Fonte: Il Sole 24 ore

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05/11/2017

 

Il filo rosso che lega Beirut a Riad

di Alberto Negri

 

C'è un filo rosso che lega le purghe in Arabia Saudita e le dimissioni del premier libanese sunnita Saad Hariri, uno interno e l'altro internazionale. Il fonte sunnita ha perso la guerra in Siria dove Assad con l'appoggio della Russia ha riconquistato il 70% del territorio: qui insieme all'Isis sono state sconfitte anche le fazioni jihadiste anti-regime sostenute per anni dalle monarchie del Golfo e da Riad. In Libano Hariri sa perfettamente che è al potere per un accordo con gli Hezbollah e i cristiani del generale-presidente Aoun, anche loro sono tra i vincitori in Siria, alleati di ferro dei Teheran. 

 

Si avvicina il momento di decidere le sorti future della Siria, dove gli americani hanno diverse basi militari, e il fronte sunnita è indebolito: aprire la crisi istituzionale a Beirut ha lo scopo di mescolare le carte per guadagnare qualche spazio al tavolo negoziale.

 

Hariri, manovrato dai sauditi, ha attaccato duramente l'Iran ma è un personaggio assai contraddittorio: prima di dimettersi, a Beirut aveva incontrato Ali Akbar Velayati, consigliere di politica estera di Alì Khamenei, la Guida suprema dell'Iran, dal quale si era congedato alludendo alla “comune lotta al terrorismo”. Siamo davanti a un copione provocatorio abbastanza raffazzonato con la regia americana, il supporto di Riad, dove Hariri è stato tre volte in due settimane, e l'assenso di Israele che vede negli Hezbollah la più seria minaccia alla sicurezza dello stato ebraico. Secondo molte fonti mediorientali un secondo conflitto con Hezbollah, dopo quello del 2006, appare possibile, se non probabile.

 

Oltre alla sconfitta in Siria, l'Arabia Saudita deve gestire le pesanti conseguenze della guerra in Yemen dove è schierata con truppe e raid aerei contro gli Houthi, gli sciiti zayditi alleati dell'Iran. 

 

I sauditi e anche il principe Mohammed bin Salman, che di strategia militare sa ben poco, non riescono a vincere un conflitto nel cortile di casa che può avere influssi anche sulla minoranza sciita del regno, oltre che sul prestigio del regno: nonostante miliardi di dollari di armi acquistate dagli americani i sauditi non fanno passi avanti e in compenso con i bombardamenti prendono di mira senza troppe remore la popolazione civile yemenita, senza che per altro il mondo occidentale, più attento agli affari con Riad che alle questioni umanitarie, alzi mai la voce.

 

Di questi insuccessi a raffica bisogna dare la colpa a qualcuno e allo stesso tempo fare fuori coloro sul piano interno si oppongono al potere di Mohammed. Il principe viene presentato come un riformatore per avere deciso, insieme al padre Salman, di dare la patente alle donne e avviare grandi piani economici per il regno. Per la verità uno dei principi arrestati nelle purghe di Riad (sono detenuti in lussuosi hotel 11 principi e una ventina tra ex ministri e uomini d'affari, Al Waleed bin Talal, non è meno modernista di lui, anzi. Ma questi sono dettagli: la cosa più importante è fare fuori alcuni vertici della Guardia Nazionale e coloro che mettono in dubbio gli assetti di potere, i businessmen dell'Aramco, il gigante avviato verso un mega collocamento azionario internazionale, e i principi del sangue. 

 

Il nodo a Riad non sono soltanto le riforme, in parte ostacolate dal clero tradizionalista wahabita, ma concentrare il potere nelle mani del principe Mohammed: cadono quindi le teste principesche e si allineano anche i fedeli finanziati dalla corona saudita, come Hariri in Libano. Molti vedono nel giovane principe una soluzione, domani potrebbe diventare un problema.

 

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