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09 Febbraio 2017

 

Michele. In realtà non sono mai esistito

di Andrea Pomella

 

Ho letto oggi, com’è – credo – dovere di tutti, la lettera d’addio scritta da un uomo di trent’anni morto suicida. L’uomo si chiamava Michele, era friulano, e i giornali, in gran parte, si sono affrettati a qualificarlo come “trentenne precario”, condensando in due parole la totalità del suo essere.

 

L’anno scorso, in occasione dell’incidente ferroviario tra Andria e Corato, i giornali online pubblicarono articoli con titoli come: Antonino che voleva fare l’esame, il contadino centrato da una scheggia, Jolanda che doveva sposarsi. Un’abitudine giornalistica molto in voga, questa, quando si è esaurita la cronaca e occorre dare un volto alle vittime. Si considera l’esistenza di una persona come la somma di tanti frammenti del reale, si scelgono i più levigati, i più facili alla comprensione, e si lasciano vibrare sotto gli occhi del lettore. La gente muore, e già la morte di per sé non la si può ridurre a due parole allusive. Ma la vita, la vita tutta intera, la massa indifferenziata di cose, di eventi, di fenomeni, di esperienze, di situazioni, di avventure, di momenti, la vita come la si riassume in un titolo di giornale? Al che, di fronte a titoli come quello, mi feci qualche domanda. Che direbbero di me – mi chiesi – nel caso crepassi in una sciagura nazionale? Di tutte le rogne, le allegrie, le monotonie, le fissazioni, le categorie e i gradi, i tripudi (pochi) e le afflizioni (tante) in cui sono impelagato giorno per giorno, quale l’avrebbe vinta?

 

Ebbene, nel caso di quest’uomo che si chiamava Michele, l’ha vinta la tipologia di contratto con cui, presumo, ha avuto (o non ha avuto) le sue occasioni professionali (nella lettera accenna al fatto che fosse un grafico). E l’ha vinta la sua età anagrafica. Precario, trentenne. Fine.

 

Larga parte di questa scelta giornalistica deriva dal post scriptum della lettera, in cui Michele chiosa: “Complimenti al ministro Poletti. Lui sì che ci valorizza a noi stronzi”, alludendo allo sciagurato giudizio che diede Giuliano Poletti nel commentare la fuga di centomila giovani italiani all’estero in cerca di lavoro. “In alcuni casi è un bene non averli più tra i piedi”, disse Poletti. Insomma, il giornalismo italiano, e di conseguenza i commenti sui social, nei bar (sembra straordinario, ma ci sono bar in cui si discute ancora dell’attualità), si sono allineati su questa chiave di lettura.

Il fatto è che di tutte le possibili chiavi di lettura, ammesso che sia possibile scovare nella lettera d’addio di un suicida una chiave di lettura che abbia un minimo di senso, questa è la più facile: trent’anni, precario, si uccide perché in questo paese non c’è futuro.

 

Ma io so che quando si tratta di indagare nelle motivazioni di un suicidio è sempre bene non avere certezze. In realtà sarebbe bene non indagare affatto. Trovo già così complicato, assurdo, impossibile, tirar fuori chissà che dalla testa di un uomo che opta per una scelta qualsiasi tra le migliaia di scelte che ci troviamo a dover fronteggiare ogni giorno della nostra vita, figuriamoci far la diagnosi a qualcuno che ha fatto la scelta più radicale di tutte. Ma tant’è. Oltre a essere stufo di fare colloqui di lavoro come grafico (da che, deduco, Michele non era neppure un precario, ma un disoccupato), egli scrive di essere “stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere […], stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità”.

 

Michele, dunque, oltre che col ministro Poletti, se la prende con la sfortuna dei sentimenti, con una generica indeterminatezza della sua esistenza, con la propria stessa sensibilità. Qualcosa di molto più complesso, quindi, di un generico (ma certo sensazionalistico) j’accuse generazionale sulla mancanza di lavoro in questo paese, sul disastro economico, sociale, culturale di una nazione e di un tempo storico.

 

Questioni, queste ultime, che sono già enormemente complesse di loro, ma che sono infinitamente meno complesse se paragonate alla configurazione umana di una mente speculativa dotata di percezioni acutissime e capace di scandagliare la realtà oltre i fatti meramente economici. Fatti che determinano (certo) la sopravvivenza di un cittadino al giorno d’oggi, ma che riguardano la sopravvivenza organica, la parte vile del problema, se vogliamo, tra le più importanti, certo, ma pur sempre una parte, e non l’unica parte.

 

La mia opinione è che abbiamo occhi per il mondo e nessuno sguardo per quel prodotto chimico che è l’intelligenza delle persone. Diamo peso ai fatti e non alle sensazioni. Viviamo in un secolo di spietato realismo in cui se un uomo decide di ammazzarsi è per colpa del sistema sociale, delle politiche del lavoro, delle aspettative, perché sappiamo guardare solo in quella direzione, e siamo convinti che le qualità di un uomo derivino dal posto che egli occupa in questo complicato sistema. Preferiamo stabilire in fretta l’identità di una vittima sulla base della sua posizione nella scala sociale; e non attribuiamo qualità umane, ma qualifiche pseudo-professionali. Ma è un modo, questo, iper-veloce per affrontare la questione, un modo per rimuoverla in fretta, senza averla non dico risolta, ma neppure scalfita. Dare la colpa a un governo, a un sistema socioeconomico, a una generazione che ne ha affossata un’altra, è dare la colpa a tutti, e quindi a nessuno, è infiacchirsi in uno stato, come io penso, di assoluta irresponsabilità, ossia di esenzione da una qualsiasi responsabilità, anche la più remota.

 

Ma voglio provare a ribaltare il punto di vista per afferrare il problema dalla parte opposta. Perché il problema va in ogni caso afferrato, e non voglio dire che l’essere un disoccupato di lungo corso non abbia il suo peso nello scivolamento verso un dirupo depressivo così spietato. Voglio dire che si è disoccupati di lungo corso anche perché l’universo sociale in cui viviamo non tiene conto delle qualità sensibili delle persone, ma solamente delle loro qualità materiali: il saper fare, più del sapere o del sentire.

 

Eppure conosco molte persone che svolgono lavori completamente soprannaturali, ossia lavori che non richiedono sforzo intellettuale e neppure fisico, ma solo cieca abnegazione. Lavori che rispondono a logiche senza scopo, o meglio, lavori che nello sfilacciamento dei processi produttivi hanno perduto l’aggancio con quello che è lo scopo ultimo di qualsiasi lavoro: la fornitura di un servizio, sia esso un prodotto o una prestazione. Lavori in cui non conta più nemmeno il saper fare, laddove già non contava il sapere né il sentire. Lavori dunque che smaterializzano l’intelligenza delle persone, che rendono gli uomini schiavi dell’illogicità, lavori spaventosamente inutili.

L’incontro di un’intelligenza speculativa con questi non-lavori crea il medesimo cortocircuito che viene descritto da Michele nella sua lettera d’addio: “Se la sensibilità fosse davvero una grande qualità, sarebbe oggetto di ricerca. Non lo è mai stata e mai lo sarà, perché questa è la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità. Non la posso riconoscere come mia. Da questa realtà non si può pretendere niente”.

Dunque siamo sicuri che le sue siano parole che arrivano, come si legge da più parti, direttamente da chi ha vissuto sulla propria pelle il “dramma della precarietà”, e non riguardino invece qualcosa di molto più ampio, intricato e multiforme? Siamo sicuri di potercela cavare rubricandola come “la lettera d’addio di Michele, trentenne precario che si è tolto la vita”?

 

Mentre scrivo questa cosa, sto leggendo Un bambino, ultima parte dell’autobiografia di Thomas Bernhard. C’è in una pagina del libro un passaggio in cui Bernhard dice: “Volevo morire. Ma la cosa non era così semplice. Provavo ad assumere un comportamento degno di un vero uomo. Mi condannavo al massimo della pena. Non alla pena di morte ma al massimo della pena, sebbene io stesso non sapessi con precisione in che cosa il massimo della pena potesse consistere, e subito dopo tornava in me la consapevolezza dell’assurdità di questo gioco infernale”. Voler morire e condannarsi al massimo della pena può voler dire due cose opposte. Il massimo della pena per un suicida è vivere – “un comportamento degno di un vero uomo” come sottolinea, non senza un velo di macabra ironia, Bernhard.

Ma… “non c’è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito”, ribatte Michele, in questo dialogo che ora prende forme assurde, sovratemporali, una comunicazione che risuona dentro il campo tutto immateriale della letteratura.

 

Cosicché oggi il nostro tempo non fa i conti con una protesta estrema, con un drammatico sberleffo, con il suicidio di un dissenziente, un uomo che c’era e che ora non c’è più. Oggi è molto peggio di quanto pensiate: oggi si fanno i conti con ciò che non c’è mai stato; con l’inesistente.

Provate ad affrontare questo.

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