https://comune-info.net/ 26 novembre 2017
Fermare l’apocalisse umanitaria di Sergio Segio Coordinatore del Rapporto
Povertà, aumento delle disuguaglianze, guerre, razzismo, leggi ingiuste, violenze contro donne, popolazione Lgbtq, migranti, musulmani. Possiamo fermare l’apocalisse umanitaria e la guerra contro i poveri del mondo?
Impoverimento, aumento delle disuguaglianze, guerre infinite (dall’Afghanistan all’Iraq) e alimentate da armi italiane (Yemen), razzismo, populismo, approvazione di leggi ingiuste, ma anche violenze contro donne, popolazione Lgbt, migranti e musulmani. Possiamo fermare l’apocalisse umanitaria e la guerra contro i poveri del mondo (alcuni la chiamano tormenta), in corso? Non si tratta soltanto di sperimentare nuove politiche redistributive e centrate su diritti umani, giustizia sociale e su una più generale conversione ecologica dell’economia, ma di sostenere la storie di disobbedienza e solidarietà dal basso che pur non mancano. “Forse occorrono però anche parole nuove, dato che quelle sono state rubate e rovesciate di senso – scrive Sergio Segio nell’introduzione al Rapporto dei diritti globali 2017, uno sguardo sul mondo al tempo stesso globale e profondo, nel quale i volti delle persone vengono prima dei non pochi numeri e delle analisi – Ma soprattutto occorre che chi pensa che non la solidarietà e la povertà bensì la diseguaglianza e l’appropriazione dei beni comuni siano un crimine, dopo le parole, trovi le gambe, le forze, le alleanze e le intenzionalità politiche con cui procedere…”
Le lezioni dimenticate della Storia Senza l’ausilio costante della memoria il peggior passato è destinato a tornare. E lo sta facendo. Nazionalismo, razzismo, fascismo, guerre, persino minaccia atomica. Non è servito, non è bastato il grido di coloro che, per vissuto e per responsabilità, si sono trovati a essere memoria e coscienza collettiva dell’Italia, dell’Europa e in generale dell’umanità intera: da Primo Levi per arrivare più recentemente a Stepháne Hessel, passando per tanti altri. Per lo più scomparsi e spesso dimenticati: il che contribuisce a spiegare e a rendere più pericolosa la perdita attuale di senso e di conoscenza della Storia. Non sono servite, non sono bastate le cifre tremende del secolo scorso, che gli inascoltati storici hanno provato a tramandare; come Marcello Flores, che ha ricordato come nel corso del Novecento «le persone uccise in atti di violenza di massa siano state tra i cento e i centocinquanta milioni». Cifra, di per sé già tremenda, che potrebbe arrivare addirittura a duecento milioni di morti, a seconda delle fonti e del tipo di conteggio utilizzato (ad esempio, includendo o meno le vittime delle carestie connesse e provocate dalle belligeranze). Le guerre avvenute nel Novecento assommano il 95% delle vittime degli eventi bellici degli ultimi tre secoli. Nel corso di esse è progressivamente cresciuta la percentuale dei civili uccisi, giunti al 50% nella Seconda guerra mondiale e al 90-95% nei conflitti più recenti (Tutta la violenza di un secolo, Feltrinelli, 2005). Complice la perdita di memoria e la scomparsa dei testimoni diretti, l’orrore non è però stato definitivamente archiviato nel nuovo millennio. I numeri delle vittime ora sono minori e più diluiti nello spazio e nel tempo ma, soprattutto, sono celati al nostro sguardo occidentale e alle nostre assopite coscienze. Le premesse di tragedie più ampie e generalizzate, per primo il virus del nazionalismo, sembrano perciò di nuovo diffondersi senza significative resistenze e sufficienti anticorpi. Stiamo assistendo passivamente al trionfo dell’inumano, per dirla con lo storico Marco Revelli: uno dei pochi intellettuali di questo Paese rimasti a cogliere appieno e a denunciare il «colpo mortale al nostro senso morale» che il crescere dei discorsi d’odio, la criminalizzazione degli operatori umanitari, le campagne mediatiche a supporto, il dibattito politico e, poi, le scelte governative attorno alle migrazioni hanno prodotto (Primi attori e comprimari della paura, “il manifesto”, 8 agosto 2017). Dopo che, negli ultimi decenni, abbiamo assistito alla scomparsa dei popoli e alla contestuale e simmetrica dominanza delle élite globali, delle tecnocrazie e oligarchie, negli anni più recenti, in modo crescente e accelerato, vediamo pericolosamente proliferare e affermarsi i populismi. Malattia infantile e, a un tempo, senile della democrazia: «Ogniqualvolta una parte del “popolo” o un popolo tutto intero non si sente rappresentato, ritorna in un modo o nell’altro un qualche tipo di reazione cui si è dato il nome di “populismo”» (Marco Revelli, Populismo 2.0, Einaudi, 2017).
Le caste e i ceti declassati Una reazione, o meglio tante forme diverse di reazione, unificate dal fatto di essere agite dagli inclusi che improvvisamente si trovano, o si sentono, emarginati, declassati, privati di status, resi “penultimi”. Ceto medio proletarizzato, si sarebbe detto una volta. Al di là delle definizioni, di quello si tratta. Di una rivolta di chi si trova, in ragione della crisi economica e di una globalizzazione governata – o, meglio, dominata – dai poteri finanziari e dalle corporation, sul crinale scivoloso tra il cadere fuori e il rimanere dentro. E che di questa precarietà fa colpa alle “caste”, ma che alla fine confligge e si sfoga su chi sta un gradino più sotto del proprio, gli ultimi della fila. «Siamo davanti a un classico leitmotiv del populismo di destra, già contrassegno in Francia del poujadismo, una delle radici del Front National. Ma oggi la propaganda contro la “casta”, tipica di Grillo e dell’estrema destra, trova una sponda nella polemica contro le élite e gli intellettuali, che sarebbero responsabili di politiche anti-popolari, “cosmopolitiche” e contrarie agli interessi nazionali» (Alessandro Dal Lago, Populismo digitale – La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina editore, 2017). Questa rivolta e la retorica anticasta, se inizialmente – ai tempi di Tangentopoli in particolare – erano abilmente strumentalizzate da imprenditori politico-morali, al tempo di Internet e dei social network diventano la colonna sonora e un tratto unificante di quel ceto declassato e – perciò – rabbioso che in precedenza era stato invece, per lo più, disciplinato sostenitore di quelle stesse “caste” da cui ora si sente tradito e abbandonato. Si tratta ormai di una vera e propria «voragine sociale», dalle proporzioni che sfuggono ai più, ma che vengono certificate persino dai cantori di questa globalizzazione, come il McKinsey Global Institute, di cui Revelli cita il Rapporto Poorer than their parents? (del luglio 2016): in 25 delle economie avanzate il 65-70% dei cittadini tra il 2005 e il 2014 ha visto il proprio reddito appiattirsi o decrescere: corrispondono a 540-580 milioni di persone. Nel decennio precedente, tra il 1993 e il 2004 erano stati solo il 2%, 10 milioni di persone. Una moltitudine di declassati e impoveriti, mutanti della postdemocrazia, che ora costituiscono la base di massa globale dei populismi, laddove questi rappresentano uno stato d’animo, un mood condannato al rancore e incanalato verso le diverse forme di razzismo. Una “forma informe” della protesta, senza più alternative e obiettivi, di masse di arrabbiati che si autopercepiscono come traditi, poiché non rappresentati dalle tradizionali culture politiche, incapaci o disinteressate a riflettere su di loro, sulla loro condizione e sulle cause della stessa. E facile preda delle destre estreme e xenofobe, come tutte le recenti elezioni stanno mostrando. «Spaesati essi stessi rispetto alla propria inedita condizione di homeless della politica. Umiliati dalla distanza che vedono crescere nei confronti dei pochi che stanno sulla cuspide della piramide […]. Privi di un linguaggio adeguato a comunicare il proprio racconto, persino a strutturare un racconto di sé, e per questo consegnati al risentimento e al rancore». Accade così che questa massa di perdenti, dopo che da tempo la lotta di classe si esercita solo dall’alto verso e contro il basso, non sappia fare altro che rivolgersi a vincenti che sappiano parlare la loro lingua e rappresentare la loro rabbia, pur dall’alto della piramide, di cui in effetti non desiderano il crollo ma semmai trovarvi un posto. Purché sappiano gridare American First o Britain first o prima gli italiani, remunerando almeno psicologicamente quanti hanno dolorosamente scoperto sulla propria pelle che l’ascensore sociale dalla fine del Novecento viaggia solo in discesa e come sia superfluo e ipocrita il punto interrogativo del titolo del Rapporto McKinsey. In questo quadro l’Italia è il Paese messo peggio, quello che meno ha saputo affrontare il salto d’epoca della fine del ciclo fordista. Sempre lo studio McKinsey ci dice che l’impoverimento nel nostro Paese ha toccato in qual-che misura il 97% delle famiglie, a fronte dell’81% statunitense, del 70% del Regno Unito, del 63% francese, del 20% svedese. Questa mappatura delle vittime della crisi, dei perdenti della globalizzazione, dei declassati, nota Marco Revelli, si sovrappone esattamente a quella dei fenomeni politici classificati come populisti. È il territorio sempre più vasto segnato da diseguaglianze, vecchie e nuove, dove sono tracciate linee di demarcazione tra chi è dentro e chi è fuori, ma anche tra “noi” e “loro”. Chi abita in prossimità di quell’affollato confine ha solo due possibilità: o conoscere e frequentare ambo i lati, aprendo e aprendosi al nuovo e al diverso, costruendo ponti per facilitare conoscenza e reciprocità, alleanze per una comune emancipazione e medesime rivendicazioni; oppure rinserrarsi, innalzando muri e difendendoli armi alla mano. Cosa stia succedendo, sia a livello dei decisori politici sia a livello sociale, è evidente e generalizzato: barriere sempre più alte, frontiere sempre più chiuse.
SCARICA QUI L’INTRODUZIONE COMPLETA DEL RAPPORTO SUI DIRITTI GLOBALI 2017
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