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23 Ott 2017

 

Israele: intreccio di minacce endogene ed esogene

di Simone Zuccarelli

 

Nell’ultimo lustro la volatilità nello scenario mediorientale è cresciuta esponenzialmente. Le Primavere arabe hanno infatti aperto il vaso di Pandora che ingabbiava le numerose fratture etnico-religiose, culturali e sociali proprie del Levante. Esse sono andate, poi, a inserirsi in un complesso di antagonismi sia regionali che globali, esacerbando gli stessi e contribuendo all’incancrenirsi di antichi problemi e al sorgere di nuove dispute. Oasi di stabilità in questo complesso quadro, lo Stato di Israele è rimasto solo lambito dalle turbolenze. Il Paese, tuttavia, si trova immerso in un quadrante geo-strategico complesso: innumerevoli, infatti, sono le minacce endogene ed esogene che lo Stato ebraico si trova ad affrontare.

 

Fronte esterno, nubi ai confini
Per ciò che concerne il fronte esterno, le sfide principali alla sicurezza di Israele provengono indubbiamente dall’asse che, partendo da Teheran, giunge in Libano passando per la porzione di Siria controllata dal regime di Assad. Leader indiscusso di questa mezzaluna sciita, l’Iran rappresenta la minaccia numero uno per Israele dal punto di vista geostrategico.

 

Il regime degli ayatollah, infatti, nutre un’idiosincrasia profonda per lo Stato ebraico e con la firma dell’Accordo sul nucleare (2015) Israele ha visto peggiorare la sua posizione. Innanzitutto, l’intesa ha solo posticipato il problema senza risolverlo. E, inoltre, ha sbloccato miliardi di beni iraniani congelati all’estero ridando linfa a un’economia spossata e consentendo all’Iran di utilizzare i flussi in entrata per incrementare il suo sostegno ad attori ostili a Israele – Hezbollah sopra tutti.

 

Contrariamente a quanto sperato dai decision-makers americani, inoltre, l’intesa non ha indotto i persiani a tenere un atteggiamento maggiormente conciliatorio con statunitensi e alleati. Lo stesso Obama ha criticato l’atteggiamento iraniano, considerandolo non in linea con lo spirito dell’accordo.

 

Se l’Iran è al vertice delle minacce aventi carattere più olistico e a medio-lungo termine, Hezbollah è divenuta la principale preoccupazione dal punto di vista militare e a breve termine. Negli ultimi anni, infatti, la forza della milizia libanese è notevolmente cresciuta. Dalla fine della guerra in Libano (2006) e dall’entrata in vigore della risoluzione Onu 1701, infatti, Hezbollah ha ampliato di circa diciassette volte il suo stock di missili, ha potenziato il suo apparato bellico e migliorato la sua struttura interna, ha acquisito expertise grazie alla partecipazione al conflitto siriano e ha incrementato il numero dei suoi effettivi.

 

Nonostante la guerra in Siria abbia parzialmente logorato Hezbollah, dunque, la sua forza complessiva è decisamente aumentata. Per questa ragione, Israele ha intensificato, negli ultimi mesi, operazioni aeree volte a colpire Hezbollah in Siria, impedendo, ove possibile, il trasferimento di ulteriori armamenti.

 

Ad aggravare il quadro concorre il permanere dello scontro arabo-israeliano in merito ai territori contesi e alla condizione dei cittadini israeliani di etnia araba. Le possibilità di risolvere il conflitto in tempi brevi appaiono risicate. Ambedue le parti, infatti, sono oramai inserite in una spirale di sfiducia cronica. Il supporto dell’autorità palestinese al BDS movementacutizza le tensioni con Israele senza portare ai risultati auspicati e le rivalità tra Hamas e Fatah rendono complessa ai palestinesi l’organizzazione di una strategia unitaria, coerente ed efficace. Infine, nel 2015 sono stati 32 i cittadini israeliani ad andare a ingrossare le fila dello Stato islamico e, stando ai sondaggi, seppur la grande maggioranza della popolazione di etnia araba ripudi il sedicente Stato islamico (Isis), esiste una minoranza di sostenitori che deve invitare alla cautela i policy-makers israeliani.

 

Assi nella manica, futuro incerto
Nonostante i rapporti con gli Stati Uniti si siano raffreddati durante l’era Obama, con l’Amministrazione Trump il trendsembra destinato a invertirsi: il sostegno israeliano al raid statunitense condotto sulla base siriana di Sharyat nella primavera scorsa e le recenti parole di forte apprezzamento del premier israeliano Benjamin Netanyahu per il primo discorso di Trump alle Nazioni Unite sono una manifestazione cristallina del mutato stato delle relazioni.

 

Indubbiamente Israele non può – e non potrà – prescindere da un solido rapporto con gli Stati Uniti e dovrà sfruttare i prossimi quattro anni per provare a risolvere – perlomeno parzialmente – alcuni dei problemi già evidenziati. Il rinnovato attivismo iraniano e la firma dell’accordo sul nucleare, inoltre, stanno avendo il risvolto positivo di avvicinare gli israeliani all’asse sunnita guidato dall’Arabia Saudita. Anche Riad, infatti, ha duramente criticato l’intesa e ha iniziato a vedere in Israele un possibile asset per contenere le pulsioni iraniane e bilanciare a suo favore la situazione mediorientale.

 

Salvo nel caso di regime change, comunque, è difficile che Israele possa trovare un modus vivendi con Teheran: Netanyahu, parlando direttamente agli iraniani, ha ventilato tale ipotesi e ha sostenuto che tra il popolo dell’Iran e il regime che lo governa sussista una differenza abissale. Allo stato attuale, però, sembra improbabile una primavera persiana, soprattutto perché, oltre al timore suscitato dall’élite al potere, le esperienze negative in Siria, Libia, Iraq e Yemen potrebbero disincentivare per parecchio tempo il popolo iraniano dal pensare a una simile opzione.

 

A Israele, dunque, non resta che adoperarsi per contrastare l’influenza dello Stato persiano, facendo leva – oltre che sugli Stati Uniti – sulla rivalità tra potenze sciite e sunnite e sulla capacità della Russia – sempre più interessata a costruire buoni rapporti con Gerusalemme – di moderare i suoi alleati nell’area.

 

I prossimi anni, dunque, si mostrano cruciali per lo Stato ebraico: se riuscirà, infatti, a superare le sfide poste innanzi diventerà un player sempre più imprescindibile per i nuovi equilibri dell’area. In caso contrario potrebbe divenire la vittima di forze agenti sia dall’esterno che dall’interno e rischierebbe di vedere ridimensionate le proprie ambizioni e, nell’ipotesi peggiore, addirittura minata la propria esistenza. Comunque evolva la situazione, data la crescente importanza assunta dallo Stato di Israele per le dinamiche geo-strategiche nel quadrante mediorientale, sarà sempre più necessario che analisti e policy makers mantengano – parafrasando Hatikvah, l’inno israeliano – un occhio puntato su Sion.

 

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