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21 novembre 2017

 

Una singolarità radicale 

di Nicoletta Buonapace 

 

Abbiamo bisogno di una declinazione plurale del termine femminismo (ad esempio attraverso i temi legati al queer), e di decostruire costantemente il concetto di identità. Ma possiamo farlo soltanto coltivando modalità di relazione che ruotano intorno all’ascolto, alla ricerca di nuove domande, a incontri nei quali i corpi, i volti, le voci, i conflitti sono reali. Si tratta, per dirla con Nicoletta Buonapace della Libera Università delle donne di Milano, di “spostare confini, sia interni che esterni…”. In questo orizzonte, il pensiero di Judith Butler e di Audre Lorde sono un riferimento preziosissimo per tutte e tutti.

 

Non è molto che mi sono accostata a temi legati al queer, all’intersezionalità, alla declinazione plurale del termine femminismo, agli studi che pongono così tanti interrogativi intorno al formarsi della soggettività (termine preferibile a quello di identità e che infatti nuove sensibilità hanno adottato nel tentativo di decostruire quello di identità che di per sé richiama l’idem, lo stesso, l’uguale, un tutto che giustamente appare sempre compiuto).

Vengo da una storia di appartenenza al movimento lesbico, fortemente ispirato dal femminismo, da un gruppo, nato nel 1996 all’interno della Libera Università delle Donne, Soggettività lesbica, molto attivo per oltre dieci anni, e che, tra le altre cose, ha realizzato e pubblicato una ricerca sulle donne che amano le donne. Una ricerca in cui le protagoniste si raccontavano a partire dalle vite e che anticipava temi poi divenuti centrali nelle riflessioni successive, come la maternità e l’omogenitorialità, la sessualità, che portava alla luce le domande intorno al formarsi di una soggettività da giocare da protagoniste, con libertà, nel mondo, attraverso un atto di nominazione che consisteva nel dirsi lesbiche – un’identità dunque, necessaria per darsi esistenza, ma che certamente non era esaurita da quella. Con questa prospettiva siamo cresciute insieme, attraverso la pratica dell’autocoscienza, e abbiamo collaborato con altri gruppi fino al 2014, poi le nostre strade hanno cominciato a percorrere nuovi sentieri. In qualche modo, per molte di noi, è stato naturale entrare nel mondo con uno sguardo più sicuro, più consapevole, una volta acquisita libertà rispetto a un percorso che riguardava il diritto al nostro dirci, nominarci, al costruire la nostra felicità.

È solo con il sentimento di appartenenza a una condizione condivisa, a una comunità politica, che abbiamo potuto incontrare il mondo in tutte le sue alterità e posizionamenti – non è un passaggio scontato questo. Questo passaggio ha dato luogo a uno spostamento verso scelte sia individuali che politiche in ambiti diversi. Abbiamo appreso uno sguardo che per certi versi è giunto a mettere tra parentesi l’essere lesbiche, ma nello stesso tempo assunto come tratto centrale che dava senso a tutte le altre declinazioni, nel mio caso poeta, figlia di classe operaia, bianca. Ma con un terreno comune condivisibile con altri/e. Credo che quel terreno comune sia costituito dall’aver appreso una modalità di relazione che ha a che fare con l’ascolto e il narrarsi, con le domande che le vite suscitavano, più che con le risposte. I terreni d’impegno, per certi versi, sono cambiati, chi in una ricerca che continuava in ambiti internazionali e femministi, chi nella politica istituzionale, chi a contatto con il carcere o altre istituzioni o associazioni.

La riflessione sull’essere lesbica, ci ha insegnato a dare legittimità e valore al nostro essere, amare, vivere, aprendo il sentimento della possibilità e di un rapporto con tutte le altre diversità fondato sul rispetto e l’ascolto. Eravamo donne diverse, con storie, origini, sensibilità diverse e diverse erano anche le visioni politiche del mondo, alcune più radicali, altre meno, ma il valore è stato l’incontro, quello che ci ha modificato è stata la forza che veniva da un ascolto e un dialogo in cui potevamo riconoscerci, pur attraverso tutte le nostre differenze.

Perché davvero ci sia un terreno comune, sul quale allearsi, mi sembra che debbano essere chiare e riconosciute le diversità, il loro valore, non solo per, come dire, allearsi su un programma politico, ma con la consapevolezza intima, profonda, della ricchezza di cui ciascuno è portatore, portatrice, per porsi in dialogo in una prospettiva di cambiamento delle relazioni umane e politico-economiche (e anche questo non in astratto, ma calate nella realtà di ciascun paese; non è detto che un progetto economico valido per un paese possa essere egualmente valido per un altro). Viviamo in una realtà sempre più complessa, nella quale, tutti/e esercitiamo meccanismi di oppressione. Quello che voglio dire è che s’intersecano un piano squisitamente umano e un piano politico, dato dalle strutture interne del potere, non estraneo al primo, quello più intimo. Se è vero che alla base di ciò che riteniamo umano, c’è la relazione, una relazione che implica la possibilità del conflitto, e se è vero che non si tratta mai di una relazione “neutra”, priva intendo dire di una storia che ha a che fare con la percezione e le modalità di esclusione di chi è altro da noi (ad esempio degli uomini sulle donne, delle lesbiche sui trans, dei gay sulle donne, degli uomini bianchi sugli uomini neri, delle donne bianche sulle donne nere, degli uomini neri sulle donne nere, dei ricchi sui poveri, di tutti probabilmente verso i rom, i matti, i clochard, le devianze socialmente “disturbanti” e così via con tutte le forme di oppressione interne ed esterne a ciascuna minoranza o gruppo sociale), e dunque una relazione che si è costruita attraverso pregiudizi, abitudini mentali, meccanismi economici e politici, è vero anche che solo nell’incontro reale con chi è altro o altra da noi, con la singolarità radicale più che con l’idea di gruppo sociale come minoranza, , affrontiamo una grande sfida. Non sempre si è capaci davvero di accoglierla.

C’è un pensiero di Judith Butler che mi si è scolpito nel cuore e nella testa:

“Siamo destabilizzati l’uno dall’altro. E se non lo siamo, stiamo perdendo qualcosa”.

Il termine destabilizzante è forte ed è appropriato così come quello di perdita. Quanto siamo disposte a farci destabilizzare? E che cosa perdiamo se non lasciamo che avvenga? Mi destabilizza e al tempo stesso tuttavia ne comprendo la ragione, che nuove sensibilità mettano in discussione termini come “femminismo” e “donne” coniando nuove espressioni come “femminismo queer” e criticando il termine “donne” come termine essenzialista e “bianco” – il femminismo bianco non riusciva a leggere la doppia oppressione delle donne nere – e non è un caso che la prima riflessione che ha coniato il concetto di intersezionalità sia stato prodotto da una donna nera, Kimberlé Crenshaw, attivista e giurista statunitense, che metteva in luce il peso, fino ad allora non considerato, dell’intersezione tra le diverse forme di oppressione ed esclusione quando ci si occupava del razzismo e dei diritti per la comunità nera, ovvero il genere, l’etnia, la classe sociale, lo stato di salute, il grado di istruzione, l’orientamento sessuale, la religione. Il sessismo all’interno della comunità nera è stato a lungo invisibile, insignificante – nel senso proprio di mancante di significato – essendo considerata prioritaria la lotta per i diritti civili contro il razzismo – razzismo che è l’altra faccia del sessismo. Fenomeno che si riconosce all’opera quando le minoranze confliggono tra loro, a partire da un pregiudizio comunque interiorizzato di superiorità su un altro gruppo sociale, egualmente oppresso: i latini contro i neri per esempio (ricordo un episodio che vide due uomini dell’est europeo, poveri ovviamente, e migranti, aggredire violentemente un nero che semplicemente si era offerto per dare il proprio aiuto a uno dei due che stava male). Capisco dunque che quel che oggi definiamo “queer”, nella sua necessità di uscire dall’invisibilità del non detto, non pensato, non previsto, sia stato prodotto da pratiche di lettura e decostruzione dei meccanismi di esclusione e oppressione esercitate attraverso i tanti assi che attraversano e definiscono, formandole in modo profondo, le soggettività, meccanismi e connotazioni che investono e definiscono le vite reali. Quello che voglio confusamente sottolineare è che non è indifferente che Butler abbia scritto le sue riflessioni a partire dagli incontri con i transgender nei locali di New York, dal dialogo reale, intimo, che intratteneva con loro, così come dall’incontro con la tragedia dell’AIDS che investiva la comunità omosessuale, persone, affetti reali con cui era in rapporto e dialogo:

“Molti pensano che il dolore appartenga alla sfera privata, che ci riporti a una condizione di solitudine; in realtà, io credo che esso riveli la costitutiva socialità del sé e che rappresenti un fondamento per poter pensare a una comunità politica di ordine complesso”.

Entrare in contatto con il dolore è destabilizzante. Ciò che destabilizza genera conflitto e paura. E la perdita riguarda la possibilità di soffrire, di perdere le proprie certezze, di conoscere e conoscersi, non è lavoro semplice né indolore. Questo per tornare a quanto dicevo prima sui tanti modi di definirsi e di rapportarsi.

 

Allora che cosa mi destabilizza in donne che si definiscono femministe, quando ripropongono poi un concetto di “donna” legato all’esperienza biologica dell’appartenenza al genere femminile? Sento ad esempio che viene esclusa chi vuole essere riconosciuta donna, essendo nata in un corpo che l’assegnava al sesso opposto, o il contrario, che c’è una paura dell’indifferenziato, dell’indistinto, paura che riflette quella di un’umanità che ha costruito i propri pilastri sul concetto di uomo e donna biologicamente distinti e determinati, su un’idea di famiglia presupposta “naturale” così come egualmente destabilizzanti sono le biotecnologie che investono il corpo, determinandone una diversa percezione. Che significato prende il rapporto con il corpo? Che fantasma suscita l’idea di una separatezza tra corpo materno e funzione materna per esempio? Ma è destabilizzante anche il rapporto con donne che, ad esempio, rivendicano il diritto di vivere una propria appartenenza culturale a un sistema religioso, magari pensato anche in termini innovativi, ma pur sempre religioso (islam o cristianesimo o buddismo o altro che sia). Ci sono realtà che chiedono di essere pensate, vissuti che chiedono di essere narrati, e di essere ascoltati, senza paura. Quello che mi sembra più importante è la consapevolezza che quello che ci spaventa è ciò che non osiamo o sappiamo pensare e interrogare, disponendoci a una risposta che non corrisponda ai nostri schemi mentali. Il vuoto di pensiero non può che essere colmato dalla narrazione e dall’incontro con l’altra o altro che sia, con o senza asterisco, questo probabilmente è l’insegnamento più grande dell’approccio intersezionale. Ma questo ci pone in una dimensione di conflitto, dobbiamo esserne consapevoli. Audre Lorde, che si definiva poeta, lesbica, nera, madre di un maschio e una femmina, cosa che sottolineava, e che dichiarava di sentirsi sempre out-sider, rispetto a qualunque comunità, richiamava alla necessità, per dirsi, di una lingua che affondasse le radici in quella che chiamava la Poeta nera dentro di noi, come presenza di una coscienza altra, più vicina al vissuto, al corpo, più autentica, in contatto con la dimensione dell’Eros, quale energia alla quale attingere per vivere e scrivere creativamente. Lei ha anticipato quella che è poi stata chiamata, una visione intersezionale. E aveva capito quanto poneva conflitti, ma non li temeva, chiedeva invece di riconoscerli come chiave di un incontro reale.

“Troppo spesso l’energia necessaria per riconoscere ed esplorare la differenza noi la riversiamo invece nel far finta che queste differenze siano insormontabili, o che non esistano affatto. Il risultato è un isolamento volontario, oppure connessioni false ed ingannevoli. In ciascuno dei due casi, non sviluppiamo strumenti per usare la differenza umana come trampolino per il cambiamento creativo all’interno delle nostre vite”. (Età, razza, classe e sesso: le donne ridefiniscono la differenza, 1980)

Il problema che pone è il rapporto con l’altro/a dentro di noi. Citando Freire A. Lorde continua:

“Il vero nucleo centrale del cambiamento rivoluzionario non è mai soltanto la situazione oppressiva a cui cerchiamo di sfuggire, ma quella parte dell’oppressore che è piantata in profondità dentro ciascuno di noi, e che conosce soltanto le tattiche dell’oppressione, le relazioni dell’oppressore”.

Si tratta di spostare confini, sia interni che esterni. Per riuscire in quest’impresa Audre vede come atto necessario l’essere in contatto con Eros, una sorta di energia che dall’interno investe l’esterno, e capace anche tuttavia del movimento opposto, contagiosa, vitale, una forza che nasce dalla condivisione vitale, materiale, in uno spazio d’incontro in cui i corpi, i volti, le voci sono reali, con le loro parole, le loro esperienze, con i loro gesti. Scrive:

“L’eros è una risorsa che sta dentro ciascuna di noi, a un livello profondo e spirituale. È un potere che viene dalla condivisione con le altre. Io so di poter conoscere, sentire, e comprendere profondamente quelle sorelle con cui ho ballato per tutta la notte, ho giocato, ho litigato. Naturalmente, le donne che hanno questo potere sono pericolose” (Usi dell’erotico: l’erotico come potere, 1978).

E ancora:

“Talvolta droghiamo noi stesse con sogni di nuove idee. La testa ci salverà. La mente da sola ci libererà. Ma non ci sono nuove idee che ancora aspettano dietro le quinte di salvare noi donne, noi esseri umani. Ci sono solo idee vecchie e dimenticate, nuove combinazioni, estrapolazioni e consapevolezze che vengono da dentro – insieme al rinnovato coraggio di metterle alla prova. E noi dobbiamo costantemente incoraggiare noi stesse e le altre a tentare le azioni eretiche che i nostri sogni comportano, e che così tante delle nostre vecchie idee screditano. In prima linea nella nostra marcia verso il cambiamento, c’è solo la poesia a suggerire il possibile che si fa realtà. Le nostre poesie formulano le implicazioni di noi stesse, ciò che sentiamo dentro e osiamo rendere reale, (o ciò a cui accordiamo il nostro agire), le nostre paure, le nostre speranze, i nostri più amati terrori”. (La poesia non è un lusso, 1977)*.

 

*Le citazioni di Audre Lorde sono tratte da: SORELLA OUTSIDER – Gli scritti politici di Audre Lorde, trad. di Margherita Giacobino e Marta Giannello Guida, Edizioni Il Dito e La Luna.

 

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