http://www.altrenotizie.org/ martedì 19 settembre 2017
di Michele Paris
Per la prima volta in 72 anni, martedì un capo di stato intervenuto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha minacciato apertamente di distruggere un intero paese e i suoi abitanti. Il primo discorso del presidente americano Trump al Palazzo di Vetro è stato infatti segnato da un delirio di militarismo e aggressività, diretto contro i soliti presunti nemici degli Stati Uniti, a cominciare dal regime nordcoreano di Kim Jong-un.
Nel passaggio più agghiacciante del suo intervento, Trump ha affermato che gli USA, “se costretti a difendere se stessi e i propri alleati”, non avranno altra scelta che “distruggere completamente” la Corea del Nord” e, inevitabilmente, i suoi 25 milioni di abitanti.
La ragione delle minacce sarebbe dovuta al fatto che “nessuna nazione sulla terra ha interesse a vedere questa banda di criminali dotarsi di armi e missili nucleari”. Trump ha poi ripreso la definizione di “Rocket Man” – “uomo dei missili” – per definire Kim, come già aveva fatto qualche giorno fa in un tweet, definendo le sue “provocazioni” come una “missione suicida”.
I toni pesantissimi del presidente americano nei confronti della Corea del Nord erano ampiamente previsti, ma la minaccia diretta di spazzare via un interno paese ha alzato decisamente il livello di criminalità del governo e dell’apparato militare degli Stati Uniti. Se la gestione della politica estera e le scelte sulla sicurezza nazionale americana sono ormai nelle mani dei vertici militari, e questi ultimi sono considerati relativamente più moderati nell’approccio alla crisi nordcoreana, la continua escalation di minacce rischia di innescare una dinamica difficilmente arrestabile o risolvibile con la diplomazia.
Secondo indiscrezioni trapelate dal Palazzo di Vetro, il discorso di Trump ha suscitato l’orrore di molti diplomatici presenti e non solo tra i nemici o presunti tali degli Stati Uniti. La visione proposta dal presidente americano riporta d’altra parte ai tempi dell’amministrazione Bush, con la riproposizione di una sorta di “asse del male” che, come allora, include l’Iran e a cui si aggiungono il Venezuela e la Siria.
Singolarmente, come di consueto, molte delle accuse sollevate da Trump martedì all’ONU hanno poco o nessun fondamento e, anzi, potrebbero essere facilmente rivolte agli stessi Stati Uniti. Per quanto riguarda ad esempio la Siria, il presidente americano ha ribadito la tesi, mai provata e addirittura smentita da svariate indagini indipendenti, che il regime di Assad ha fatto ricorso ad armi chimiche contro il proprio popolo.
In merito all’Iran ha invece affermato che le principali esportazioni del paese sciita sono “violenza e sangue”, nonostante le accuse arrivino dal leader di un paese che solo nell’ultimo decennio ha letteralmente distrutto interi paesi e provocato direttamente o indirettamente milioni di morti. L’offensiva contro la Repubblica Islamica, appoggiata e alimentata dal premier israeliano Netanyahu, fa parte delle manovre di Washington per cercare di far saltare l’intesa sul nucleare, siglata a Vienna nel 2015, a fronte delle resistenze degli alleati americani in Europa e degli altri paesi che parteciparono al negoziato.
In definitiva, il raccapricciante intervento di Trump alle Nazioni Unite è servito a chiarire che gli Stati Uniti, per invertire la crisi avanzata della propria posizione a livello internazionale, non intendono in nessun modo recedere dall’aggressività che li ha contraddistinti negli ultimi due decenni, a costo di scatenare altre guerre preventive che, sempre più, rischiano di sfociare in conflitti nucleari.
Anche riguardo al Venezuela, Trump ha chiarito che Washington proseguirà nel tentativo di forzare il cambio di regime a Caracas, attraverso il sostegno all’opposizione di destra al governo del presidente Maduro. Alla vigilia dell’apertura dell’Assemblea Generale, Trump aveva incontrato alcuni leader latino-americani, con i quali aveva verosimilmente concordato la strategia venezuelana. Anche in quell’occasione, come nel discorso di martedì, aveva parlato assurdamente di voler “ristabilire la democrazia in Venezuela”, di fatto tramite un golpe guidato dagli ambienti filo-americani del paese sudamericano.
L’atteggiamento del presidente americano non rappresenta comunque un segnale della forza del suo paese, ma è al contrario il sintomo della debolezza degli Stati Uniti, incapaci di conciliarsi con le tendenze multipolari ormai più che evidenti a livello globale e costretti perciò a combatterle con il ricorso alla forza.
Quel che resta da verificare sarà l’effettiva convergenza delle sezioni della classe dirigente americana, quanto meno nel breve periodo, sull’agenda ultra-nazionalista e guerrafondaia presentata da Trump nella giornata di martedì a New York. I vari centri di potere negli USA rimangono infatti divisi sulle priorità strategiche del loro paese, mentre lo stesso Trump, come già ricordato, sembra avere già perso il controllo sulle decisioni legate alle più importanti questioni di politica estera.
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