli Usa con i Sauditi. 

In Israele e in Palestina Trump non parla né della soluzione dei due Stati né di Gerusalemme e tantomeno degli insediamenti coloniali. Parla genericamente di pace senza definire questa pace. 

In questo contesto di politica regionale, lo sciopero della fame è stato determinante per smascherare la vera faccia dell’occupazione, che non rispetta i diritti umani né le convenzioni internazionali, e ha dimostrato l’impotenza della grande potenza mondiale che non è in grado di esercitare neanche un minimo di pressione sul governo israeliano; allora quali garanzie i palestinesi possono avere dagli Usa o dagli arabi per un futuro negoziato? Se ai nostri prigionieri non vengono riconosciti i minimi diritti umani, chi può garantire che Israele rispetti un futuro accordo con i palestinesi?

La risposta di Al Fatah alle massicce pressioni nei confronti dei prigionieri, che fece Trump chiedendo di non pagare il vitalizio ai prigionieri e alle loro famiglie, è che il consiglio rivoluzionario di Fatah ha approvato la proposta del comitato centrale di nominare Younis Karim membro del comitato centrale dell’organizzazione. Karim è stato arrestato nel 1983 e condannato all’ergastolo; doveva essere liberato in base agli accordi tra l’Anp e il governo israeliano, ma quest’ultimo ha rifiutato di rilasciarlo insieme ad altri 14 detenuti. Karim viene considerato il decano dei prigionieri per i suoi 35 lunghi anni in carcere. 

L’unità d’azione dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane è il modello più convincente per l’unità nazionale palestinese. Oggi i prigionieri ci hanno regalato una vittoria sul cammino lungo verso la libertà e la dignità. La lotta continua. 

 

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