Il Manifesto

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05 dic 2017

 

Collassa l’alleanza del nord, giustiziato l’ex dittatore Saleh

di Chiara Cruciati

 

Ucciso «per tradimento» dai ribelli Houthi dopo giorni di scontri a Sana’a e 125 morti. L’ex presidente era da un anno in contatto con Emirati arabi e Arabia saudita per negoziare una transizione politica che escludesse gli alleati di comodo

 

Roma, 5 dicembre 2017, Nena News –

 

Il corpo senza vita di Ali Abdullah Saleh, gli occhi socchiusi, il caos intorno al cadavere: gli sprazzi di un video amatoriale rilanciato ieri dalle testate di tutto il mondo ricordano le immagini che certificarono la fine del colonnello Gheddafi. Un «rito» che si ripete, la fine ritardata di un dittatore a sei anni dalla «primavera araba», terminologia cara ad Occidente, che lambì lo Yemen senza condurre a una transizione democratica.

Trentatré anni al potere, prima da presidente dello Yemen del nord e poi dello Yemen unito, accumulatore di ricchezze a spese della popolazione (secondo l’Onu, tra i 32 e i 60 miliardi di dollari in tre decenni), abile stratega capace di tenere insieme le diverse tribù yemenite – di nuovo sul modello Gheddafi, con favori e reti clientelari – era stato costretto a dimettersi nel 2012 dopo le proteste di piazza e la loro brutale repressione.

Abbandonato dagli alleati storici, a partire dall’Arabia saudita che ha nello Yemen il corridoio per il transito di greggio verso l’Europa, aveva scelto la via Houthi per risollevare le proprie sorti: la forza militare ribelle in cambio dell’influenza politica di Saleh sulle tribù nel nord del paese. Un’alleanza di comodo, dopo decenni di discriminazione della minoranza sciita, che si è conclusa ieri dopo giorni di scontri e oltre 120 morti.

A dare ieri la notizia della sua uccisione «per tradimento» è stata la leadership Houthi. Poco dopo il suo partito, il Congresso generale del popolo, ha confermato: Saleh non è morto nella sua casa in un’esplosione, come inizialmente affermato, ma è stato giustiziato.

Il suo convoglio in fuga dal villaggio di Sanhan (roccaforte della tribù Hashid, di cui Saleh è membro) verso Marib è stato intercettato dagli Houthi. Uno scontro a fuoco, l’ex presidente trascinato fuori dall’auto e ucciso sul posto da colpi di mitra.

Tra le vittime ci sarebbero anche importanti dirigenti del Congresso, mentre uno dei suoi figli, Khaled, è stato fatto prigioniero. Immediata la reazione della coalizione sunnita a guida saudita che ha intensificato i bombardamenti, già devastanti, degli ultimi giorni contro la capitale.

I raid fanno il paio con la nuova controffensiva delle forze fedeli al presidente Hadi (dal 1994 vice di Saleh, di cui prese il posto nel 2012), dall’evocativo nome di «Sana’a araba», a sostegno della guardia repubblicana del dittatore ucciso.

Dietro tale rinnovato sostegno stanno le ultime mosse di Saleh, eco di una prima faida interna scoppiata ad agosto: da mesi l’ex presidente negozia in segreto con l’Arabia saudita per giungere a una transizione politica che escluda – ancora una volta – la minoranza Houthi.

Già quattro mesi fa esplosero scontri diretti tra Houthi e fedelissimi di Saleh, conclusi con qualche pezza appiccicata su un’alleanza a brandelli. Mercoledì sera i tentativi di Saleh di risalire la china passando per Riyadh sono riemersi: in quattro giorni decine di bombe sono piovute sulla capitale, intrappolando i civili nelle case senza cibo né acqua. Sarebbero 125 i morti e 238 i feriti, stima la Croce Rossa, uccisi dai raid e dagli scontri per le strade tra i due ex alleati che dal settembre 2014 «condividono» la capitale strappata al controllo governativo.

Sabato Saleh in tv ha messo fine al matrimonio di convenienza: «Gli Houthi sono la causa principale della sofferenza del popolo yemenita. È necessario aprire una nuova pagina di dialogo con i paesi vicini». Ovvero con Emirati arabi e Arabia saudita, burattinai della guerra civile yemenita, sotto la cui ala Saleh è corso a ripararsi per liberarsi dalla resistenza Houthi.

La corsa è iniziata quasi un anno fa, ad Abu Dhabi: sono stati gli Emirati arabi, dicono fonti interne, a convincere l’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman, a spostare lo sguardo da Hadi a Saleh. Il primo ufficioso incontro tra il generale al-Asiri, portavoce della coalizione anti-Houthi, e il figlio di Saleh, Ahmed, in auto esilio ad Abu Dhabi dal 2012, si sarebbe svolto lo scorso giugno.

L’ex presidente ha trovato orecchie interessate ad ascoltarlo, quelle saudite, sfinite (come le casse di Riyadh) da quasi tre anni di guerra ininterrotta e impossibile da vincere. Quella che doveva essere una guerra per procura all’Iran, lo strumento per trascinare Teheran in un conflitto parallelo a quello siriano, si è trasformata in un pantano senza via d’uscita.

Ora l’escalation è scontata: il collasso dell’alleanza a nord potrebbe indebolire gli Houthi e ridare slancio all’offensiva saudita. A pagarne il prezzo saranno i civili, a partire dai residenti a Sana’a.

Tanti stanno cercando di fuggire dalla capitale, dopo l’appello di Hadi a sollevarsi contro gli Houthi e l’avvertimento di Riyadh: allontanatevi di almeno 500 metri dalle postazioni ribelli. Impossibile in una città che controllano strada per strada. Nena News

 

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