Fonte: Vincenzo Vinciguerra
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24/11/2017
“Chiagne e fotte”
di Vincenzo Vinciguerra
“Piange e fotte”, potrebbe essere il motto dell’Italia democratica e della sua classe politica.
È il motto del truffatore al quale le lacrime servono per fregare gli altri, in questo caso gli italiani.
Sono tanti e tali i lutti dell’Italia democratica ed antifascista che ogni giorno c’è una commemorazione, fatta con le lacrime agli occhi.
In questi giorni, ad esempio, ricordano Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo (morta per un errore dei medici dell’ospedale Civico di Palermo) e di tre uomini della loro scorta.
Piangono e, fra un singhiozzo ed un altro, affermano la loro volontà di combattere la mafia.
Dimenticano, opportunamente, di dire che dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, tutti insieme hanno portato al governo del Paese la coppia Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, che ha così rimpiazzato quella formata da Giulio Andreotti e Salvo Lima.
Giusto per dire, che la morte di Falcone e Borsellino ha ottenuto come risultato quello di portare ai vertici della politica italiana gli amici della mafia palermitana che si è trovata ad essere rappresentata al massimo livello.
Non lo dicono perché, sebbene Dell’Utri sia finito finalmente in galera, con Silvio Berlusconi devono ancora mettersi d’accordo per governare.
Questa è la tattica del “chiagne e fotte”.
La riflessione prende spunto da un articolo di Simona Zecchi, nel quale la bravissima giornalista ricorda con lucidità e aderenza la verità sulla strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947.
Simona Zecchi, nel suo articolo, denuncia che a distanza di 70 anni dal fatto, lo Stato italiano non ha ancora reso pubblici tutti i documenti che ad esso si riferiscono.
C’è da aggiungere che è stato un governo italiano di centrosinistra a chiedere a quello americano di non rendere pubblici i documenti della Cia di quel periodo, in particolare quelli riferiti alle elezioni politiche del 1948.
Si devono piangere i morti ma non si deve dire perché sono morti e, soprattutto, chi li ha fatti morire.
La storia di Salvatore Giuliano è quella di un giovane mafioso che è stato usato dalla politica e dalle forze di sicurezza dell’epoca (servizi segreti, carabinieri e polizia) per contenere l’avanzata elettorale dei Partiti comunista e socialista.
La Sicilia e la Sardegna, difatti, dovevano servire come base per l’eventuale riconquista del territorio peninsulare se fosse caduto nelle mani dei comunisti sostenuti dall’Unione sovietica e dalla Jugoslavia.
Bloccare i comunisti e i socialisti loro alleati in Sicilia non era, quindi, solo un problema politico ma anche militare.
Il compito di controllare il territorio, mantenere l’ordine pubblico, contrastare il comunismo, Alcide De Gasperi in nome dello Stato italiano lo ha affidato, con la benedizione del Vaticano, alla mafia.
Non a caso la prima base della cosiddetta “Gladio” in Sicilia è stata costituita nel 1987. A svolgere il ruolo ed assolvere i compiti dei “gladiatori” in Sicilia fino a quel momento era stato la mafia.
Portella della Ginestra è stata, di conseguenza, la prima strage di Stato compiuta per finalità esclusivamente politiche, a vantaggio della Democrazia cristiana e dei suoi alleati.
Questa è la verità.
Non bisogna farsi confondere dal numero degli attori che hanno partecipato ai fatti, perché si rischia di attribuire ad altri le responsabilità che sono esclusivamente governative.
L’ispettore generale di PS Ciro Verdiani, che è stato in contatto con Salvatore Giuliano fino al giorno primo della sua morte per indurlo ad abbandonare la Sicilia e rifugiarsi all’estero, al processo di Viterbo ha dichiarato di aver sempre tenuto informato l’allora ministro degli Interni Mario Scelba.
Non è stato smentito.
Il libro di Casarrubea e Cereghino, giustamente citato da Simone Zecchi, è però fuorviante anche nel titolo, “Lupara nera”, perché attribuisce agli uomini della Decima mas, considerati “neofascisti”, un ruolo che, se ricoperto, rispondeva alle esigenze di un regime e di uno Stato che erano ormai antifascisti.
È sbagliato considerare tutti coloro che hanno aderito alla Repubblica sociale italiana come “fascisti”.
Tanti vi hanno aderito solo perché si trovavano al di qua della Linea Gotica, tanti per opportunismo, tanti per condurre il doppio-gioco, tanti hanno trovato comodo tradire man mano che si delineava la vittoria alleata.
Il reparto della divisione “Decima”, preposto all’addestramento dei sabotatori ed al loro invio dietro le linee alleate, quello di cui avrebbero fatto parte i “gladiatori” ante litteram della Decima, il battaglione “Vega”, era diretto dal capitano di vascello Mario Rossi, imposto al comando dal principe Junio Valerio Borghese, che lavorava per l’Oss e per James Jesus Angleton.
Il 25 aprile 1945, Mario Rossi se ne andò a casa propria, e Genova, e nessuno è mi andato a cercarlo.
Decima o non Decima, lupara rimane bianca, se si vuole affermare la verità.
Spacciare Portella della Ginestra come strage “fascista” vuole dire favorire l’impunità dei mandanti che fascisti non erano.
Prova ne sia che la verità ancora non si conosce per scelta di governi di centro, di centro-destra, di centro-sinistra all’interno dei quali non risulta che abbiano mai ricoperto incarichi fascisti o presunti tali.
Se leggiamo i fatti per come si sono svolti, la tattica tanto cara ai politici italiani dei “chiagne e fotte” non darà più risultati.
E sarà un bene, per i vivi e per i morti.