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La vittoria di Trump: un altro colpo all’imperialismo di proletarian on line Traduzione di Alessandro Lattanzio
In seguito alla Brexit di giugno, le elezioni presidenziali degli Stati Uniti hanno già gravi ripercussioni per la borghesia imperialista, non solo negli Stati Uniti, ma nel mondo. Mentre caos e disunione e panico di diffondono, i lavoratori dovrebbero organizzarsi per sfruttare la crescente crisi nel campo nemico.
Il 9 novembre 2016, Donald Trump è stato dichiarato vincitore nella corsa presidenziale degli Stati Uniti. La vittoria di Trump ha stordito la classe dirigente degli Stati Uniti, come del resto le classi dirigenti dell’imperialismo. Gli ideologi dell’imperialismo, tra cui coloro che passano di sinistra nei centri dell’imperialismo, ne sono divenuti isterici, indicando il risultato come la vittoria di pregiudizio, paura, ignoranza, odio e dispetto; una vittoria del ‘nazionalismo’ sull”internazionalità’, e attribuendo il trionfo di Trump a razzismo, misoginia e islamofobia.
Le vittime della globalizzazione Indubbiamente questi fattori, in particolare la posizione contro l’immigrazione, hanno contribuito al successo di Trump, ma di gran lunga il fattore più importante della sua vittoria è aver sapientemente sfruttato il malcontento di vaste aree della classe operaia, che infine subivano ciò che viene eufemisticamente chiamata globalizzazione, la massiccia esportazione di capitali dei Paesi imperialisti, portando a decimazione dei posti di lavoro, stagnazione dei salari e calo del tenore di vita. Proprio come nel referendum inglese sull’adesione all’UE, così alle presidenziali negli Stati Uniti, vasti strati della classe operaia impoveriti hanno espresso il loro verdetto su coloro che percepiscono causa della propria miseria. Anche alcuni giornalisti borghesi impegnati corpo e anima col sistema di produzione capitalistico, che considerano eterno, e che considerano il ‘libero commercio’ la ‘linfa vitale dell’umanità’, sono stati costretti ad ammettere che il sistema non da lavoro a molti. Will Hutton, scrivendo su The Observer, ha detto ciò su questo punto: “Sia il settore manifatturiero della Gran Bretagna che degli Stati Uniti hanno subito batoste sproporzionate (conseguenti all’esportazione dei capitali). Quest’anno, gli elettori della classe operaia di USA e Gran Bretagna nelle roccaforti industriali in decomposizione hanno espresso il loro verdetto. Niente più trasferimenti di impianti all’estero. Niente più chiusure per importazioni a basso costo. Niente altre vendita di grandi aziende agli stranieri. Niente più stagnazione dei salari. Niente più immigrazione. Può essere che ci siano posti di lavoro e grandi prospettive in abbondanza nei fiorenti settori tecnologici e dei servizi nelle grandi città spinte dal commercio globale, ma non importa. Sono un male e nessuno ha preso misure decisive per aiutarli. I voti per Trump e la Brexit segnano la fine di un’epoca e la nuova epoca buia di chiusura, protezionismo e nazionalismo“. (Il commercio è la linfa vitale dell’umanità. Le porte chiuse portano a menti chiuse, 13 novembre 2016) Così come fu con gli elettori della classe operaia nel South Yorkshire e West Midlands nel voto per la Brexit, così è stato con gli elettori in Michigan, Pennsylvania e Wisconsin nelle elezioni degli Stati Uniti. Rispondendo al malcontento tra i perdenti della globalizzazione, Donald Trump ha promesso di ritirarsi dal NAFTA (l’accordo di libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico) che, ha affermato, ha distrutto i posti di lavoro statunitensi. Ha promesso di mettere fine immediata ai negoziati sugli accordi commerciali transatlantico e trans-pacifico TPP e TTIP. Ha promesso d’imporre drastiche tariffe, del 45 per cento, sulle importazioni cinesi, che rappresentano la metà del deficit commerciale degli Stati Uniti, ignorando il fatto che tali tariffe violerebbero le regole del WTO e che la Cina può adottare ritorsioni. Ha anche promesso d’imporre dazi del 35 per cento sulle importazioni messicane negli Stati Uniti. Inoltre, ha promesso di costruire un muro al confine USA-Messico per evitare che i messicani entrino negli Stati Uniti, così come di deportare 11 milioni di lavoratori migranti “illegali”. Il primo giorno in carica ha detto che avrebbe dichiarato la Cina manipolatore di valuta. Alcune di queste proposte non hanno senso economico, e l’amministrazione Trump è probabile che arrivi a violarle, piuttosto che a rispettarle. Ciò che conta nell’elezione sono le vittime statunitensi della globalizzazione che ritenegono che Trump parli a loro nome e, pertanto, ripongano fiducia nelle sue promesse elettorali. Alcune delle promesse sono più realizzabili, soprattutto negli accordi commerciali. “La globalizzazione guidata dagli USA“, ha dichiarato Martin Wolf sul Financial Times, “è già fragile. Trump probabilmente la sotterrerà. Dopo la vittoria, la Trans-Pacific Partnership sembra morta“, aggiungendo che “potrebbe lasciare un’apertura all’alternativa di Pechino: il partenariato regionale globale economico (RCEP)… La proposta di partenariato transatlantico di scambio ed investimenti era moribonda ed ora è morta”. I costi delle promesse di Trump d’imporre tariffe sull’importazione “per scoraggiare le imprese dal licenziare i propri lavoratori per trasferirsi in altri Paesi e rispedirne i prodotti negli Stati Uniti esentasse” si rivelerebbero proibitivi per il commercio e la credibilità del sistema commerciale degli Stati Uniti, ha detto Wolf, concludendo minacciosamente: “non ci s’inganni: il trionfo di Trump potrebbe destabilizzare l’economia statunitense e mondiale“. (Le conseguenze economiche di Trump, 11 novembre 2016)
Relazioni USA-Russia Se i circoli imperialisti sono profondamente preoccupati dalla posizione di Trump sul commercio, sono positivamente in apoplessia per la sua posizione sulle relazioni USA-Russia in generale e le sue opinioni su Vladimir Putin, il presidente russo, in particolare. Durante la campagna elettorale, Trump ha elogiato Putin e ha espresso il desiderio di avere buone relazioni con la Russia in modo da evitare conflitti tra i due Paesi militarmente più potenti del mondo. In riferimento al ruolo russo in Siria, ha osservato che, dato che la Russia combatte i terroristi jihadisti in Siria, così come iraniani e governo del Presidente Assad, gli Stati Uniti dovrebbero unirvisi. Lungi dall’essere pazzo o immorale, come i mercenari folli pagati dall’imperialismo lo ritraggono, le dichiarazioni di Trump in questo senso sono altamente morali, contribuendo a combattere i terroristi jihadisti scatenati dall’imperialismo contro il popolo siriano. Nei discorsi pre-elettorali, Trump chiariva che gli USA non avevano nulla da guadagnare andando da un Paese all’altro alla ricerca del cambio di regime. Queste dichiarazioni gli hanno attirato condanne al vetriolo da politici e ideologici della dirigenza imperialista su entrambi i lati dell’Atlantico. Qui c’è un esempio della rabbia impotente con cui i suoi critici l’hanno attaccato. Scrivendo sul Financial Times, un certo intelligente ma stupido Gideon Rachman ha capovolto i fatti esprimendo la sua ira così: “allearsi con i macellai di Aleppo comporterebbe un’amoralità che fa ribrezzo a molti in America e in Europa“. (Trump, Putin e l’arte della transazione, 15 novembre 2016). E non sono altri che soggetti come Rachman ad essere colpevoli di un monumentale cinismo alleandosi con i veri macellai di Aleppo, cioè i vili jihadisti scatenati dall’imperialismo statunitense, inglese e francese e dai loro servi in Medio Oriente, Arabia Saudita, Qatar e Turchia. E così alleati presentano uno spettacolo davvero rivoltante per tutta l’umanità progressista, come la maggioranza dei popoli di America ed Europa. In risposta a una domanda su qualche giornalista ucciso in Russia, Trump ha risposto dicendo: “anche il nostro Paese ne uccide molti”. Se questo tipo di verità netta fa infuriare i Rachman di questo mondo, tanto meglio.
Mettere in discussione la NATO Durante la campagna elettorale, Trump ha anche messo in dubbio il valore e l’utilità della NATO, dicendo che è il prodotto di un’altra epoca, passata, aggiungendo che gli USA non sono in dovere di proteggere scrocconi non disposti ad investire nella propria difesa. La posizione di Trump su commercio e difesa ha causato grande costernazione, per usare un eufemismo, tra gli apologeti dell’imperialismo. “Trump è contento di presiedere“, ha scritto, di nuovo capovolgendo i fatti, Philip Stephens, un altro intelligente e stupido giornalista mercenario, “la dissoluzione del sistema di alleanze degli Stati Uniti, lasciando l’Europa vulnerabile al revanscismo di Putin e l’Asia dell’est alle ambizioni di una Cina assertiva“. (L’America può sopravvivere a Trump, non così l’occidente, Financial Times, 11 novembre 2016) Con Trump presidente degli Stati Uniti, ha detto: “l’internazionalismo cooperativo sarà sostituito dal nazionalismo competitivo”. In altre parole, il nostro giornalista mercenario lamenta la possibilità di sostituire l’egemonia statunitense imperialista e un blocco imperialista coeso dal ritorno della sovranità statale e, in una parola, del multipolarismo. Inutile dire che Stephens non sente la necessità di fornire alcuna giustificazione per le sue affermazioni su ‘revanscismo’ di Putin o ‘ambizioni di una Cina assertiva’.
Mercenario al servizio dell’imperialismo In un articolo scritto il giorno dopo il risultato elettorale negli Stati Uniti, il beato Gideon Rachman ne fece un’analisi che, pur penetrante, va decifrata, spogliata degli eufemismi e illustrata al pubblico per la difesa fervente del campo imperialista unito dall’egemonia degli Stati Uniti. Per questo motivo è utile notare alcuni dettagli dell’articolo, anche se il lettore può trovarlo fastidioso. Rachman iniziava l’articolo dicendo che l’elezione di Trump a 45.mo presidente degli Stati Uniti avviene 27 anni dopo la caduta del muro di Berlino, “un momento di trionfo per la leadership degli Stati Uniti” che, ha detto, “inaugurò un periodo di ottimismo e di espansione delle idee liberali e democratiche nel mondo“. Quel periodo, ha aggiunto, “è stato definitivamente chiuso dalla vittoria di Trump“. Nel linguaggio dei comuni mortali, la caduta del muro di Berlino, seguito dal crollo delle democrazie popolari dell’Europa centro-orientale e della fu grande e gloriosa Unione Sovietica, fu una grande tragedia storica per i popoli di quelle terre, come pure per l’umanità, e sicuramente diede grandi opportunità all’imperialismo degli USA imponendo la propria egemonia completa e indulgendo in aggressioni sfrenate, praticando cambi di regime in Paese dopo Paese, uccidendo milioni di persone inermi e distruggendo interi Stati. Può, per favore, il nostro giornalista cinico e mercenario, con il suo portafoglio farcito dalle briciole del bottino imperialista, definire gli sviluppi in Europa orientale “un periodo di ottimismo e di espansione delle idee liberali e democratiche nel mondo“, ma la sua opinione sordida non è condivisa dalle vittime di tali sviluppi o dalle masse di persone comuni e decenti del mondo, anche in Europa e in America. Forse Rachman dovrebbe visitare Iraq, Afghanistan, Libia e Siria per chiedere ai loro popoli, che hanno ricevuto queste idee sulla punta dei missili da crociera e altra merce mortale, cose ne pensano di queste norme ‘liberali’ e ‘democratiche’. Non possiamo essere sicuri al momento se la vittoria di Trump segni la fine di questo incubo lungo 27 anni, possiamo solo sperarlo. Se Trump segue la propria retorica elettorale mettendo in discussione la NATO e ripristinando le buone relazioni con la Russia, queste misure certamente saranno un passo nella giusta direzione e porteranno un po’ di tregua alle vittime a lungo sofferenti per tali idee. La vittoria di Trump, ha detto Rachman, è “un profondo colpo al prestigio della democrazia degli Stati Uniti, e quindi alla causa della democrazia mondiale, che gli USA hanno sostenuto dal 1945“. La verità è esattamente opposta. In nome di ‘democrazia’, ‘Stato di diritto’, ‘diritti umani’ e ‘liberalismo’, gli Stati Uniti hanno agito dalla fine della seconda guerra mondiale da boia delle aspirazioni e dei movimenti democratici e rivoluzionari negli altri Paesi. Perseguendo guerre di rapina e il genocidio contro i popoli coreano, vietnamita, cambogiano e laotiano, causando la morte di 9 milioni di persone. Bombardarono in queste guerre quanto nella seconda guerra mondiale. Combatterono una guerra chimica avvelenando vaste aree di questi Paesi con defolianti letali, dai cui risultati continuano a soffrire ancora oggi. Poi ci sono i tentativi già citati dell’imperialismo di diffondere la democrazia in Iraq, Afghanistan, Libia e Siria, per non parlare della Palestina, dove diffonde la democrazia attraverso i tirapiedi sionisti. Alla luce di questi fatti, non si può non ammirare l’audace sfacciataggine menzognera di Rachman. La politica di Trump, secondo Rachman, “minaccia di sfasciare l’ordine liberale (leggi l’egemonia imperialista degli Stati Uniti)” guidato dagli Stati Uniti, sfidandone in particolare i due pilastri: “il supporto a un sistema commerciale internazionale aperto” e l'”impegno nelle alleanze a guida USA, base della sicurezza globale“. Rachman, come il resto della sua gente, è inorridito al pensiero di Trump che mette in discussione gli impegni alla sicurezza degli Stati Uniti con gli alleati della NATO, il Giappone e la Corea del Sud, a meno che non si sprema di più per la loro ‘difesa’. Ancora più terrificante è lo spettacolo di Trump che esprime “ammirazione aperta” per l’orco della propaganda imperialista, il Presidente russo Vladimir Putin, che consentirà di accrescere i timori che gli Stati Uniti non si oppongano alla “rinnovata aggressione russa in Ucraina o Europa orientale“. Affermando ciò senza uno straccio di prova sull’aggressione russa, per non parlare della “rinnovata” aggressione russa. Questo è allarmismo, propaganda nera e bugie sfacciate tipico del ministro della propaganda nazista Goebbels, secondo cui semplici affermazioni e loro ripetizione costante trasformano le menzogne in fatti. Per quanto riguarda l’Asia-Pacifico, Rachman ha detto che gli alleati asiatici degli Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud, sono allarmati al pensiero che la politica “America First” di Trump possa far “accettare la sfera d’influenza cinese in Asia orientale“, ovviamente essendo del parere che questa parte del Pacifico sia il cortile dell’imperialismo statunitense quanto le acque della California, e che l’imperialismo degli USA abbia il diritto divino di dominare l’Asia dell’est escludendo dei Paesi, in particolare la Cina, che sono situati in quella parte del mondo. Rachman concludeva il suo articolo con una nota triste e pessimista, dicendo che l’ufficio della presidenza degli Stati Uniti, “un tempo occupata da giganti… è stata arraffata da un droghiere superficiale“, che ha promesso di fare grande l’America di nuovo, ma “la sua ascesa alla presidenza è in realtà segno di decadenza e declino nazionale“. (Trump e i pericoli dell’America First, Financial Times, 10 febbraio 2016). Alla fine, come un gattino cieco (per usare la terminologia di Lenin), Rachman ha accidentalmente detto la verità. Senza dubbio, gli USA sono in avanzati declino e decadenza. E sarebbe sempre così se Hillary Clinton avesse arraffato la presidenza. (Vedasi VI Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, 1918, capitolo 4) Il declino degli USA è un duro colpo alle loro ambizioni egemoniche globali. Questa prospettiva può renderne tristi i lacchè, ma è occasione di gioia per l’umanità progressista. Con Trump, a condizione che rispetti le promesse elettorali, questo declino può semplicemente avvenire con meno guerre di aggressione per cambi di regime. Nessuno, tranne gli ammiratori folli degli Stati Uniti legatisi al carro da guerra dell’alleanza neo-nazista NATO, se ne pentirebbe.
Il declino degli Stati Uniti Il declino degli Stati Uniti ha poco a che fare con Donald Trump. Il sistema globale di ispirazione e concezione statunitense è decaduto da tempo. La crisi economica peggiore mai avuta di sovrapproduzione, con conseguente crollo del 2008 e il quasi-crollo dell’edificio finanziario imperialista, la stagnazione dei redditi, l’austerità imposta alla classe operaia per salvare i baroni-ladroni del capitale finanziario, la crescente disuguaglianza e il disincanto sul libero commercio, sono veramente un bene seppellendo il cosiddetto senso economico liberale. Ciò che è vero è che la demolizione dei pilastri politici del vecchio ordine, che Trump ha promesso, se effettuata, accelererà il declino degli Stati Uniti, di nuovo non una cosa negativa per l’umanità. Di fronte a questa prospettiva, e ansimando per la rapida scomparsa del vecchio ordine militare e dell’egemonia economica degli Stati Uniti, i difensori reazionari di tale ordine vedono solo pericoli e con grande perplessità si chiedono: “Quanto dell’Europa libera può sopravvivere al ritiro dell’ombrello della sicurezza degli Stati Uniti? Alla Russia sarà consentito ripristinare l’influenza sugli Stati ex-comunisti dell’Europa orientale e centrale?… Chi manterrà la pace nei mar cinese meridionale e orientale?” Con Trump che occupa la Casa Bianca, affermano: “L’occidente ha perso il suo guardiano, e la democrazia il suo campione”. (L’America può sopravvivere a questo. Non l’occidente, di Philip Stephens, Financial Times, 11 novembre 2016)
Perché Hillary Clinton ha perso Dichiarando che mancanza di esperienza, di carattere, intemperanza e ignoranza di Trump non lo rendono adatto alla presidenza degli Stati Uniti, i veterani della dirigenza e dello status quo ne attribuiscono la vittoria a razzismo, pregiudizio, odio e paura. Non riescono a capire come Hillary Clinton, sostenuta dal potente complesso militare-industriale, da Wall Street e da tutta la stampa e i media elettronici, non sia riuscita a sconfiggere Trump. Il meglio che possono pensare è attribuirne la sconfitta alla decisione di James Comey, capo dell’FBI, d’indagare Hillary sui suoi messaggi di posta elettronica, o alla presunta interferenza russa nelle elezioni degli Stati Uniti attraverso pirateria e fughe. In tal modo, questa nobiltà rifiuta ostinatamente di vedere l’elefante nella stanza: cioè l’alienazione e la disillusione di ampie fasce dell’elettorato verso la realtà e lo status quo, e l’abilità con cui Trump ne ha sfruttato il disincanto. Indubbiamente, razza e colore hanno giocato una parte nella sua vittoria. Il fattore di gran lunga più grande, tuttavia, è stato il disagio economico sentito da coloro che subiscono la globalizzazione, assieme all’impopolarità delle guerre infinite all’estero, che costano agli statunitensi comuni caro, per sangue e finanze, ma portano favolosi profitti ai giganti della finanza e dell’industria degli armamenti degli Stati Uniti. Aggiungendo a ciò le caratteristiche personali della candidata democratica, la totale mancanza di carisma; la sua storia di bugiarda congenita e criminale di guerra, responsabile di distruzione e perdite di vite umane monumentali nelle guerre estere; i suoi piani di scontro con la Russia; i suoi oscuri traffici con la Fondazione Clinton, i collegamenti con corrotti e terroristi e il suo autocompiacimento. Anche se fosse stata la gara tra i due candidati più impopolari nella storia delle elezioni presidenziali statunitensi, Clinton era personalmente molto più diffidata e invisa al popolo di Donald Trump. Non fu di molto aiutata dal partito, presieduta da capi screditati e disonesti, e per dirla con Thomas Frank, i democratici sono divenuti “da partito di Decatur (una malconcia cittadina dell’Illinois) a party a Martha Vineyard (residenza estiva delle élite)”. (Repubblicani e democratici hanno perso i colletti blu negli USA. Gli ultimi hanno da dire la loro, ora, The Observer, 6 novembre 2016) Era così sicuro della vittoria Hillary Clinton, perché il PD sembrava dare per scontata la propria base elettorale. Non solo la maggioranza degli elettori bianchi (il 69 per cento degli elettori degli Stati Uniti) votava per Trump, ma gli elettori afroamericani e latini non hanno portato a Clinton i numeri dati ad Obama nelle ultime due elezioni. (Una vittoria della rabbia e della paura, The Observer, 13 novembre 2016). L’élite del PD ha fatto ricorso ad ogni bassezza per privare Bernie Sanders (il solo ad avere volontà e capacità di sfruttare il malcontento dei lavoratori bianchi poveri secondo un punto di vista progressivo) della nomina del partito. La maggior parte dei sondaggi mostra che, se fosse stato il candidato democratico, Bernie Sanders avrebbe vinto facilmente contro Trump. Alla fine, circa il 37 per cento dei membri del sindacato e il 41 per cento delle famiglie dei sindacalisti hanno votato per Trump, tra cui numerosi sostenitori di Bernie. La leadership corrotta della AFL-CIO (Federazione Americana del Lavoro e Congresso delle Organizzazioni Industriali, la grande federazione dei sindacati degli Stati Uniti), così come la NAACP (Associazione nazionale per l’avanzamento dei popoli colorati) e la maggioranza dei membri del Congressional Black Caucus, furono usati da Hillary Clinton per bloccare e imbrogliare Bernie Sanders. Così strettamente era manipolato e controllato dall’élite di partito l’intero processo, che alla convention democratica i dirigenti sindacali non furono autorizzati a parlare di ‘classe operaia’ o a citare il contenzioso su uno qualsiasi dei grandi accordi commerciali (TPP, TTIP o NAFTA). Contro lo slogan di Trump di “prosciugare la palude” di Washington, liberandola da clientelismo politico e corruzione, la risposta dei vertici del PD fu affermare che “l’America è ancora grande” e “tutto va bene”; slogan compiaciuti che hanno nauseato e disgustato la maggioranza degli elettori. Oltre alla classe operaia, vi sono 30 milioni di piccole imprese negli Stati Uniti,che impiegano più della metà della popolazione attiva e costituiscono il 99,7 per cento di tutte le imprese, generando il 33 per cento delle esportazioni. All’altra estremità della scala, ci sono 18500 imprese con più di 500 dipendenti ciascuna. Gli interessi delle piccole imprese divergono da quelle delle grandi imprese, e hanno numeri e risorse per significative sfide politiche alle fasce tradizionali dei partiti politici. Costituiscono un grande segmento dei sostenitori di Trump, dato che i loro interessi non coincidono con quelli dei capitalisti monopolistici. Né beneficiano nella stessa misura dalla globalizzazione, sostenuta dai dirigenti dei partiti Repubblicano e Democratico, Wall Street e complesso militare-industriale. Non è un caso che tutto l’establishment ha sostenuto la candidatura di Hillary Clinton, una guerrafondaia, per non dire criminale di guerra, e fervente sostenitrice di TPP e TTIP (fino all’opposizione tardiva e timida per ragioni di opportunità elettorale). Non per niente Clinton ha ricevuto dai banchieri di Wall Street 78milioni di dollari di donazioni per la campagna, mentre Trump ne ebbe poco meno di 1 milione dalla stessa fonte.
Riscrivere la storia Nel tentativo di sminuire Trump e il suo successo elettorale, e di ritrarlo semplicemente come la vittoria di razzismo e intolleranza, i suoi detrattori ideologici ricorrono alla riscrittura della storia, nella speranza che i loro lettori siano abbastanza ignoranti da non notarlo. Ad esempio, dopo aver annunciato la vittoria presidenziale di Trump come “fine dell’occidente e scomparsa della democrazia liberale”, l’autore di un articolo di fondo in The Observer continuava: “Il trumpismo ha preso d’assalto la città splendente sulla collina, tradito i padri fondatori che erano per la dignità umana e i diritti universali e ora presagisce un’America isolazionista ad immagine di Trump. Un faro di discriminazione e cattiveria” (op cit, 13 novembre 2016). Niente del genere! Qualunque siano le dichiarazioni e la retorica dei padri fondatori, certamente non si distinsero per dignità umana e diritti universali; ognuno di loro, tra cui Thomas Jefferson e Benjamin Franklin (il più radicale) credevano nella e praticavano la schiavitù, possedendo di decine, e in alcuni casi centinaia, di schiavi neri. La prima costituzione degli USA descriveva i neri come solo per tre quarti esseri umani; la repubblica nordamericana nata dalla guerra d’indipendenza non gli concesse alcun diritto. Ci sono voluti altri novant’anni e una guerra civile, che divorò quasi il 10 per cento della popolazione nordamericana, affinché gli schiavi fossero emancipati. Anche allora, subito dopo, i benefici dell’abolizione furono tutti tolti da una legislazione restrittiva in diversi Stati; e ci sono voluti altri novant’anni e un potente movimento per i diritti civili negli anni ’60 per spazzare via tali leggi. Anche oggi, gli afro-americani, insieme ai pochi nativi americani che sono riusciti a sopravvivere a massacri ed olocausti, continuano ad essere le maggiori vittime di questo “faro di discriminazione e cattiveria”, vale a dire, la repubblica americana; questo leader del ‘mondo libero’ e custode della ‘democrazia’. E’ un insulto all’intelligenza dei suoi lettori che il caporedattore dell’Observer osasse fare una tale affermazione oltraggiosa. Trump non è l’inventore di cattiveria e discriminazione, odio razziale e dispetto; questi sono ingredienti essenziali del corpo politico statunitense. A intervalli regolari ci fu isteria anti-immigrati negli Stati Uniti ad ogni ondata immigratoria, contro gli italiani, gli irlandesi e gli ebrei. Quello che Trump ha fatto è identificare la frattura tra i donatori del Partito Repubblicano, che beneficiano della globalizzazione, e la sua truppa, che se ne sente vittima. Poi si mise con questi ultimi attaccando il liberoscambismo e l’interventismo militare. Di conseguenza, si è assicurato il 70 per cento del voto dei bianchi della classe operaia; soverchiando l’ex-candidato repubblicano Mitt Romney tra gli elettori neri ed ispanici; e ha perso tra le donne bianche con istruzione universitaria solo per poco. Coloro che fino ad oggi hanno gestito il partito repubblicano hanno dato ad Obama l’autorità per negoziare nuovi accordi commerciali, ora defunti. Con l’elezione di Trump, le contraddizioni nel partito repubblicano sono ormai venute alla ribalta; resta da vedere se i sostenitori di Trump o i capi repubblicani avranno il sopravvento.
Piattaforma economica La piattaforma economica di Trump è un guazzbuglio. Le sue proposte sulla tassazione personale porterebbero solo benefici modesti agli elettori a medio reddito, i cui interessi pretende di rappresentare, e grandi guadagni ai più ricchi. Con imposte minori alle società, la sua amministrazione spera di attirare aziende rimpatriando una cifra stimata di 1-3 trilioni nascosti all’estero. La sua proposta per 1 trilione di investimenti infrastrutturali, assieme a una politica di bilancio più flessibile, stimolerebbe l’economia degli Stati Uniti, riparando strade, ponti, gallerie, aeroporti, scuole e ospedali, cosa a cui i repubblicani al Congresso si sono con veemenza opposti, finora. Resta da vedere se saprà superare questo ostacolo. I piani di spesa di Trump e i tagli fiscali non finanziati aggiungerebbero altri 5 trilioni al deficit federale degli Stati Uniti entro il 2026, secondo il Comitato per un bilancio federale responsabile. Per di più, i suoi piani sono suscettibili di dimostrarsi inflazionistici, aumentando i costi dei finanziamenti, che a sua volta potrebbero obbligare la FED ad alzare i tassi d’interesse e porre le basi per una crescita più lenta. La cosa più controversa della piattaforma economica di Trump è la minaccia fiscale del 45 per cento di tariffe alle importazioni cinesi negli Stati Uniti. La Cina ha un surplus commerciale con gli Stati Uniti da 400 miliardi di dollari l’anno, e le riserve cinesi in valuta estera attualmente sono 3,1 trilioni di dollari, in gran parte investiti nel mercato del Tesoro degli Stati Uniti. Vi è quindi la possibilità di misure di ritorsione devastanti. La Cina potrebbe sbarazzarsi delle partecipazioni del Tesoro degli Stati Uniti, avviando una catena di eventi, con conseguente calo precipitoso del valore del dollaro USA, portando all’aumento dei tassi d’interesse degli Stati Uniti per proteggere il dollaro, e a una probabile recessione negli Stati Uniti. Tale catena di eventi sicuramente destabilizzerà il mercato obbligazionario infliggendo gravi danni all’economia globale. Gli statunitensi prendono prestiti dai più poveri cinesi con scarsi tassi d’interesse per acquistare i beni che i cinesi producono in grandi quantità. Questi vantaggi sono stati decisi a costo del lavoro negli Stati Uniti, ma ciò, tuttavia, è nella natura dell’imperialismo, le cui caratteristiche principali sono esportazione di capitali, creazione di strutture produttive all’estero, interesse nella massimizzazione dei profitti. Qualunque sia la retorica, anche Trump non potrà farvi molto. Inutile dire che anche la Cina subirà perdite enormi nelle attività denominate in dollari, se i due Paesi saranno trascinati in azioni di ritorsione. Davanti alle conseguenze economiche disastrose imponendo tariffe ai beni cinesi, violando le norme dell’OMC, Trump dovrebbe fare un passo indietro dal precipizio.
La critica di Burleigh all’élite liberal E’ interessante notare che, mentre una combinazione di neocon e ‘liberal’ di sinistra negli Stati Uniti, compresi gli inguaribilmente contro-rivoluzionari trotzkisti, è frastornata al punto di provare dolore per la vittoria di Trump, sentendo il “tonfo dello stivale fascista nell’ascesa di Trump“, Michael Burleigh, autore e storico, ha rimesso la questione nella misura della sobrietà e dell’onestà, dicendo che la vittoria di Trump va vista come la grande fuga di USA e occidente. Scrivendo sul Mail on Sunday, sosteneva con effetti devastanti per chi è distrutto dal dolore per il successo elettorale di Trump: “Si dice che molti di destra non siano felici della presidenza Trump. Questi neocon normalmente non badano al tonfo degli stivali, preferibilmente sulla faccia degli arabi, credendo che il falco Clinton avrebbe continuato il loro bellicismo evangelico. Basti guardare come è andata a finire. Dall’11 settembre gli Stati Uniti hanno agito come un ‘globocop’ in Medio Oriente, Nord Africa e Afghanistan. Il risultato è la morte di milioni di persone, l’ascesa dello Stato islamico, gli Stati falliti, la diffusione del terrorismo e una marea di profughi che destabilizza l’Europa“. Continuava: “Questo caos ha aggravato gli effetti della ‘digitalizzazione’ e ‘globalizzazione’ sulla gente comune che lavora e non ha un posto di lavoro sicuro. Computer, robot industriali e outsourcing hanno distrutto molti mezzi di sussistenza“. Queste sono le ragioni, secondo Burleigh, per cui “l’isteria liberale su Trump è fuori luogo. Con la promessa d’intervenire militarmente solo quando gli interessi nazionali sono in gioco, potrebbe essere proprio il presidente giusto per i nostri tempi. Il risultato potrebbe essere un nuovo ordine mondiale multipolare“. “L’epoca“, dice, “è cambiata e la politica internazionale deve cambiare con essa“. In seguito ha detto che Russia, Cina, India e Iran vogliono che siano ascoltati; e che la loro voce sia ascoltata per rimodellare le istituzioni globali che i vincitori della seconda guerra mondiale imposero nel 1945. La “pretesa statunitense di difendere mondo occidentale e Pacifico è sempre più odiata dal pubblico statunitense… A differenza di Hillary Clinton, che si sarebbe scontrata con Vladimir Putin sin dall’inizio, Trump dice di volere migliori relazioni con la Russia. E’ giusto che i russi aiutino gli Stati Uniti (e non solo) a distruggere lo SI. Con consiglieri intelligenti si potrebbe scoprire che un Iran relativamente occidentalizzato è un alleato migliore dei sauditi, che hanno passato gli ultimi quarant’anni a diffondere l’estremismo islamico. Ma tutto questo“, concludeva, “avrà un costo. Dovremo accettare il fatto che non possiamo più esportare le nostre idee… nel resto del mondo (non solo idee ma l’imposizione dell’egemonia imperialista a mano armata!)” Ciò che Burleigh sostiene, in sostanza, è il corso non-imperialista delle potenze imperialiste. Questo non accadrà. Comunque, desiderio e difesa di un mondo senza il brigantaggio e l’egemonia imperialista, anche se non espresso in termini così chiari, sono lodevoli, in quanto il documento proviene da un ambito inaspettato, svergognando i sostenitori dei valori di pseudo-sinistra, ‘democratici’ o liberali che, con la vittoria di Trump, si affliggono prenotando camere speciali con consulenti, cuccioli e peluche per alleviare il dolore. (La grande fuga da globocop, 13 novembre 2016)
La crisi imperialista si approfondisce Dopo la Brexit di giugno, la vittoria di Trump è un altro duro colpo al sistema imperialista e al cosiddetto ordine liberale. In quanto tale, va accolta con entusiasmo dal proletariato rivoluzionario e dall’umanità progressista. |