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9 Nov 2017

 

Medio Oriente: dinamiche più pro-Teheran che pro-Riad

di Lorenzo Kamel

insegna Storia moderna e contemporanea all’Università di Bologna ed è responsabile di ricerca allo IAI

 

Lo scorso 4 novembre il premier libanese Saad Hariri ha scelto un Paese terzo – l’Arabia Saudita – per denunciare le ingerenze iraniane in Libano e annunciare le proprie dimissioni. A dispetto delle apparenze, la mossa di Hariri, nato a Riad e in possesso di doppio passaporto libanese e saudita, ha poco a che vedere con gli interessi o con la situazione politica in Libano: va invece inserita nel contesto dei “processi di assestamento” che stanno interessando quasi tutto il Medio Oriente.

 

Tali processi passano attraverso due distinte e inconciliabili agende politiche e strategiche in competizione l’una con l’altra. La prima, tendenzialmente ‘intra-regionale’ (a dispetto dell’appoggio a fasi alterne offerto da Mosca), punta a mantenere e a rafforzare l’asse che unisce Teheran con Baghdad, Damasco e Beirut (Hezbollah). La seconda, sostenuta da Stati Uniti, Israele, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, mira invece a imporre un nuovo ordine regionale in larga parte influenzato da, o a beneficio di, attori extra-regionali.

Il gesto di rottura di Hariri, preteso dai sauditi e caldeggiato da Stati Uniti e Israele, è finalizzato a delineare una nuova linea strategica post-Isis in Iraq e in Siria, dove l’asse Teheran-Damasco (con il supporto di Mosca) si è imposto dopo circa sei anni di guerra per procura.

 

L’esito militare del conflitto (quello politico è ancora in gioco) non era affatto scontato: prova ne sono i mezzi a disposizione dei maggiori attori attivi nell’area. È sufficiente menzionare che l’Arabia Saudita investe circa 64 miliardi di dollari annui in spese militari (erano 39 nel 2009), gli Emirati Arabi Uniti (con appena 1,5 milioni di abitanti) 23, Israele 18, gli Stati Uniti 611. Per contro l’Iran, la colonna portante dell’asse antagonista a Riad, è ferma a 12 miliardi annui: meno della metà degli investimenti militari dell’Italia (28 miliardi).

 

Parafrasando Bradford Skow, “i numeri equivalgono a fatti”. Tuttavia, come notava Tiziano Terzani, “i fatti non sono mai tutta la verità: al di là dei fatti, c’è ancora qualcosa”. Nel contesto delle ‘agende’ in competizione in Medio Oriente, quel “qualcosa” è legato al peso geopolitico ed energetico del’Iran: fattori che si sommano al crescente ‘soft power’ esercitato da Teheran.

 

Ognuno di questi aspetti ha conosciuto una crescita senza precedenti nell’ultima decade. Ciò è in larga parte dovuto all’implosione dell’Iraq, un’area geografica e, in seguito, uno Stato che ha da sempre limitato l’influenza persiana/iraniana nella regione. Il numero degli incidenti di terrorismo registrato in Iraq (e in Afghanistan) dall’avvio della “guerra al terrore” è aumentato del seimilacinquecento percento (6.500%): 199 attacchi nel 2002 a fronte di 13.500 nel 2014.

 

Strategie boomerang
Sono stati dunque gli esiti destabilizzanti dell’invasione dell’Iraq (2003) – decisa da Washington e caldeggiata al tempo dall’attuale premier israeliano Benjamin Netanyahu con toni molto simili a quelli utilizzati oggi con l’Iran – ad avere creato alcune delle condizioni strutturali per l’ascesa dell’influenza iraniana nella regione. In altre parole, gli stessi attori che hanno favorito l’ascesa dell’Iran sono quelli che oggi invocano un intervento “multilaterale” per limitarne l’eccessivo potere.

 

Va detto che in un passato relativamente recente tutto ciò non avrebbe prodotto un clima polarizzato come quello attuale. Prima della Rivoluzione islamica del 1979 – figlia in larga parte dei risvolti di medio termine dell’operazione della Cia e del MI6, che nel 1953 aveva abbattuto il governo democraticamente eletto guidato da Mossadeq –, gli interessi di Riad e Teheran mostravano infatti numerosi punti di contatto, a cominciare da una marcata convergenza in chiave anti-sovietica.

 

La situazione mutò quando Riad cominciò a dare una connotazione settaria ai rapporti tra i due Paesi per rispondere a quella che era da essa percepita come una minaccia ai suoi interessi nazionali. L’ayatollah Khomeini si era infatti presentato nella veste di guida di tutti i musulmani, dunque non solo degli sciiti, sfidando in questo modo la legittimità dei Saud e il loro ruolo di “custodi dell’Islam” e dei suoi luoghi più sacri.

 

Incognita saudita
Oggi il quadro regionale è molto cambiato e l’Arabia Saudita è alle prese con una delle fasi più delicate della sua storia. Alle incertezze economiche e al recente ulteriore deterioramento dei diritti umani nel Paese, si sommano i disastrosi risultati della guerra nello Yemen, il fallimento del blocco del Qatar e la crescente influenza esercitata da Teheran su larga parte della regione, Iraq e Siria in primis.

 

A questo clima di incertezza, alimentato dalle voci di un possibile colpo di Stato in preparazione per mano di oppositori interni, la leadership saudita ha reagito fornendo risposte senza precedenti, tanto su un piano interno quanto ‘esterno’.

Su un piano interno, l’erede al trono saudita Muhammad bin Salman, prossimo a succedere al padre re Salman (ultraottantenne e affetto da demenza senile), ha lanciato una campagna di consolidamento del potere. La nuova commissione governativa anticorruzione creata a questo scopo mira appunto a neutralizzare ogni potenziale rivale del giovane erede al trono. La lista include Al-Walid bin Talal – proprietario dell’80% di Rotana, la più estesa media company del Medio Oriente – e Mutaib bin Abdullah, capo della Guardia Nazionale, la principale delle tre forze di sicurezza dello Stato insieme all’esercito e ai servizi segreti.

 

Sul fronte ‘esterno’, le autorità saudite, consapevoli dei rischi insiti in un aperto conflitto con Teheran, hanno individuato nel Libano il secondo fronte (oltre allo Yemen) dove potere contrastare le crescenti ambizioni iraniane. Il Paese dei Cedri, che era ormai vicino a tenere delle elezioni presidenziali e che è destinato ora ad avvicinarsi a Mosca in cerca di una incerta stabilizzazione, rappresenta in questo senso il nuovo campo di battaglia dove Riad e i suoi alleati proveranno a minare l’“ordine intra-regionale” che sta prendendo forma: “Gli Stati del Golfo, Israele e gli Stati Uniti”, parafrasando Joseph Bahout, “non vogliono che l’Iran raccolga i frutti di una vittoria in Siria”.

 

Scenari a medio termine
Saranno sufficienti queste strategie per stabilizzare l’Arabia Saudita e garantirne un ruolo egemone nella regione? Un numero crescente di segnali lasciano propendere per una risposta negativa. Le lotte intestine al Regno sono appena cominciate e gli effetti delle ‘purghe’ di Muhammad bin Salman non tarderanno a farsi sentire.

 

Anche l’Iran, che con il beneplacito dei suoi ayatollah è stato a lungo un partner privilegiato di Israele, dovrà affrontare sfide interne impegnative. Sarà tuttavia in grado di aumentare ulteriormente il suo peso nella regione, rafforzando i legami con Hezbollah – ma anche con Damasco, Ankara e Hamas – e venendo incontro ai timori di Mosca riguardo il ruolo di Teheran negli attuali conflitti.

 

Nel medio e lungo termine queste ed altre dinamiche si tradurranno in un’ulteriore destabilizzazione della regione e in crescenti ingerenze di attori esterni. È tuttavia probabile che sarà proprio Teheran, non Riad, a raccoglierne i frutti.

 

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