Fonte: Counterpunch

http://znetitaly.altervista.org/

31 marzo 2017

 

Buio a mezzogiorno

di John Davis

Traduzione di Maria Chiara Starace

 

Hanno seguito il loro cibo. Venivano dall’Asia nordorientale: uomini, donne e bambini, avvolti in pellicce e pelli sferzate con forza, che camminavano tra i ghiacciai, su banchi di ghiaccio,  sulle morene e attraverso ampie valli fluviali dove vagabondava ancora la megafauna dell’Era glaciale che era in rapida recessione   Oppure  pagaiavano  attraverso le praterie di alghe  dell’oceano occidentale, stando vicino alla riva e circondati dalle loro prede: delfini, foche, lontre e forse anche di salmoni con i denti affilati che stavano diventando “maggiorenni”.

Si  sistemarono in ogni bio-regione della terra: soffrendo e talvolta prosperando, in pace o in guerra l’uno con l’altro, ma sempre vivendo con leggerezza  sulla terra. Si moltiplicarono ma non ci fu sovrappopolazione.

Tra il secolo sedicesimo e diciannovesimo, forse 15 millenni dopo che questi primi popoli erano arrivati, gli europei arrivarono con armi, malattie  e acciaio, come si espresse Jared Diamond. Dopo secoli  di coabitazione con gli animali, che gli europei avevano addomesticato per ricavarne più facilmente la carne, per prenderne il latte,

conciarne le pelli e trasformarne le ossa, i nuovi arrivati vennero portando  malattie infettive che si scambiavano tra le specie, e proprio il loro arrivo dipendeva dalle grandi rivoluzioni tecniche e di conoscenze che avevano acquisito dopo la stagnazione dell’Europa post-romana. Le popolazioni native erano  indifese di fronte a questi assalti biologici e tecnologici.

Gli Stati Uniti sono quindi un paese nato dall’imperialismo. L’America del Nord     attirava come una terra che poteva essere consumata,  i cui popoli potevano essere ammazzati (deliberatamente o da rischi biologici), i sopravvissuti potevano essere ridotti in schiavitù  e le sue risorse potevano essere  saccheggiate. Gli europei, avendo così meticolosamente ripartito le loro terre a vantaggio dei pochi (l’aristocrazia e altri classi  di proprietari terrieri) e detrimento dei molti (i contadini), hanno visto un’opportunità di cominciare di nuovo per sfuggire a un feudalesimo logorato dal tempo e per sfruttare più equamente le ricchezze del Nord America.

Questa volta, trasportate sulle ali ideologiche del liberalismo della fine del diciottesimo secolo, la terra sarebbe stata disponibile per tutti, e il suo governo  avrebbe organizzato le cose a beneficio dei suoi molti proprietari. Che cosa potrebbe essere più giusto di questo? Ma la democrazia jeffersoniana portava al suo interno il seme demoniaco del capitalismo agrario sviluppato nel Vecchio Mondo e ora, nel Nuovo,  pronto a  esplodere con un’espansione illimitata. Messa insieme    al mercantilismo che veniva energizzato dal commercio triangolare stabilizzato nei centri di produzione del Vecchio Mondo e che faceva perno sul  Nord America per le materie prime agricole e  sull’ Africa per il lavoro degli schiavi che li coltivavano, il capitalismo divenne l’ideologia dominante degli Stati Uniti.

La competizione inerente al capitalismo diventa   una profonda frattura tra vincitori e perdenti –i ricchi e i poveri – quando un’accumulazione predatoria porta a un’organizzazione della società che schiera   il lavoro contro il capitale, i bianchi contro le minoranze, le aree urbane contro quelle rurali, l’educazione di élite contro quella popolare e la politica contro la vita sociale, mentre il potere, nel frattempo,      matura a favore dei ricchi. L’abilità dei ricchi di stabilire alle regole del gioco, ha promosso  queste caratteristiche come si sono manifestate prima nel mercantilismo e nel capitalismo agrario, poi nel capitalismo industriale del XIX secolo e dell’inizio del ventesimo e ora nel neoliberalismo.

Il grande dissipatore  del capitalismo allo stadio avanzato, è la cosiddetta classe media – essenzialmente una creazione della fine del 10 secolo e dell’inizio del XX secolo e partner essenziale per la produzione meccanizzata. Dopo che quelle macchine diabolici cominciarono davvero a ronzare nelle fabbriche è stato necessario trovare dei consumatori. Thorstein Veblen ha capito che il consumismo vistoso era essenzialmente un comportamento di “parata” praticato da questa nuova classe interstiziale (incoraggiata dalle oscure arti della commercializzazione), che si inseriva tra gli operai e il capitale. Insieme stabilirono una convincente divisione tripartita

del lavoro, del consumo e del capitale.

L’idea di Marx che l’ideologia borghese (le cui attrattive si estendono a tutte e classi basse) rendeva ciechi i cittadini allo sfruttamento al quale erano soggetti, è stata profetica: presagiva l’accettazione del tutto passiva di un governo per natura oligarchico da parte delle classi medie maggioritarie. Il nostro governo ha custodito l’ideologia del capitalismo e di quella a essa collegata, del  governo dei pochi sui molti, fin dal suo concepimento – non è affatto un’aberrazione che George Washington venisse ritenuto l’uomo più ricco d’America. La nostra democrazia, un “gioco delle tre carte” che si fa ogni due anni, rimane nelle mani sleali dei cittadini più ricchi del paese.

Il nostro attuale Re Sole, raggiante sotto la sua aureola, è soltanto un meschino simulatore, ma la sua elezione parla alla fedeltà americana  che si deve alla ricchezza, quando  agisce, nel suo modo da buffone, come il simbolo supremo dell’oligarchia neoliberale. Mentre fa cenni di frenare questa più recente ripetizione  del capitalismo,     vomitando la sua retorica nazionalista, protezionista, di alte tariffe doganali, la violenza attuale fa pensare che il mercato azionario resti immensamente fiducioso che Trump comprenda, come Coolidge (e come ogni presidente fin da Grant) che  il compito dell’America sono gli affari e che quel  compito è ora irrevocabilmente globale.

L’imperialismo ‘aggiunge’ valore al processo di produzione, appaltando materiali e mano d’opera (e spesso entrambi) a vantaggio competitivo in territori oltre la base di mercato dei prodotti finali. Questa impresa capitalista esogena è stata complice, almeno fin dal XVII secolo, della metastasi del capitalismo in tutto il globo. C’è stato un tempo in cui questa attività coinvolgeva la reale conquista di terre straniere. Ora, il capitalismo, racchiuso come neoliberalismo in questa età di produzione globalizzata e di commercio internazionale, è sovraccarica delle disuguaglianze salariali tra il Nord globale e il Sud. Questa divisione a livello di emisfero riflette in gran parte la divisione tra le nazioni imperialiste e le loro ex colonie  serve come  terreno per il gioco neoliberale dell’arbitraggio del lavoro globale.

Mentre la produzione industriale è sempre più situata nel Sud globale, questo fatto contribuisce poco ad arricchire quelle terre, e ha invece rafforzato l’accumulo di ricchezza nel nord e ha causato l’immiserimento della forza lavoro nell’urbanizzazione del Sud. Contemporaneamente, come fa notare John Smith in Imperialism & the Globalization of  Production (University of Sheffield, 2010)  il  profitto  è sempre più concentrato sulla ‘finanzializzazione’ per cui i profitti della produzione vengono  deviati verso la speculazione finanziaria e le fusioni dell’equità privata e delle acquisizioni. Nel frattempo,  la valuta forte  guadagnata dai paesi che producono,  (soprattutto la Cina), è restituita   agli Stati Uniti, in modo che possano continuare ad acquistare i prodotti per il consumatore che trovano la loro strada, tramite le navi container  cariche, verso gli scaffali di Best Buy, Walmart, Bed Bath and Beyond (nomi di grandi magazzini negli Stati Uniti) e simili. Smith suggerisce che stiamo assistendo a un ‘Piano Marshall’ perverso in cui alcuni dei paesi più poveri del mondo finanziano gli eccessivi consumi dei più ricchi”. L’UE, il NAFTA e il TPP sono stati tutti strutturati, in parte per aumentare l’accesso ai centri di lavoro offshore a poco prezzo dell’Europa Occidentale, degli Stati Uniti e del Giappone.

La corsa  al ribasso  in termini di competitività globale inevitabilmente ha un impatto sui  restanti centri di produzione nel Nord globale dove i salari vengono ribassati   per assicurarne la loro prolungata fattibilità. E’ passato inosservato il fatto che i centri industriali di questo paese hanno contribuito potentemente alla vittoria dei Repubblicani nella recente elezione presidenziale. Gli elettori scommettevano  che il nuovo presidente avrebbe controllato più efficacemente i principali segni dell’arbitraggio del lavoro globale – emigrazione e appalto a terzi – risalendo alle ideologie ultranazionaliste e di destra degli anni ’30 del ‘900. E’ una forte possibilità, ma dovremmo tuttavia prepararci al neoliberalismo che ha una faccia fascista.

E’ allettante presumere  che l’oscurità è soltanto di recente  accaduta a questo paese: congruente, forse con quello che potremmo chiamare il nostro proprio basso “voltaggio”, la “Rivoluzione Arancione. Ma l’ombra degli inferi è stata endemica fin da quando le potenze imperiali europee hanno colonizzato quelli territori che ora costituiscono gli Stati Uniti. La depressione fisica inarrestabile è soltanto occasionalmente trafitta da periodi di sereno – momenti che sono stati spesso attribuiti al governo dei presidenti e del Congresso, ma, come dimostra Howard Zinn nel suo libro The Peoples History of the United States, del 1980, questo può essere più facilmente attribuire all’opposizione delle persone governate.

Al culmine del suo potere finanziario e militare del XXI secolo, gli Stati Uniti rimangono profondamente  offuscati  dalla loro ideologia prevalente che, proprio per la sua natura,  non tengono per nulla in considerazione   il benessere individuale e sociale. In questo momento di fulgore presidenziale,  mentre la sua luce spudorata  illumina le vergognose manifestazioni di estrema ricchezza, noi stiamo sperimentando un buio esistenziale a mezzogiorno.

 

nota

*https://it.wikipedia.org/wiki/Thorstein_Veblen

 


Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Originale: http://www.counterpunch.org/2017/03/31/darkness-at-noon-2

 

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