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18 maggio 2017

 

Russiagate: Trump rischia il posto

di Enrico Oliari

 

Rischia l’impeachment, il vulcanico presidente Usa Donald Trump. L’accusa, mossa da più parti, è quella di aver messo ostacoli alla giustizia laddove chiunque può essere punito, fosse anche l’inquilino della Casa Bianca, nel momento in cui ”blocca, influenza o ostacola qualsiasi procedimento ufficiale”.
Potremmo così ripiombare nel 1974, quando per la stessa accusa Richard Nixon fu costretto a dimettersi per evitare l’impeachment, o nel 1998, quando Bill Clinton riuscì a rimanere in piedi per poco, a seguito dello scandalo Monika Lewinsky.
A differenza di Nixon e di Clinton, a Trump sono bastati pochi mesi per essere messo fra l’incudine e il martello, ma quei sospetti di interazione con il nemico, cioè con la Russia, il Tycoon se li sta portando dietro fin dalla campagna elettorale, quando – si diceva – gli hacker russi attaccavano i computer dei democratici e della candidata Hillary Clinton per favorire la vittoria di Trump. Da allora si è passati per sospetti e pettegolezzi, fino ad arrivare al licenziamento del capo dell’Fbi James Comey perché non aveva lasciato cadere l’indagine Michael Flynn, l‘effimero consigliere alla sicurezza accusato già prima del suo effettivo insediamento di tenuto una conversazione con l’ambasciatore russo negli Usa Sergey I. Kislyak, con il quale avrebbe discusso della possibilità di eliminare le sanzioni alla Russia.
Comey, che aveva l’abitudine di tenere appunti, cioè MemCon (memorandum of conversation) a seguito degli incontri con Trump, si era segnato che il presidente gli aveva chiesto di interrompere le indagini su Flynn, testi scritti che lo stesso capo dell’Fbi aveva fatto vedere ai suoi colleghi e che ora rischiano di passare per la Camera, dove Trump potrebbe essere processato, e per il Senato, dove potrebbe essere esautorato. Sempre che non si scelga di passare al 25mo emendamento, che consente al vice presidente e alla maggioranza del gabinetto di inviare una lettera al Congresso affermando che il presidente non è in grado di esercitare i poteri e svolgere i suoi incarichi.
E’ troppo generico parlare di Russiagate, quando la realtà supera la fantasia. Basti pensare che in occasione dell’incontro del 10 maggio con il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, Trump ha passato informazioni segrete, comunicategli da un paese alleato (si parla di Israele) alla controparte, “informazioni in codice fornite a Trump da un partner alleato che però ne ha limitato la diffusione al solo governo degli Stati Uniti”, ha scritto il prestigioso Washington Post, il quale ha anche osservato che il presidente ha “messo in pericolo la cooperazione con un alleato fondamentale”.
Tutti i presenti hanno immediatamente negato e smentito le clamorose rivelazioni del quotidiano, dal segretario di Stato Rex Tillerson al generale Usa Herbert Raymond McMaster e persino alla portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova.
Ma Trump no, non ha negato. Anzi, con il suo solito spavaldo tweet ha reso noto che “Come presidente volevo condividere con la Russia, in un incontro ufficiale alla Casa Bianca, fatti riguardanti il terrorismo e la sicurezza sui voli di linea, cosa che ho assolutamente il diritto di fare”.
La credibilità di Donald Trump è oggi minacciata più che mai, mentre i sondaggi lo danno come uno dei presidenti meno amati di sempre, proprio alla vigilia del suo viaggio in Israele e in Italia, per il G7.
E mentre le commissioni di Camera e Senato chiedono i MemCon di Comey e di poter ascoltare lo stesso (che però al momento ha rifiutato e tace), i Repubblicani stanno ora correndo ai ripari cercando chi possa investigare senza troppo clamore.
Tutti oggi vogliono chiarezza sul Russiagate, a cominciare dal Dipartimento di Giustizia, che ha nominato l’ex direttore dell’Fbi Robert Mueller per condurre l’inchiesta sulla presunta interferenza della Russia nelle elezioni statunitensi del 2016 e sui legami di Trump con la Russia.

 

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