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11 aprile 2017 

 

Bombardare per esistere

di Sergio Cararo

 

Donald Trump ha sdoganato il suo ingresso nella scena internazionale nel più classico e tragico dei modi: bombardando la Siria e annunciando un trattamento analogo per la Corea del Nord. E ha trovato ad accoglierlo – in una comunità internazionale che fino alla sera prima ne aveva criticato il carattere megalomane, le scelte neo-protezioniste, il proseguimento del Muro al confine il Messico, la messa al bando degli immigrati islamici etc. – lo zerbino apparecchiato dai governi europei alla vigilia del vertice Nato del 25 maggio a Bruxelles e del G7 del 26-27 maggio a Taormina.

Assad e la Siria in tutto questo sono poco più che pretesti. La questione è talmente evidente che la campagna mediatica sulle armi chimiche siriane ha dovuto forzare toni e informazioni oltre ogni limite di credibilità.

L’amministrazione Usa – che per il numero di generali presenti somiglia ora più ad una giunta militare che ad un governo – ha usato un bombardamento, forse più simbolico che reale visti i risultati materiali, per lanciare messaggi e minacce in più direzioni.

1)      Avviare un bombardamento missilistico mentre si è a cena con il presidente cinese è un messaggio pesante ed esplicito sia per lo scenario che si potrebbe aprire in Corea – ossia al confine con la Cina – sia per perimetrare le relazioni del futuro;

2)      Bombardare unilateralmente la Siria, paese alleato della Russia, è un messaggio diretto anche a Mosca e ai suoi alleati regionali;

3)      Bombardare senza una risoluzione dell’Onu o i risultati degli ispettori previsti dal Trattato per la messa al bando delle armi chimiche, è un messaggio ai partner europei per far intendere che dell’Onu, dei Trattati e della stessa Nato, la nuova amministrazione Usa se ne può allegramente infischiare;

4)      Bombardare la Siria ha tacitato tutti gli oppositori interni di Trump nel Partito Repubblicano e rafforzato la critica all’inazione verso l’amministrazione Obama, tanto che la Clinton ha scelto di mostrarsi più guerrafondaia di Trump nell’invocare la prosecuzione dell’escalation contro la Siria, avviata con il primo lancio dei missili.

Ma questo avventurismo militare non può e non deve essere preso alla leggera. Decisioni unilaterali e politica dei fatti compiuti accentuano il piano inclinato su cui da almeno quindici anni stanno scivolando le relazioni internazionali. 

Il bombardamento di Trump sancisce che il mondo è entrato in pieno in una fase di aperta competizione interimperialista e di scontro tra potenze, una fase in cui “l’incidente” scatenante può essere all’ordine del giorno. Del resto è noto che recedere da un fatto compiuto è immensamente più difficile e controproducente dell’evitare di farlo. Come i fatti di questi anni hanno dimostrato, produce risultati immediati ma danni devastanti nel medio periodo. I “tecnici”, in questo caso i militari, ragionano in termini di costi e benefici, ma lo fanno inevitabilmente con una visione corta, con “studi di fattibilità” che prendono in esame il risultato immediato di una scelta, non le conseguenze. 

Ma il mondo non può essere un campo di battaglia per “tarare” gli effetti di un bombardamento. Il mondo in cui viviamo è immensamente più complesso, e solo la paura dell’establishment statunitense sul “declino americano” può semplificarlo a meri rapporti di forza sui quali giocare l’ultima risorsa rimasta di una egemonia in decadenza: la supremazia militare.

Una prima verifica di questo riequilibrio che gli Usa di Trump (come quella di Bush del resto) vogliono giocarsi contro le ambizioni globali dei loro partner, la vedremo nel vertice Nato in calendario il 25 maggio e nel successivo vertice del G7 a Taormina. Le potenze dell’Unione Europea chiedono che nella Nato gli Usa non siano più il primus inter pares, ed a tale scopo hanno avviato un intenso programma di spese per il riarmo militare. Lo stesso è avvenuto in sede di Fmi, mentre altri camere di compensazione come il Wto sono state messe in naftalina.

Nulla esclude che anche le potenze europee giochino al rialzo in questa escalation, magari riaccedendo i motori di quei jet che Hollande voleva spedire due anni fa a bombardare la Siria, fermato dai suoi stessi servizi di sicurezza per le incognite e gli effetti controproducenti di quella azione.

Il mondo in cui ci sta toccando di vivere è molto più a rischio di quello in cui molti di noi sono cresciuti. E’ finito nel 1989 l’equilibrio della deterrenza tra Est e Ovest; è finita nel 2008 la pax americana sulla quale intendeva reggersi il Nuovo Ordine Mondiale fondato sul Washington consensus.

Siamo in una fase di enorme instabilità, di crisi economica sistematica irrisolta e di sviluppo disuguale, di competizione interimperialista e di intenso riarmo militare in tutti i principali stati del mondo. Un mondo così è pericoloso per l’intera umanità. Sottrarsi a questo pericolo implica una radicale alternativa di sistema. 

La Rivoluzione d’Ottobre, esattamente cento anni fa, vinse la sua sfida perché indicava una soluzione di sopravvivenza a milioni di contadini, soldati, operai russi mandati al macello in guerra o affamati dalle carestie nelle campagne. Oggi dobbiamo sentirci la stessa responsabilità: indicare una prospettiva di sopravvivenza ad una umanità che l’avventurismo delle classi dominanti può trascinare nel baratro della guerra, di nuovo.

 

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