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16 gennaio 2017

 

Riflessioni sulla situazione geopolitica del Medio Oriente direttamente dal fronte iracheno.

di Sebastiano Caputo

 

Il grande Federico Fellini si chiedeva perché sarebbe mai dovuto andare a New York o a Bangkok per trovare ispirazione. Diceva che non aveva bisogno di stimoli esteriori. «Il mio paese, le mie campagne, la gente che conosco è ancora sufficiente a stimolarmi»

 

Aveva ragione, ma erano altri tempi. L’Italia in cui sono nato io è diversa, si è svuotata culturalmente, paesaggisticamente e spiritualmente. Per questo me ne vado in Medio Oriente dove incontro quei valori pre-politici mescolati ad un modo sacro di concepire la vita, l’esistenza, così simile ai racconti dei miei nonni, italiani appunto. Non è esterofilia, ma un viaggio nel nostro passato, che prima o poi dovrà ritornare. Da quelle parti la modernità non ha ancora occupato del tutto il campo delle idee né quello della morale. Il modello Dubai è ancora minoranza anche se le cose rischiano di cambiare molto velocemente a causa del petrolio che queste popolazioni si sono ritrovate, per caso, sotto i piedi. Si sa, il denaro corrompe lo spirito degli uomini e dei luoghi.

Il problema di questa regione del mondo non è la povertà che al contrario genera vita, ma la miseria, la disperazione, la frustrazione per le ingiustizie subite in questi ultimi decenni. Dopo aver raccontato in più occasioni la sporca guerra che una parte dell’Occidente ha portato in Siria per mezzo di ribelli sedicenti moderati, questa volta me ne vado nell’Iraq settentrionale, non lontano da Mosul, “capitale irachena” dello Stato Islamico. Faccio base ad Erbil, nel Kurdistan iracheno, e come tutti i giornalisti occidentali provo a spostarmi, autorizzazioni permettendo, nei villaggi limitrofi distrutti dai combattimenti o ancora in quei luoghi rimasti intatti dove la vita continua a scorrere.

Andare sul campo permette di vedere e comprendere cose che dall’Italia non ti saresti mai immaginato. Ogni persona incontrata per strada ha una storia da raccontarti. Accanto all’orgoglio c’è sempre un sentimento diffuso di amarezza, quasi una nostalgia per un avvenire che non si è mai manifestato. Dal 2003, anno in cui gli Stati Uniti hanno rovesciato Saddam Hussein disintegrando prima il partito Baath e poi l’esercito, l’Iraq sembra non essersi mai ripreso, e molto velocemente le promesse si sono rivelate semplici calcoli di geopolitica. Forse è anche questo uno dei motivi che ha spinto parte delle popolazioni sunnite ad accettare l’occupazione del potere di Al Baghdadi  che proprio da Mosul, il 29 giugno, proclamò la nascita dello Stato Islamico con capitale Raqqa (Siria).

Dopo gli anni dell’espansione, improvvisamente, con l’intervento militare russo in Siria (settembre 2015) volto a sostenere il fedele alleato Bashar Al Assad, è arrivato l’arresto e il progressivo arretramento. Pochi lo ammettono in Occidente, ma nella lotta al terrorismo il Cremlino ha fatto in poco più di un anno quello che la Coalizione Internazionale guidata dagli Usa non è riuscita (più per mancanza di volontà che altro) a fare in tutti questi anni di raid in Siraq. La grande dimostrazione di forza è arrivata ad Aleppo con la riconquista dei quartieri orientali, i quali erano stati occupati da Ahrar Al Sham (ex Jabhat Al Nusra, ramo siriano di Al Qaeda), un gruppo terroristico differente dall’Isis ma che condivide le sue stesse finalità e possiede la stessa matrice jihadista. Eppure questa vittoria russo-siriana è stata definita dai grandi mezzi d’informazione occidentale un «crimine contro l’umanità». Così mentre la battaglia di Aleppo veniva considerata illegittima, quella di Mosul, ancora in corso, viene definita legittima. E proprio in queste ore, a Mosul, si stanno consumando violenti combattimenti. Le forze speciali irachene sono riuscite a conquistare l’area intorno all’università, che gli permetterebbe di avanzare più rapidamente verso la riva del Tigri, da dove sarebbero in grado di lanciare attacchi sulla zona Ovest della città, ancora sotto il controllo dell’Isis.

Ma questa volta a nessuno di quei giornalisti che piangevano i civili di Aleppo-Est «costretti a fuggire a causa dei bombardamenti russi», sembrano interessare le sorti di quelli di Mosul. Con questo non si vuole screditare l’avanzata, sacrosanta, dei governativi iracheni, né minimizzare la tragedia umanitaria, ma interrogare chi strumentalizzava gli abitanti durante la battaglia di Aleppo soltanto per infangare la vittoria russo-siriana. Non sarebbe ora di finirla con il due pesi e due misure? 

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