http://zeitun.info/ Marzo 2, 2017
La tormenta gialla in Israele Traduzione di Amedeo Rossi
Nota redazionale: Nel giugno 2016 lo scrittore peruviano e premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa ha scritto una serie di reportage dalla Palestina per il quotidiano spagnolo “El País”. Dal suo viaggio è stato tratto anche il documentario “Cinco días con Mario” (“Cinque giorni con Mario”). I redattori di Zeitun non condividono alcune affermazioni contenute in questi testi per quanto riguarda i giudizi su Israele (tra cui ad esempio le notazioni finali sulle virtù del Paese, che ignorano il fatto che il 20% dei cittadini israeliani, soprattutto non ebrei, si trova sotto il livello di povertà ed il razzismo che colpisce tuttora gli ebrei sefarditi e quelli etiopi: vedi http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4753118,00.html; https:// en. wikipedia. org/wiki/Racism_in_Israel) e su alcuni degli scrittori che vengono qui definiti “pacifisti” (Grossman e Oz, che in varie occasioni hanno appoggiato le iniziative militari di Israele). Ritengono tuttavia importante tradurre e diffondere questi reportage, sia per l’autorevolezza dell’autore, sia perché contengono una esplicita denuncia dell’occupazione israeliana. Le traduzioni che seguono includono due articoli di presentazione scritti dal giornalista de “El País” Juan Cruz e i reportage di Vargas Llosa. El País Gerusalemme, 19 giugno 2016
Mario Vargas Llosa visita la Cisgiordania e scrive del dramma dei territori occupati di Juan Cruz
L’agenda degli impegni di Mario Vargas Llosa, che ha 80 anni, è stata quasi quella di un inviato di guerra, e lui stesso la presenterà divisa in vari episodi su “El País” attraverso la pubblicazione di vari reportage a partire dal 30 giugno. Inoltre l’esperienza è stata raccolta da “El País TV” in un documentario che sarà trasmesso anche dalla rete del giornale. Infatti l’esperienza è stata molto intensa. Sia la sua che la nostra, che l’abbiamo potuto accompagnare. Abbiamo visto come si alzava alle 4 del mattino per assistere alle code dei lavoratori palestinesi che devono attendere ore davanti al cancello implacabile in un checkpoint per entrare a lavorare in Israele, o come saliva e scendeva dalle strade o dai sentieri o dalle grotte impraticabili dei villaggi in cui i palestinesi resistono, o come si andava a cercare le informazioni di cui aveva bisogno per poi redigere il suo racconto. Avendo assistito al suo modo di fare non solo si capisce come ha fatto a scrivere alcuni dei suoi libri più famosi, ma anche come mantiene in forma la sua idea dell’impegno dello scrittore con la realtà. Non è affatto frequente che un premio Nobel della letteratura, autore di romanzi come “Conversazione nella ‘cattedrale'” o “La festa del caprone”, si dedichi a un esercizio di questo tipo. David Grossman è uno dei grandi scrittori israeliani. Era un giovane giornalista della radio ufficiale nel 1987 quando decise di abbandonare la routine delle notizie per addentrarsi nel dramma provocato dagli insediamenti dei coloni nei territori occupati della Palestina fin dalla guerra del 1967. In 20 anni nessuno scrittore vi si era avvicinato. Ora un’alta percentuale di israeliani non sa cosa succede in quella zona, dove si sviluppa quella che allora Grossman (Gerusalemme, 1954) vide come un’aggressione ai diritti umani. La situazione è peggiorata. Il risultato di quella visita fu un libro, “Il vento giallo”, che commosse milioni di lettori e provocò la sua espulsione dalla radio e l’ostilità di alcuni dei suoi colleghi. Quest’opera di Grossman è servita a far in modo che ora un gruppo di scrittori diano seguito con i propri testi all’esperienza drammatica dello scrittore israeliano. Tra questi c’è il premio Nobel Mario Vargas Llosa, che ha appena finito di rivisitare i territori occupati della Cisgiordania. Ci furono comandanti dell’esercito, principale responsabile di quell’aggressione ai diritti umani dei palestinesi, che consigliarono ai propri ufficiali di leggere anche “Il vento giallo”. Yehuda Shaul, che ora ha 33 anni, non ha avuto bisogno che glielo consigliassero i suoi superiori: lo lesse quando era ancora sergente operativo a Hebron, una delle metafore della politica di colonizzazione israeliana, e trovò che quello che raccontava Grossman sulla discriminazione razziale, politica e civile dei palestinesi doveva essere denunciato. Egli, con Miki Kratsman, ebreo argentino, che arrivò in Israele a 12 anni e qui è diventato fotografo e professore, ha creato “Breaking the silence” (Rompere il silenzio) il 12 marzo 2004. Formata da soldati di leva, l’organizzazione decise di raccogliere testimonianze anonime di militari la cui identità mantengono segreta. Lo scandalo è stato tanto grande quanto le minacce che ora si sono intensificate contro di loro. Con la tranquillità di un veterano (ha 57 anni), Miki Kratsman dice che il livello di questa repressione aumenterà. E le prove che ne hanno a “Breaking the silence” sono schiaccianti. “Però non ci arrendiamo. Vinceremo,” dice Shaul. “La lotta è contro le colonie. Non è contro Israele”, continua: “Sono un patriota, un sionista, la mia è una famiglia conservatrice, ho 10 fratelli, alcuni sono coloni; non andrei dove ci sono coloni, ma non voglio che i miei nipoti crescano senza di me né io voglio vivere senza di loro. Per cui vado a trovarli.” La sua è una lotta etica: né lui né Miki né le circa 50 persone che costituiscono il loro gruppo, né i mille collaboratori che in un modo o nell’altro partecipano alla loro lotta (molti dei quali militari che hanno testimoniato il lato oscuro del loro lavoro), sono contro lo Stato di Israele. Vogliono che finisca la discriminazione contro i palestinesi.
Rappresaglie I documenti che denunciano le forze armate sono stati controllati dalla censura militare. Non hanno niente da temere in merito alla legittimità della loro lotta, però questo non basta per essere sicuri che non patiranno rappresaglie. Questa lotta ha molto a che vedere con quel libro di Grossman. Per dargli continuità, questo lettore che è stato militare e ora confessa di non essere pacifista (“darei la mia vita per Israele”) ha concepito un progetto a cui lui e i suoi dedicano una passione irrefrenabile: convocare scrittori da tutto il mondo perché testimonino quello che Grossman ha già scritto tempo addietro. Il libro uscirà nel maggio 2017 in tutto il mondo e non ha ancora un titolo. Allora sarà passato mezzo secolo di occupazione. Mario Vargas Llosa è uno di loro. Collaboratore de “El País”, reporter in Iraq, in Israele e in altre parti del mondo, ha attraversato in quest’ultima settimana quei territori occupati per condividere le informazioni che hanno sia i palestinesi espulsi dalla loro terra, che vivono una vita stentata in alcuni villaggi o città (come Hebron) che ora sono luoghi tanto fantasmatici come il “Pedro Páramo” di Juan Rulfo [scrittore messicano. Il romanzo si svolge in un villaggio fantasma. Ndtr.], sia quelli che sono coloni di quegli stessi territori. Il libro di Grossman si intitolava “Il vento giallo” perché in Israele il giallo è il colore dell’odio. Quello che adesso vuole “Breaking the silence” è sradicare questo colore dalle relazioni difficili, politicamente impossibili, umanamente degradanti tra israeliani e palestinesi, questi ultimi condannati a vivere all’ultimo posto della storia.
Il colore dell’odio Alcuni dei rappresentanti di BTS (come lo stesso Shaul, come Morial Rothman-Zecher, un giovane di 26 anni che ha studiato Scienze Politiche, ha rinunciato al servizio militare ed ha pagato per questo) parlano arabo e cercano di smentire quel colore di odio che segna lo stupore con cui quasi 40 anni fa Grossman ha disegnato il corpo e l’anima di questo conflitto. Loro hanno invitato Vargas Llosa (e Colm Tóibín, Colum McCann [scrittori irlandesi. Ndtr] e fino a 26 autori tra poeti, narratori o saggisti di tutto il mondo, compresi Israele e Palestina) perché vedano questa lotta etica e ottengano le testimonianze degli abitanti dei territori occupati. Questi scrittori stanno arrivando. L’autore de “La zia Giulia e lo scribacchino” ha raccontato a “El País TV” che la prima volta che è venuto in Israele è stato nel 1974, ” e allora ero ancora di sinistra”. Quell’Israele lo affascinò, perché esprimeva ideali di giustizia sociale che facevano parte dell’ideologia della sinistra di cui egli faceva parte. Il fenomeno delle colonie ha smentito in seguito quell’immagine. Né lui né quelli che lo hanno invitato mettono in dubbio lo Stato di Israele; egli dirà, nelle puntate del suo reportage (che iniziano a pubblicarsi ne “El País” dal prossimo giovedì 30 giugno [2016]), come ha visto questo problema ed altri sollevati dalla questione cruciale delle colonie. Quello che “Breaking the Silence” mette in discussione, e per questo l’organizzazione lavora perché finisca l’odio tra palestinesi ed israeliani, è che ci siano cittadini condannati a vivere come esseri senza diritti elementari nel territorio comune, in Cisgiordania, a Gerusalemme, in tutte le zone in cui i coloni ricevono una protezione negata ai palestinesi espulsi dalle loro terre. Il libro che ha ispirato questa lotta è “Il vento giallo”. Il nuovo libro, al quale lavora “Breaking the Silence” e per questo hanno invitato Vargas Llosa e gli altri, deve ancora essere definito. Abbiamo prospettato allo stesso Grossman, che tanto ha segnato Shaul e i suoi compagni, se quel vento potrebbe essere adesso una tempesta: “Sì, probabilmente”, ha affermato. Qui il giallo è il colore dell’odio. Persino i più ottimisti credono che Israele viva la continuazione pericolosa di una lunga tormenta gialla. “Breaking the Silence” è nato per rompere il silenzio che ha stimolato questo odio. E insiste nel voler rompere l’origine di questa tormenta. Vargas Llosa racconta “i disastri dell’occupazione”. El País 30 giugno 2016
Il Nobel racconta l’esperienza del suo incontro con la realtà dei territori occupati in Cisgiordania. di Juan Cruz
Gideon Levy, uno dei maggiori giornalisti israeliani, ha apostrofato Mario Vargas Llosa, quando lo ha visto con il notes in mano, mentre entrava a Hebron, questo luogo che l’occupazione israeliana ha trasformato in una luce spenta.
—Cosa ci fai tu qui? Poi i due si sono messi a camminare per Hebron fino ad arrivare ad un promontorio sul quale un circolo culturale palestinese ha ricevuto il premio Nobel e i suoi accompagnatori intorno a un vecchio ulivo a cui era avvolto uno striscione di tela: “Free Palestine”. Il Nobel ha preso il suo libretto degli appunti, con in testa il cappello che lo proteggeva dal sole, e ha preso nota di quello che stava ascoltando. Non si è mai separato del suo block notes. Prendeva appunti con l’impegno e la costanza di un reporter perso in un buco del mondo. Voleva sapere quello che succede per poterlo raccontare a una società che, come gli hanno detto, sa di Israele e Palestina solo quando ci sono attentati, intifada e scontri che iniziano con lanci di pietre o coltelli e finiscono con tumulti che poi diventano le prime pagine dei giornali o dei servizi televisivi in tutto il mondo. Lì gli hanno raccontato questa parte del problema. Quando la conversazione è diventata più informale ed erano le sette di sera ad Hebron, i palestinesi, gli israeliani che accompagnavano Vargas Llosa e noi giornalisti de “El País” che lo abbiamo seguito in questo viaggio abbiamo visto, sul computer di uno dei palestinesi, il finale della partita Repubblica Ceca -Spagna, quello del gol di Piqué. Tutti, compreso Gideon, anche se all’inizio era convinto che la Repubblica Ceca fosse la Spagna (“Come gioca male la Spagna” ha detto), hanno applaudito il gol del catalano. Quando stavano tornando a Gerusalemme, per continuare il viaggio, il Nobel Vargas Llosa, , ha ricevuto un altro saluto da Gideon Levy, che si congedava: – Grazie, Mario, per essere venuto a raccontarlo. Glielo hanno detto altre volte. Però questa volta glielo diceva un giornalista che conosce molto da vicino sia quello che il governo israeliano ha fatto nei territori occupati (ha lavorato in stretto contatto con Simon Peres, ex-presidente di Israele) sia quello che pensa la società civile (intellettuali, scrittori) di entrambi i lati (israeliani, palestinesi) su questo dualismo di odio da una parte e di odio dall’altra che si è andato costruendo durante più di mezzo secolo in questa parte difficile del Medio Oriente, come un muro che qualcuno vuole rompere. Tra costoro, quelli che hanno invitato Vargas Llosa a fare questo viaggio, che vogliono mitigare un odio che ormai sembra eterno.
“Buchi neri” Il premio Nobel peruviano è stato varie volte in Israele e in Palestina, come in Iraq o in Afghanistan o in Congo, cercando “in quei buchi neri del mondo”, come dice Carlos Granés, uno dei suoi esegeti, “le radici dei conflitti, per cercare di aiutare a capirli, al di fuori di quei difficili abissi.” Dieci anni fa il Nobel peruviano ha conosciuto Yehuda Shaul, che all’epoca era un giovane ex-sergente israeliano di ventitre anni che aveva contribuito a fondare ” Breaking the silence” (Rompere il silenzio), un’organizzazione inconsueta in questo Paese in guerra: sergente proprio a Hebron, Yehuda aveva annotato nella sua mente le atrocità a cui le autorità civili israeliane obbligavano i militari in servizio nei territori occupati e volle mettere insieme commilitoni che avevano provato lo stesso orrore di fronte alle nefandezze che avevano visto. Nel suo “Pietra di paragone” di quest’ultima domenica, Vargas Llosa ne “El País” ha raccontato questo incontro e quello che ne è seguito fino a culminare nella visita che da domani racconterà qui. Le sue cronache si intitolano “I disastri dell’occupazione” e si pubblicheranno il 1, il 2 e il 3 luglio, su due pagine in cui i lettori seguiranno i suoi incontri nei territori occupati e anche nei confini interni (i checkpoint) di questo territorio tanto complicato… Inoltre www.elpais.com offrirà da questa sera un documentario realizzato dall’equipe de “El País Video” in cui si raccolgono le esperienze del Nobel. Egli ha detto che uno scrittore non ha altro potere che la sua parola, e se questa gli serve per far conoscere quello che succede nei posti che ha visitato, onora il suo impegno morale. Il giornalista e scrittore peruviano Alonso Cueto (a cui Vargas ha dedicato il suo ultimo romanzo, “Cinque angoli”) diceva ieri a proposito del giornalismo del Nobel: “Fa giornalismo in modo appassionato, come i suoi romanzi: continua a pensare che le parole sono azioni, e scrivere per lui è un’attestazione etica. E va in luoghi pericolosi, come l’Iraq, come l’Afghanistan, come questi territori in cui ha viaggiato ora, perché le persone che vivono vicino al pericolo rappresentano l’umanità in senso morale.” Granés aggiunge: “Va in luoghi di conflitti dalla cui soluzione dipende in buona misura il futuro del mondo.” Questo era ciò di cui lo ringraziava Gideon Levy, che fosse lì a raccontarlo. El País 26 giugno 2016
I giusti di Israele di Mario Vargas Llosa
Molti israeliani dedicano i propri sforzi a denunciare le ingiustizie sofferte dai palestinesi, senza preoccuparsi delle minacce, degli insulti o delle accuse di tradimento
Yehuda Shaul ha 33 anni ma ne dimostra 50. Ha vissuto e vive con tale intensità che divora gli anni, come fanno i maratoneti con i kilometri. E’ nato a Gerusalemme, in una famiglia molto religiosa ed è uno di 10 fratelli. Quando l’ho conosciuto, 11 anni fa, portava ancora la kippah [il copricapo tipico degli ebrei osservanti. Ndtr.]. Era un giovane patriota, che deve essere stato molto bravo nell’esercito quando faceva il servizio militare perché, dopo i tre anni obbligatori, Tsahal [l’esercito israeliano. Ndtr] gli ha proposto di continuare un corso per reparti speciali ed è rimasto un anno in più a fare il militare, come sergente. Al ritorno alla vita civile, come molti altri giovani israeliani, ha viaggiato in India, per schiarirsi le idee. Lì ha riflettuto e ha pensato che i suoi compatrioti ignorassero le cose orribili che l’esercito commetteva nei territori occupati e di avere l’obbligo morale di farglielo sapere. Per questo Yehuda e un fotografo, Miki Kratsman, il 1 marzo 2004 hanno fondato Breaking the Silence (Rompendo il silenzio), un’organizzazione che si dedica a raccogliere testimonianze di soldati congedati e in servizio (la cui identità rimane segreta). In incontri e pubblicazioni destinate a informare il pubblico, in Israele e all’estero, presentano la verità su quanto avviene in tutti i territori palestinesi che sono stati occupati dopo la guerra del 1967. (L’anno prossimo saranno passati 50 anni di occupazione). Prima di essere resi pubblici, i testi ed i video vengono controllati dalla censura militare, perché Yehuda e i suoi circa 50 collaboratori non vogliono violare la legge. Le testimonianze raccolte superano il migliaio. Fino a relativamente poco tempo fa, grazie alla democrazia che regnava nel Paese per i cittadini israeliani, Breaking the Silence poteva operare senza problemi, anche se molto criticata dai settori nazionalisti e religiosi. Però da quando è entrato in carica l’attuale governo – il più reazionario ed estremista della storia di Israele – si è scatenata una durissima campagna contro i dirigenti dell’associazione, accusandoli di essere dei traditori e chiedendo che siano messi fuorilegge, in Parlamento, da parte di ministri e leader politici e sui giornali. Sulle reti sociali abbondano gli insulti e le minacce contro i suoi fondatori. Yehuda Shaul non si lascia intimidire e non pensa di fare alcuna concessione. Dice di essere un patriota e un sionista e di essersi impegnato in quello che fa non per ragioni politiche ma morali. Nella millenaria storia ebraica c’è una tradizione che non si è mai interrotta: quella dei giusti. Quegli uomini e quelle donne che, di tanto in tanto, emergono nei momenti di transizione o di crisi e fanno sentire la propria voce, controcorrente, indifferenti all’impopolarità e ai pericoli che corrono agendo in quel modo, per esporre una verità o difendere una causa che la maggioranza, accecata dalla propaganda, la passione o l’ignoranza, si rifiuta di accettare. Yehuda Shaul è uno di loro, ai giorni nostri. E, per fortuna, non è l’unico. C’è ancora, imperterrita, la giornalista Amira Hass, che se n’è andata a vivere a Gaza per soffrire sulla sua carne le miserie dei palestinesi e documentarle giorno dopo giorno nelle sue cronache su “Haaretz” [attualmente Amira Hass vive a Ramallah, in Cisgiordania. Ndtr.] . Devo a lei aver passato, qualche anno fa, nell’asfissiante e sovraffollata trappola per topi che è la Striscia, una notte indimenticabile in casa di una coppia di palestinesi che si dedica al lavoro sociale. E il suo collega Gideon Levy, instancabile scrittore, che incontro, dopo parecchio tempo, sempre a lottare per la giustizia con la penna in mano, anche se con l’animo meno forte di una volta perché attorno a lui si riduce ogni giorno di più il numero dei difensori della razionalità, della convivenza e della pace e crescono senza tregua i fanatici delle verità uniche e del Grande Israele che avrebbe niente meno che l’appoggio di Dio. Però in questo viaggio ne ho conosciuti altri, non meno limpidi e coraggiosi. Come Hanna Barag che, alle cinque del mattino, all’incrocio di Qalandia, pieno di cancellate, videocamere e soldati, mi ha mostrato l’agonia dei lavoratori palestinesi che, pur avendo il permesso ed il lavoro a Gerusalemme, devono aspettare ore ed ore prima di poter andare a guadagnarsi da vivere. Hanna e un gruppo di donne israeliane si piazzano tutte le mattine all’alba di fronte a queste recinzioni, per denunciare i ritardi ingiustificati e protestare contro gli abusi che vi si commettono. “Cerchiamo di arrivare fino agli alti gradi,” mi dice, indicando i soldati, “perché questi non ci stanno neanche a sentire.” E’ un’anziana minuta e piena di rughe, ma nei suoi occhi chiari brillano una luce e una dignità accecanti. Ed è un giusto, benché neppure lo sospetti, anche il giovane Max Schindler, che ho conosciuto a Susiya, un villaggio miserabile nelle montagne a sud di Hebron; è molto timido e devo tirargli fuori a forza cosa ci fa lì, circondato da bambini affamati, in questo luogo fuori dal mondo a cui i coloni delle vicinanze vengono a tagliare gli alberi e a distruggere i raccolti, e a volte a picchiare gli abitanti, e sulle cui misere case pesa un ordine di demolizione. E’ un volontario che è venuto a vivere – o meglio a sopravvivere – a Susiya per qualche mese e dedica il proprio tempo a insegnare l’inglese agli abitanti del paese. “Vorrei che sapessero che c’è un altro Israele,” mi dice, indicando gli abitanti. Sì, ci sono i giusti, molti, anche se non sono tanti da vincere le elezioni. La verità è che, da anni, le perdono, una dietro l’altra. Ma non si lasciano abbattere da queste sconfitte. Sono medici ed avvocati che vanno a lavorare nei villaggi semi-abbandonati e a difendere le vittime dei soprusi nei tribunali, o giornalisti, o attivisti dei diritti umani che registrano le violenze ed i crimini e li espongono all’opinione pubblica. Per esempio c’è un’associazione di fotografi, formata da ragazze e ragazzi molto giovani, che fissano in immagini tutti gli orrori dell’occupazione. Mi seguono ovunque vado e non gli importa di camminare in mezzo alla spazzatura puzzolente e di scottarsi per il calore nel deserto, se possono documentare con immagini tutto quello che l’Israele ufficiale nasconde e i benpensanti non vogliono sapere. Ma, benché i giornali ufficiali non pubblichino le loro foto, loro le espongono in piccole gallerie, in pannelli nelle strade, in pubblicazioni semiclandestine. Quanti sono? Migliaia, ma non abbastanza da cambiare questo movimento dell’opinione pubblica che sta spingendo sempre più Israele verso l’intransigenza, come se essere la prima potenza del Medio Oriente – e, a quanto pare, la sesta del mondo – fosse la miglior garanzia per la sua sicurezza. Sanno che non è così, che, al contrario, trasformarsi in un Paese coloniale, che non ascolta, che non vuole negoziare né fare concessioni, che crede solo alla forza, ha fatto sì che Israele perda l’ aura prestigiosa e onorevole che aveva e che il numero dei suoi avversari e dei suoi critici, invece di diminuire, aumenti ogni giorno. Due giorni prima di partire, ho cenato con altri due giusti: Amos Oz e David Grossman. Sono scrittori magnifici, vecchi amici ed entrambi infaticabili difensori del dialogo e della pace con i palestinesi. I tempi che affrontano sono difficili, ma non si lasciano abbattere. Scherzano, discutono, raccontano aneddoti. Dicono che, tirando le somme, nessuno potrebbe vivere fuori da Israele. Gideon Levy e Yehuda Shaul, che sono anche loro lì, si dichiarano d’accordo. Finalmente, per fortuna, è la prima volta, in tutti i giorni in cui sono stato qui, che un gruppo di israeliani concorda totalmente su qualcosa. El País 1 luglio 2016
I villaggi condannati di Mario Vargas Llosa
Il premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa in una serie di reportage riflette sull’occupazione israeliana. In questo primo articolo si concentra su alcuni villaggi del sud della Cisgiordania
“Il principale problema di Israele è uno solo, le colonie in Cisgiordania, cioè l’occupazione dei territori palestinesi”, mi dice Yehuda Shaul. “L’anno prossimo sarà passato mezzo secolo. Però c’è una soluzione e la vedrò messa in pratica prima di morire.” Rispondo al mio amico israeliano che bisogna essere molto ottimisti per credere che un giorno più o meno vicino i 370.000 coloni che si trovano nella terra invasa della Cisgiordania – veri bantustan che circondano i 2.700.000 abitanti delle città palestinesi e le separano le une dalle altre – possano andarsene da lì in nome della pace e della coesistenza pacifica. Però Yehuda, che lavora instancabilmente per far conoscere quello che la grande maggioranza dei suoi concittadini si rifiuta di vedere, la tragica situazione in cui vivono i palestinesi della sponda occidentale del Giordano, mi dice che forse sarò meno scettico dopo il viaggio che faremo insieme, domani, verso i villaggi palestinesi delle montagne a sud di Hebron. Ci siamo già stati sei anni fa, noi due, tra queste montagne sul confine della Cisgiordania. Ed è vero, il villaggio di Susiya, che allora aveva 300 abitanti e sembrava destinato a scomparire come altri della zona, ora ne ha 450, perché, nonostante le calamità di cui continua ad essere vittima, un buon numero di famiglie che erano fuggite sono tornate; anche loro, come Yehuda, godono di un ottimismo a prova di atrocità. Perché le persecuzioni di cui sono vittime Susiya e i villaggi vicini da molti anni non sono terminate, al contrario. Mi mostrano la recente demolizione delle case, i pozzi di acqua riempiti di pietre e spazzatura, gli alberi tagliati dai coloni e persino i video delle aggressioni di costoro – con armi e bastoni – contro gli abitanti che hanno potuto riprendere, così come gli arresti ed i maltrattamenti che ricevono dall’IDF (Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano. Ndtr.]). Nella casa comunale, una delle poche abitazioni ancora in piedi, chi fa le veci del sindaco, Nasser Nawaja, mi mostra gli ordini di demolizione che, come spade di Damocle, pendono sulle costruzioni ancora non distrutte dai bulldozer dell’occupante. Le formalità vanno rispettate: questa zona è stata scelta per esercitazioni militari dell’IDF ed i villaggi dovrebbero sparire (ma non le colonie né gli avamposti dei coloni che sorgono dappertutto nei dintorni). A volte il pretesto è che le fragili abitazioni sono illegali, perché non hanno il permesso di costruzione. “E’ una cosa da pazzi – mi dice Nasser -; quando chiediamo permessi edilizi per costruire o ripristinare i pozzi d’acqua ce li rifiutano, e poi ci demoliscono le case perché sono state costruite senza autorizzazione.” In questo villaggio, come negli altri dei dintorni, i contadini e i pastori non vivono in case ma in fragili tende costruite con teloni e lamiere o nelle grotte – ce ne sono molte nella zona – che i soldati non hanno ancora reso inutilizzabili riempiendole di pietre e spazzatura. Nonostante tutto, gli abitanti di Susiya e di Yimba, i due villaggi che ho visitato, continuano a stare lì, resistendo alle persecuzioni, appoggiati da alcune ONG e da organizzazioni israeliane di solidarietà, come “Breaking the Silence” (“Rompere il silenzio”), di cui Yehuda è membro e che mi ha invitato qui. A Susiya ho conosciuto un giovane molto simpatico, Max Schindler, ebreo statunitense; è venuto come volontario a vivere qualche mese in questo luogo ed insegna inglese ai bambini del villaggio. Perché lo fa? “Perché vedano che non tutti gli ebrei sono uguali.” In effetti, ce ne sono molti come lui – i giusti di Israele – che li aiutano a presentare ricorsi ai tribunali, che vengono a vaccinare i bambini, che protestano contro le sopraffazioni, e tra questi, scrittori come David Grossman e Amos Oz, che firmano manifesti e si mobilitano chiedendo di porre fine agli abusi e che si lascino vivere in pace questi villaggi. “850 coloni israeliani nel cuore di una città palestinese di 200.000 abitanti! Per proteggerli, 650 soldati israeliani fanno la guardia nella Città Vecchia blindata.” Una dichiarazione di questo tipo, promossa da loro, qualche mese fa ha salvato- per il momento – dalla distruzione Yimba, un villaggio antichissimo, anche se sono state demolite 15 case. Ora sta aspettando un’ultima decisione della Corte Suprema sulla sua esistenza. Ha un’enorme grotta, ancora indenne, che, mi garantiscono, è dell’epoca romana. Allora il villaggio si trovava ai bordi del sentiero – si può ancora seguire il suo tracciato nell’aspro deserto di pietre, polvere e stoppie che ci circonda – che portava i pellegrini alla Mecca; allora Yimba era prospero grazie ai suoi negozi per i rifornimenti e i ristoranti. Ora la sua antichità nasconde un rischio: che, siccome si tratta di un luogo archeologico, le autorità israeliane decidano che debba essere spopolato perché gli archeologi possano recuperare i tesori storici del suo sottosuolo. Le lamentele sono le stesse che ho sentito a Susiya: “Appena riescono a cacciarci con questo pretesto, arriveranno i coloni; loro sì che possono convivere con i resti archeologici senza alcun problema.” Come a Susiya, ho visitato Yimba circondato da bambini scalzi e scheletrici, che tuttavia non hanno perso l’allegria. Una bambina, soprattutto, con occhi birichini ride a crepapelle quando vede che non sono capace di pronunciare il suo nome arabo come si deve. Basta esaminare una mappa dei territori occupati per capire la ragione delle colonie: circondano tutte le grandi città palestinesi e bloccano i contatti e gli scambi, allo stesso tempo stanno espandendo la presenza israeliana e scomponendo e frazionando il territorio che si suppone dovrebbe occupare il futuro Stato palestinese fino a renderlo impossibile. C’è una chiara intenzione in questa strategia: con la proliferazione delle colonie rendere irrealizzabile quella soluzione dei due Stati che, tuttavia, i dirigenti di Israele dicono di accettare. Sennò non si capisce perché tutti i governi, di centro, di sinistra e di destra, con l’unica eccezione dell’ultimo governo di Ariel Sharon, che nel 2005 ritirò le colonie israeliane da Gaza, abbiano permesso, e continuino a farlo, l’esistenza e l’espansione sistematica di colonie illegali – laiche, socialiste e molte di religiosi ultrà – che sono un motivo permanente di frizione e danno la sensazione ai palestinesi di vedere ridursi progressivamente il già ridotto spazio della Cisgiordania che hanno a disposizione. Non ho la pretesa di leggere nella mente nascosta dell’elite politica israeliana. Ma basta seguire nella mappa il modo in cui negli ultimi decenni le occupazioni illegali ed il famoso “muro di Sharon” stanno mutilando i territori palestinesi, per avvertire in questo una politica tacita o esplicita che non ha mai cercato di affrontare queste occupazioni e, semmai, le stimola e le protegge. Non è solo un motivo costante di scontri con i palestinesi, è una realtà che fa pensare a molti che ormai sia impossibile mettere in pratica la formazione di due Stati sovrani, una cosa che, tuttavia, come una giaculatoria priva di verità, nient’altro che chiasso, l’ONU e i governi occidentali ancora promuovono. Probabilmente, tra le spoliazioni che queste colonie comunque comportano, nessun caso è tanto drammatico come i cinque insediamenti eretti nel cuore di Hebron: 850 coloni israeliani nel cuore di una città palestinese di 200.000 abitanti! Per proteggerli, 650 soldati israeliani montano la guardia nella Città Vecchia, che è stata blindata, le sue strade “sterilizzate” (secondo la definizione ufficiale) – chiusi tutti i suoi negozi, le porte d’ingresso delle case, tutte le attività commerciali – in modo che camminare da quelle parti è percorrere una città fantasma, senza gente e senz’anima. Undici anni fa sono andato a zonzo per queste strade morte; l’unica cosa che è cambiata è che sono scomparsi gli insulti razzisti contro gli arabi che ne decoravano i muri. Però dappertutto compaiono sempre le barriere con i soldati e continua la proibizione agli arabi di circolare in macchina nelle strade del centro, il che li obbliga a fare lunghissimi giri attraverso i campi per passare da un quartiere all’altro. Gli israeliani che mi accompagnano – sono quattro – mi dicono che il peggio di tutto è che ora ormai nessuno parla più dell’orrore rappresentato da Hebron e delle terribili ingiustizie che lì si commettono contro 200.000 abitanti in apparenza per proteggere 850 invasori. El País 1 luglio 2016
I bambini terribili di Mario Vargas Llosa
Il premio Nobel per la Letteratura Mario Vargas Llosa in una serie di reportage riflette sull’occupazione israeliana. In un secondo reportage il Nobel descrive, attraverso quello che ha ascoltato in un tribunale militare israeliano che giudica palestinesi dai 12 ai 17 anni di età che attentano contro la sicurezza, come funziona un sistema per “prevenire il terrorismo seminando il panico.”
Salwa Duaibis e Gerard Horton sono due giuristi – lei palestinese, lui anglo-australiano -, membri di un’istituzione umanitaria che controlla il modo di agire dei tribunali militari incaricati di giudicare in Israele giovani dai 12 ai 17 anni che attentano contro la sicurezza del Paese. La mattinata che ho passato con loro a Gerusalemme è stata una delle più istruttive tra quelle che ho trascorso. Lo sapevate che nel 2012 non è stato assassinato neanche un colono delle colonie della Cisgiordania? E che la media dei crimini contro i membri delle colonie negli ultimi cinque anni è solo di 4,8 all’anno, il che significa che i territori occupati sono più sicuri per loro di quanto lo siano New York, Città del Messico e Bogotà per i loro abitanti? Se si tiene conto che in Cisgiordania i coloni sono circa 370.000 (se si aggiungono quelli di Gerusalemme est sarebbero mezzo milione) e i palestinesi 2.700.000, non c’è nessun dubbio: si tratta di uno dei posti meno violenti del mondo, nonostante le sparatorie, le demolizioni, le azioni terroristiche e gli scontri di cui parlano i giornali. “Senza dubbio un grande successo delle Forze di Difesa di Israele (IDF [l’esercito israeliano. Ndtr.])” dice Gerard Horton. “Bisogna far loro i complimenti per questo?” Una cosa del genere si ottiene solo con un piano intelligente, freddo e messo in pratica in modo metodico. In cosa consiste questo piano per quanto riguarda i bambini e gli adolescenti? In un programma di intimidazione sistematica, astutamente concepito e messo in atto in modo impeccabile. Si tratta di mantenere questa popolazione giovane, dai 12 ai 17 anni, psicologicamente instabile. Per lei ci sono tribunali speciali che i giuristi dell’organizzazione tengono sotto controllo. Il metodo consiste nel “dimostrare la presenza” dell’IDF in modo massiccio, la “cauterizzazione della coscienza” e “operazioni simulate di disturbo della normalità.” Questo gergo esoterico si può riassumere in una frase semplice: prevenire il terrorismo seminando il panico. (Questo metodo è diverso da quello applicato agli adulti e, soprattutto, ai sospetti terroristi: in questo caso si includono assassinii selettivi, torture, lunghissime pene detentive e demolizioni e confisca delle case). L’esercito ha un ufficiale dell’intelligence per ogni zona della Cisgiordania e un’efficiente catena di informatori comprati con corruzione o ricatti, grazie ai quali compila liste dei giovani che partecipano alle manifestazioni contro l’occupazione e tirano pietre alle pattuglie israeliane. Le operazioni si svolgono in genere di notte, con soldati mascherati che si fanno precedere da un rumore assordante, lanciando a volte granate stordenti durante le irruzioni nelle case, rompendo oggetti, dando ordini e gridando, con l’obiettivo di spaventare la famiglia, soprattutto i bambini. Le perquisizioni sono imprevedibili, minuziose e complesse. Tappano gli occhi e mettono le manette al giovane o al bambino denunciato; se lo portano via steso sul pavimento del veicolo, mettendogli sopra i piedi o dandogli qualche calcio per spaventarlo. Nel centro per gli interrogatori lo lasciano per terra per cinque o dieci ore, per demoralizzarlo e spaventarlo con l’incerta attesa al buio. L’interrogatorio segue regole precise: consigliargli che si dichiari colpevole di tirare pietre, in modo che passerà solo due o tre mesi in carcere; in caso contrario, il processo può essere lungo, sette o otto mesi, e, se dichiarato colpevole, potrebbe anche essere condannato ad una pena peggiore. Reso debole in questo modo, gli si può proporre che faccia l’informatore. Se non è abbastanza disponibile, lo si avverte che potrebbe essere violentato o torturato, qualcosa a cui non è necessario arrivare, tranne in casi eccezionali. Per qualcuno, basta avvertirlo che il suo comportamento potrebbe obbligare l’esercito ad arrestare le persone a lui più care, la madre o una sorella, per esempio. In qualche caso il giovane o il bambino accetta la proposta; e quasi sempre esce da quell’esperienza piegato, confuso, sgomento e vergognandosi di se stesso. Secondo quelli che hanno ideato il metodo, questo stato d’animo riduce la sua pericolosità potenziale e lo fa diventare vulnerabile. E non è impossibile che questo penoso stato d’animo si trasmetta al resto della famiglia. Per questo non è tanto importante identificare i colpevoli del lancio di pietre: l’obiettivo è introdurre nelle case e in tutti i villaggi, attraverso i bambini e gli adolescenti, insicurezza e preoccupazioni costanti. Oppresse dal timore di essere vittime di queste perquisizioni, in piena notte, con distruzioni di stoviglie, letti e utensili, che si portino via figli, fratelli o nipoti, le angosciate famiglie diventano meno pericolose. I divieti insensati, i continui coprifuoco, le improvvise ordinanze, che alterano la routine e aumentano lo spavento quotidiano, perseguono questo stesso scopo. La confusione ed il disordine impediscono, o per lo meno scoraggiano, le congiure. Grazie alle modalità improvvise e scenografiche delle perquisizioni e a tutta la messa in scena che le accompagna, la popolazione in genere rimane psicologicamente priva di mezzi per organizzarsi ed agire; in questo modo si riduce il rischio che rappresentino un serio pericolo per quelle colonie tanto ben armate, e, soprattutto, strategicamente tanto ben posizionate. Gli abitanti dei villaggi e delle città aggrediti e frammentati dagli insediamenti ricevono divieti tassativi di mettere piede nel territorio delle colonie, il che li obbliga a fare lunghi percorsi per comunicare tra loro. I coloni, invece, sono collegati da moderne strade che in genere possono utilizzare solo i cittadini israeliani. L’isolamento dei villaggi e delle città palestinesi e la possibilità di comunicare rapidamente delle colonie è un’altra garanzia di sicurezza. E’ vero che, a volte, vengono commessi crimini orribili contro i coloni, però, se si va a verificare una statistica inumana, le vittime sono meno numerose di quelle che nel resto del mondo sono causate dagli incidenti stradali. Israele dimostra così che nel XXI° secolo si può essere un Paese colonialista ed al contempo molto sicuro. Cosa succede quando questi bambini e giovani sono infine consegnati ai giudici? Per saperlo, accompagnato da Gerard Horton e Salwa Duaibis, ho passato qualche ora in un carcere nei dintorni di Gerusalemme, dove sono in attività i tribunali minorili presieduti da giudici militari. Entrare nell’aula del tribunale è un impegno lungo: bisogna sottomettersi a perquisizioni e percorrere corridoi recintati e con telecamere che mi hanno ricordato quello che ha rappresentato entrare, ed uscire, dalla Striscia di Gaza. Ancora più interessante dei processi è stato chiacchierare con le madri ed i padri, o fratelli e sorelle, dei giovani palestinesi che erano processati. Una signora del villaggio di Beit Fajjar mi racconta che suo figlio, di 15 anni, ha passato sette mesi in carcere e che, la notte che i soldati lo hanno arrestato, hanno rotto tutto quello che c’era in casa. Ciononostante, i suoi occhi luccicano di allegria e sorride tutto il tempo: suo figlio ha terminato la condanna e spera che tra un minuto o un’ora (o due o tre) il giudice la chiami e le dica che se lo può riportare a casa. Nessun’altra tra le persone che sono nell’aula dimostra la stessa gioia. Un uomo alto e malaticcio mi racconta che ha due figli in prigione – uno di 15 e l’altro di 17 anni – e che non è ancora riuscito a vederli. Ci mette tre giorni ad arrivare dal suo villaggio e non è neanche sicuro che oggi potrà parlare con loro. Lo accompagna una figlia, molto giovane e timida, che è stata picchiata dai soldati la notte che sono entrati rompendo a pedate la porta di casa sua, perché si era dimenticata di fargli vedere il cellulare che aveva in tasca e con cui forse li stava registrando. I processi sono rapidi. Il o la giudice, in uniforme militare, parlano in ebraico e un ufficiale li traduce in arabo. Gli avvocati utilizzano l’arabo e sono tradotti in ebraico. Gli accusati, giovani semirapati e vestiti di nero, ascoltano in silenzio come si decide il loro destino. Improvvisamente, una ragazza, sorella di uno dei detenuti, si mette a piangere. Dal banco degli accusati, lui la implora con gli occhi e le mani di tranquillizzarsi, il suo pianto potrebbe peggiorare le cose. El País 1 luglio 2016
La morte lenta di Silwan di Mario Vargas Llosa
In questo articolo descrive come avanzano le colonie in un quartiere di Gerusalemme est
A differenza di altri quartieri di Gerusalemme, assolutamente puliti come quelli di una città svizzera o scandinava, gli abitanti palestinesi di Silwan, situato a est e limitrofo alla Città Vecchia e alla moschea di Al-Aqsa, rigurgita di spazzatura, pozzanghere puzzolenti e rifiuti. Temo che tanta sporcizia non sia casuale, ma piuttosto parte di un piano a lungo termine per cacciare progressivamente i 30.000 palestinesi che vivono ancora qui e rimpiazzarli con israeliani. I coloni hanno iniziato ad infiltrarsi nel quartiere 11 anni fa dalla zona di Batan Al-Hawa. Quello che fino ad allora sembrava poco meno che casuale – gruppi di famiglie ultrareligiose che riuscivano a sistemarsi in una casa scelta a caso – ha preso le caratteristiche di un’operazione pianificata e con un chiaro obiettivo. I coloni che si sono installati nel quartiere di Silwan appartengono a due movimenti religiosi: Elad e Ateret Cohanim. Sono distribuiti in circa 75 case e non sono molti: circa 550. Ma si tratta di una testa di ponte, che, senza ombra di dubbio, continuerà a crescere. Il giorno successivo la mia visita al quartiere, è stato annunciato che le autorità di Israele avevano autorizzato la costruzione di un edificio nel quartiere per ospitare nuovi coloni di Ateret Cohanim. Per sapere dove si trovano gli insediamenti basta guardare in alto: le bandiere israeliane, sventolando nella lieve brezza mattutina, indicano che hanno costituito un cerchio, come nel sud delle montagne di Hebron, all’interno del quale tutto il quartiere sta rimanendo incarcerato. I modi con cui queste famiglie si impossessano di una casa sono diversi: sostenendo di possedere documenti antichi secondo i quali i proprietari erano ebrei; comprando un edificio attraverso un prestanome arabo; con atti ostili e minacce contro chi lo occupa fino a farlo scappare; presentando una denuncia nei tribunali perché decidano la demolizione di una casa in quanto non costruita con i necessari permessi, o, in casi estremi, approfittando di un viaggio o del fatto che i proprietari o gli inquilini sono usciti di casa per installarvisi a forza. Una volta che i coloni sono entrati, il governo israeliano manda la polizia o l’esercito a proteggerli, perché, chi potrebbe metterlo in dubbio, quelle gocce d’acqua degli invasori in mezzo a quel pelago di palestinesi sono in pericolo. Le gocce si trasformeranno in ruscelli, laghi, mari. I coloni religiosi che hanno messo radici qui non hanno fretta: l’eternità sta dalla loro parte. Così si sono progressivamente estese le enclave israeliane in Cisgiordania trasformandola in una groviera; così stanno crescendo anche nella Gerusalemme araba. Si rispettano le forme, come nel resto della nazione: Israele è un Paese molto civile. A Batan Al-Hawa ci sono 55 famiglie palestinesi minacciate di espulsione, perché vivono in case che non hanno i documenti che ne garantiscano la proprietà e 85 immobili con ordine di demolizione, poiché, come al solito, sono state costruite senza ottenere i permessi adeguati. Quando chiedo a Zuheir Rajabi, abitante e avvocato difensore palestinese del quartiere, che mi guida in questo percorso, se ha fiducia nell’onorabilità e nella neutralità dei giudici che devono pronunciarsi in merito, mi guarda come se fossi ancora più imbecille della mia domanda. “Abbiamo forse un’alternativa?”, mi risponde. E’ un uomo sobrio, che è stato varie volte in carcere. Ha tre figli di sette, nove e tredici anni che sono stati tutti e tre arrestati qualche volta. E una figlia, Darìn, di sei anni, che cammina attaccata a una delle sue gambe. La sua casa è circondata da due insediamenti ed ha ricevuto molte proposte di acquisto, per somme superiori al suo prezzo reale. Ma lui dice che non la venderà mai e che morirà nel quartiere; le minacce dei suoi vicini non lo spaventano. Gli chiedo se i coloni installati a Silwan hanno figli. Sì, molti, ma escono molto di rado e generalmente scortati da poliziotti, soldati o dalla guardia privata che protegge gli insediamenti. Penso alla vita reclusa e terribile di quelle creature, chiuse in quelle case rubate, e a quella dei loro genitori e nonni, convinti che, perpetrando le ingiustizie che commettono, mettano in pratica un progetto divino e si guadagnino il paradiso. Naturalmente il fanatismo religioso non è patrimonio esclusivo di una minoranza di ebrei. Sono fanatici anche quei palestinesi di Hamas e della Jihad Islamica che si fanno a pezzi facendo scoppiare bombe in autobus o ristoranti, lanciano colpi di artiglieria sui kibbutz o cercano di accoltellare i soldati o pacifici passanti, senza capire che quei crimini servono solo ad allargare il solco, già molto grande, che separa e rende ostili le due comunità. Improvvisamente, nel nostro girovagare per Silwan, Zuheir Rajabi mi indica un edificio di vari piani. E’ stato occupato tutto dai coloni, meno uno degli appartamenti, in cui rimane contro ogni avversità una famiglia palestinese di sette persone. Finora hanno resistito, nonostante il fatto che gli interrompano l’acqua, l’elettricità, che debbano suonare il campanello ai coloni per poter entrare ogni volta che escono in strada e, persino, che, quando aprono la finestra, li bombardino di spazzatura. Mentre chiacchieriamo, senza che me ne sia reso conto, siamo stati circondati da ragazzini. Chiedo se qualcuno di loro è stato arrestato qualche volta. Quello che alza la mano ha una faccia birichina e sfrontata: “Io, quattro volte”. Ogni volta è stato solo un giorno e una notte; lo hanno accusato di tirare pietre ai soldati ed egli ha negato e negato e alla fine gli hanno creduto, per cui non lo hanno processato. Si chiama Samer Sirhan e suo padre ha avuto uno scontro con un colono, che gli ha sparato con la pistola e lo ha lasciato per la strada gravemente ferito. Nessuno lo ha soccorso per tutto il resto della notte e al mattino è morto, dissanguato. Racconto queste storie tristi perché credo diano un’idea del problema più scottante che Israele deve affrontare: quello delle colonie, la crescente occupazione dei territori palestinesi che lo ha trasformato in un Paese coloniale, prepotente, e che ha fatto tanti danni all’immagine positiva e persino esemplare che ha avuto per molto tempo nel mondo. Rimangono ancora molte cose di Israele da ammirare. Essersi trasformato, grazie al lavoro faticoso dei suoi abitanti, in un paese del primo mondo, con un livello di vita molto alto ed aver praticamente eliminato la povertà nella società israeliana grazie a politiche intelligenti, progressiste e moderne. E la maggior impresa che può vantare a proprio favore: aver integrato decine e decine di migliaia di ebrei provenienti da culture e costumi molti diversi, di lingue differenti, in una società in cui, nonostante l’unità della lingua ebraica che ne è il comune denominatore, coesistono fraternamente tutte, preservando la propria diversità (ditelo, sennò, al milione di russi che sono arrivati negli ultimi anni nel Paese). Dalla prima volta che sono venuto in Israele, a metà degli anni ’70 del secolo scorso, ho sviluppato un grande affetto per questo Paese. Credo però che sia l’unico posto nel mondo in cui mi sento un uomo di sinistra, perché nella sinistra israeliana sopravvive l’idealismo e l’amore alla libertà che sono scomparsi in essa in buona parte del mondo. Con dolore ho visto come, negli ultimi anni, l’opinione pubblica locale stesse diventando ogni volta più intollerante e reazionaria, il che spiega che Israele abbia ora il governo più ultra nazionalista e religioso della sua storia e che le sue politiche siano ogni giorno sempre meno democratiche. Denunciarle e criticarle non è per me solo un dovere morale; è, allo stesso tempo, un atto di amore.
Gerusalemme, giugno 2016.
|