Fonte: Sputnik https://www.ariannaeditrice.it/articoli/ 22/12/2017
di Giulietto Chiesa
Donald Trump riuscirà, forse, a terminare il suo primo mandato, ma ogni giorno che passa si accresce il sospetto che sarà anche l’ultimo.
È stata la 43esima volta che gli Stati Uniti hanno affondato, con il loro veto, una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU su questioni che riguardano Israele e i suoi atti illegali nei territori palestinesi occupati. E non è stata la "solita" risoluzione, in cui il "resto del mondo" — seppure variamente "mitragliato" da defezioni dovute alle pressioni e ai ricatti americani nei confronti dei paesi minori di Africa e Asia, impossibilitati a difendersi — si oppone alla coalizione "occidentale" dei paesi più ricchi. Questa volta anche tutta l'Europa non ha potuto seguire le orme imperiali e ha dovuto schierarsi criticamente contro Washington. Oltre all'intero mondo arabo, all'intero schieramento musulmano, alla Turchia — membro della Nato sempre più riottoso — si assiste a un plebiscito mondiale dissenziente. Poche volte nella storia delle Nazioni Unite gli Stati Uniti si sono trovati in una situazione analoga. Cosa significa è presto detto: Donald Trump sta cercando di trovare riparo e respiro all'offensiva che lo paralizza all'interno, cercando rifugio sotto le ali delle potentissime organizzazioni lobbystiche sionistiche e filo-israeliane che controllano gran parte della politica estera americana. Le quali furono contro di lui — e a favore di Hillary/Obama — durante la campagna elettorale. Ma le stesse lobbies erano state ferocemente ostili alla politica di Obama, favorevole al negoziato sul nucleare iraniano. Frenetici contatti sottobanco tra queste forze e il presidente in carica hanno convinto Trump che era il momento di offrire loro concessioni sostanziali. Del resto una mossa come quella su Gerusalemme avrebbe avuto il vantaggio di soddisfare anche una parte cospicua dei senatori americani dei due partiti, a loro volta influenzati potentemente dalle lobbies sioniste. Il tutto avrebbe concesso a Trump non solo una tregua, ma un'alleanza sostanziale contro lo "stato profondo" delle varie "intelligences" (alleate con i democratici) che continuano a puntare su un futuro "impeachment" del Presidente. Il "regalo" di Gerusalemme a Netanyahu è stato il risultato finale di questa "covert operation". Ma è avvenuto al prezzo di un rovesciamento totale della politica americana verso il conflitto israelo-palestinese. Una politica che, sebbene abbia consentito in tutti questi anni a Israele di fare ciò che era nei suoi piani, tuttavia permise a Washington di mantenere un'ambiguità sufficiente per mantenere il consenso dei suoi alleati attorno all'idea di una possibile soluzione del conflitto con la formazione, a fianco di Israele, di uno stato palestinese, con capitale a Gerusalemme-est. La rottura di quest'ambiguità è stata sottolineata dallo stesso ambasciatore francese all'Onu, François Delattre, il quale, appoggiando il progetto di risoluzione presentato dall'Egitto, lo ha definito come "il frutto del consenso internazionale su Gerusalemme, costruito nel corso dei decenni" dalla comunità internazionale. Almeno una decina di giovani palestinesi uccisi e oltre 1900 feriti sono stati fino ad ora il risultato di una tale inversione di marcia. Ma c'è di peggio per Washington. La salvezza — per altro temporanea — del Presidente americano in carica toglie agli Stati Uniti la posizione di garante principale di ogni futuro processo di pace in Medio Oriente. La quale cosa, a sua volta, squaderna di fronte al mondo intero la sbalorditiva constatazione che la politica estera americana, il suo ruolo tradizionale di "egemone mondiale" è ormai divenuto ostaggio della lotta politica interna alle élites americane. Sembra di leggere l'antica massima latina: "omne imperio in se ipsum divisum, desolabitur", ogni impero che sia diviso al suo interno, finirà con l'essere distrutto.
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