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04 October 2017

 

Lo spazio del politico nel mondo multipolare. Nuovi Stati, secessioni, sovranità

di Pierluigi Fagan

 

Politico, com’è noto, si riferisce alle questioni relative alla comunità o società che nell’Antica Grecia si chiamava polis e che oggi si chiama Stato. Non ha cambiato solo il nome, la polis greca era una città (o al più un’isola), la più grande e famosa, Atene, contava al suo massimo forse 130.000 abitanti ma non tutti erano soggetti politici di diritto. Oggi, uno Stato medio, secondo una brutale operazione che divide la popolazione terrestre per i poco più di 200 stati accreditati, conta poco più di 35 milioni di abitanti. Chiaramente, se la dimensione di Atene sosteneva ancora il concetto di comunità, lo Stato moderno contemporaneo verte sul concetto di società che, a sua volta, può basarsi o meno su una rete di comunità. Queste, possono  a volte coincidere con etnie che i greci ritenevano una istituzione barbara, una istituzione imposta perché subita alla nascita [1].

 

Lo spazio del politico nel mondo, sembra attraversato da due correnti potenti. Da una parte, la popolazione mondiale è cresciuta di due volte dal 1950 e fra trenta anni, ad un secolo dalla data posta, risulterà cresciuta di tre volte. Fatte le debite proporzioni, per dare una approssimata idea della vistosità del fenomeno, è come se l’Italia, nel prossimo secolo, diventasse una nazione di 240 milioni di persone dai 60 che ne conta oggi. Dall’altra, sempre usando il 1950 come termine di riferimento, il numero di Stati -ad oggi- è quadruplicato. Quest’ultimo dato contrasta con l’immagine del mondo rispetto alla quale organizziamo le nostre ricognizioni di pensiero. Impegnati a dibattere e profetare la fine dello Stato, il neo-liberismo globalizzante, il sogno-incubo di un Governo Mondiale, noi stessi alle prese con la nebulosa formazione di una entità europea sovranazionale come l’UE, ci siamo convinti che lo Stato non ha futuro il che è ben strano visto che se ne sono prodotti quasi centocinquanta solo negli ultimi settanta anni. A voler arrischiare una ipotesi correlativa, sembrerebbe che all’aumento della popolazione corrisponda una geometrica produzione di nuovi stati. A voler seguire questa strada ipotetica  da rivedere data la natura complessa e non lineare di questo tipo di fenomeni, la proporzione ci porterebbe ad immaginare al 2050, un mondo di 10 miliardi di persone, porzionato in poco più di 270 stati. Ma quali fattori agirebbero in favore o contro questa ipotesi a prescindere da l’impossibile predizione delle esatte quantità? Gli Stati, aumenteranno o si addenseranno diminuendo in senso complessivo?

 

A favore di un ipotetico trend accrescitivo, si possono segnare quattro forze.

La prima è proprio la frizione tra comunità e società. La crescita della popolazione che nel prossimo futuro riguarderà soprattutto in parte l’Asia ed in maggior parte l’Africa, può esser letta come crescita della società in quanto crescono le comunità ma laddove la società data si basa su uno statuto storico precario poiché tale s’è definita solo in tempi relativamente recenti e su basi aleatorie (dove cioè non c’è un forte concetto di Nazione), in realtà quello che crescerà saranno le popolazioni delle comunità. C’è anche la possibilità che queste società, ad esempio nel caso di presenza di minoranze musulmane, abbiamo una natalità asimmetrica generando fenomeni di riequilibrio delle varie demografie etniche come è vistosamente accaduto in Libano. Laddove le comunità giungeranno a dimensioni tali da potersi pensare “Nazione” la rivendicazione di un potere politico autonomo (uno Stato), potrebbe conseguire[2]. Tale rivendicazione potrebbe basarsi su effettive ancestrali tradizioni o su “tradizioni inventate” come le definì in un celebre studio Hobsbawm[3]. Spesso il confine tra effettiva tradizione e tradizione inventata, è sfumato e storicamente difficile da sostenere o escludere del tutto[4]. Né il diritto internazionale fornisce alcun certo riferimento quando si parla di fenomeni storici in quanto questi vengono prima di quello.

 

La seconda ragione a supporto di un incremento della formazioni statali potrebbe provenire dalla fascia afro-asiatica in cui, contemporaneamente, più forte sarà l’incremento demografico e meno forte è la consistenza statale. In questa fascia, gli Stati sono sovranità per lo più di matrice post bellica (dato che segnala anche il fatto che il concetto di “Stato” è stato importato e non fa parte della cultura politica autoctona) e prima vi erano regni sfocati o la tradizione islamica di imperi la cui consistenza diminuiva in rapporto alla distanza dal centro. Queste entità neo-statali sono spesso la formalizzazione di precedenti Stati coloniali o regioni amministrative disegnate dai francesi e dagli inglesi seguendo il proprio unilaterale interesse economico e geopolitico, senza cioè attinenza con la geo-storia specifica e sulla scorta della demografia primo-novecentesca. In Africa, ad esempio, abbiamo un territorio che è tre volte l’Europa (sebbene con una significativa parte desertica) ma ha -più o meno- lo stesso numero di entità statali. Da qui a trenta anni, la popolazione africana sarà tre volte quella europea. Poiché ci sarà sempre più gente, c’è spazio, non c’è tradizione del concetto di Stato, la partizione naturale è clanico/tribale, partizione particolarmente refrattaria ad accettare che un clan/tribù abbia potere su tutti gli altri, la previsione di un incremento di entità nella geografia politica di questa fascia è conseguente. Su questo ed estendendo il discorso alla fascia asiatica non cinese, s’innesta il problema musulmano. “Muslim” significa sottomesso, sottomesso a Dio, perché un muslim dovrebbe esser sottomesso ad uno Stato oltretutto non avendo mai lui avuto alcuna parte nella definizione né del concetto, né della sua applicazione al suo territorio e dal momento che la religione islamica sembra vietare alcun ente intermedio tra la comunità dei credenti (Umma) e Dio tanto da non avere neanche una Chiesa? Come agiranno queste due forze, tribalismo e islam (tra loro in non contraddizione), nel futuro di un’area che già sappiamo avrà la più grande percentuale del futuro aumento della popolazione? Questi “popoli” sono stati ammassati con vecchi nemici o innaturalmente divisi nella geografia politica post coloniale in vari Stati, Stati che, di loro natura, tendono alla reciproca competizione, quindi alla rottura del senso di comunità dei musulmani. La natura clanico-tribale, complementare alla centralizzazione imperiale, diventa focolaio di conflitto nel caso dello Stato e ciò sebbene una qualche recente tradizione statuale è pur presente per quanto difesa solo dalle élite assurte a tale ruolo in seguito alla funzione servile svolta precedentemente in favore delle potenze coloniali. Elite che sul piano politico, hanno quasi sempre origine militare poiché è chiaro che il militare dipende da un esercito e questo dipende dall’esistenza di uno Stato. Militari statalisti vs imam islamisti alle prese con un senso dello Stato precario, inflazione demografica (e spesso costante discesa dell’età media) e turbolenze economiche e belliche, non certo uno scenario statico.

 

Così per il Medio Oriente condizionato oltreché dalla invasiva nascita di Israele, prima ancora dal famigerato trattato segreto franco-britannico Sykes-Picot la cui geografia politica del tutto dadaista continua a produrre frizioni da più di un secolo. O vogliamo parlare dell’Afghanistan, del Pakistan, del Bangladesh, della Birmania-Myammar le cui peripezie di convivenza forzata tra buddisti e musulmani sponsorizzati e di recente armati da Riyad sono l’attualità delle ultime e prossime settimane mentre il contagio potrebbe sempre arrivare in Malesia? E le Filippine coi suoi 40 gruppi etnici? E l’ Indonesia, coi suoi 54 gruppi etnici? E quanto possiamo dire solida l’India (formalizzata nel 1950), la seconda entità dopo l’Africa per varietà culturale, linguistica e genetica, con un ricco corredo di credi religiosi e per dimensioni con la seconda comunità musulmana dopo l’Indonesia? E le repubbliche centro-asiatiche e il Caucaso, figli dell’implosione sovietica? Ed oltre alla fragilità geo-storico-istituzionale, le frizioni clanico-tribali, l’incommensurabilità tra Stato e comunità dei musulmani, la crescita demografica, gli endemici problemi di sviluppo e mettiamoci anche un po’ di siccità qui ed alluvioni là poiché il cambiamento climatico afferirà queste zone più che altrove, che ruolo giocheranno i grandi giocatori nella grande partita per il riassetto degli equilibri geopolitici del mondo multipolare?

 

Quest’ultima citata, la grande partita dei riassetti geopolitici del mondo,  è la terza forza di quadro generale che va intersecata con tutte le altre prima considerate. La competizione è su un duplice piano, quello economico-finanziario e quello dell’egemonia geopolitica.

Il primo, vede l’Occidente europeo in tendenziale ritirata dalla fascia che diede i fulgori a gli imperi coloniali su cui si è basata grande parte della ricchezza della nostra parte di mondo. La caratteristica primordiale del sistema economico moderno, l’esistenza di un centro con una sua contenuta corona semi-preriferica ed una vasta prateria periferica che tributava energie-materie-mano d’opera e mercati di sfogo in cui riversare parte della sovrapproduzione, nonché gli scarti, non c’è più. Si va verso un assetto ben diverso con più poli sviluppati, una generale messa in scambio dei fattori all’interno di mercati in cui nessuno ti regala niente (“rubare” in senso coloniale), la presenza di una vera concorrenza, cioè presenza di alternative, un vasto e complesso intreccio tra fatti economici, finanziari e tipicamente politici, qualche volta anche militari. “Rubare” in senso coloniale è oggi certo più difficile (sebbene rimangano alcuni veri e propri scandali coloniali come l’area afro-occidentale in cui è egemone la Francia) ma l’autentica epidemia di corruzione fotografata dalle istituzioni globali mainstream (IMF, WB, OCSE-OECD), dice che la cleptomania occidentale ha trovato altre forme  d’espressione e che l’esproprio delle ricchezze locali sia fatto lasciando la mancetta alle élite locali che poi tornano i capitali nel grande circo –on and off shore- della finanza mondiale, rende il processo solo più complicato ma non meno dannoso. Accanto, l’importanza dell’export militare per Francia, UK, Italia e naturalmente gli USA che hanno in questa fascia dell’instabilità, il maggior mercato oltre alla petromonachie che poi rigirano parte degli acquisti a questo stesso ambiente.

Sul secondo aspetto, quello geopolitico,  quello che già vediamo da un po’ di tempo, (Ucraina, Siria, Yemen, Kurdistan, Afghanistan, prossimamente Myammar ed altrove) è l’utilizzo delle contraddizioni post coloniali da parte della potenza che sta perdendo il vantaggio unipolare, gli Stati Uniti d’America. In ciò, gli Usa sono coadiuvati dall’aspirante potenza delle monarchie del Golfo che cercano di manipolare l’assetto delle comunità musulmane, sia dove queste sono il totale della popolazione, sia dove queste sono maggioranza o minoranza. Cecenia, musulmani filippini di Mindanao, Rohingya birmani, talebani afgani, minoranze indiane, uiguri cinesi, conflitto indo-pakistano in Kashmir, sunniti vs sciiti in vari contesti arabi (Siria, Iraq, Yemen), le due/tre Libie, Somaliland, Nigeria-Niger-Ciad,  sono elenco in continuo ampliamento ed aggiornamento. I poli di seconda fascia Russia e Cina, quelli che debbono naturalmente sfidare il dominio unipolare americano, agiscono come forze conservatrici ovvero tendenti a mantenere il quadro geografico-politico fotografabile allo stato attuale delle cose. Naturalmente quando queste frizioni riguardano la propria stessa sovranità (Cecenia, Xinjiang) ma anche quando afferiscono a paesi amici, alleati o partner con i quali si hanno rapporti in sviluppo (Siria ed Iran ma anche Turchia per la Russia, Pakistan e Myammar ma anche Filippine per la Cina). A maggior ragione la Cina, il cui piano di investimenti infrastrutturali esteri per sviluppare la Belt and Road Initiative, chiama a gran voce stabilità e continuità. Gli USA e le petromonarchie invece, pur con obiettivi diversi ma al momento integrabili, spingono forze apparentemente “rivoluzionarie” che si battono per la fatidica “autodeterminazione dei popoli”[5] o per il compimento di un qualche “destino musulmano passibile di jihad” andando a frugare nelle oggettivamente precarie composizioni di stati con più etnie (clan/tribù) e più religioni.

 

Questa terza forza ci dice che non solo ci sono molte ragioni per pensare ad un tormentato processo di proliferazione futura  degli Stati soprattutto nella fatidica fascia afro-asiatica ma ci sono giochi geopolitici di grande posta in corso che utilizzeranno in vario modo e per varie ragioni (economiche e geopolitiche) queste contraddizioni per far avanzare le proprie pedine e controllare pezzi di scacchiera a proprio vantaggio e quando non è possibile, almeno a svantaggio degli avversari.

 

In ultimo ed al di là della fascia afro-asiatica con i suoi maldipancia post-coloniali, collegandoci a quanto appena detto, una quarta ragione per l’ipotesi di nuovi stati, potrebbe esser data da condizioni di crescita economica limitata che pongono dilemmi di ridistribuzione all’interno di stati disomogenei per ricchezza, attingendo come in Europa ad un ricchissimo campionario di “popoli” che possono vantare un qualche precedente storico (scozzesi, catalani, veneti – sardi e siculi, valloni e fiamminghi, bavaresi, corsi, bretoni, irlandesi britannici e financo gallesi, ma volendo l’elenco è anche più lungo dato che in Europa si contano 56 minoranze etniche) o come in Canada (Quebec) o forse anche all’interno dei tre top player (USA, Cina e Russia tenuto conto che queste entità sono tutte e tre multietniche). Nelle analisi del voto sia di Brexit che francesi nonché nella geografia del voto che ha eletto Trump e la redistribuzione in più partiti dell’elettorato tedesco, abbiamo già visto frizioni tra  le “metropoli globali” che viaggiano ad un diversa velocità, o determinati distretti industriali alcuni in crescita altri in crisi, centri finanziari o di servizi, che marciano lasciando la palo il resto del Paese, rottura dell’omogeneità economica nazionale che diventa subito sociale e potrebbe poi diventare politica. Un mondo reso più difficile dai rendimenti decrescenti di certo capitalismo occidentale preda di una incurabile demenza senile, potrebbe infondere in qualche enclave l’idea che -da soli- si potrebbe far meglio. L’ambizione di élite locali non integrate a livello nazionale, potrebbe farsi agente tessitore di istanze separatiste. A ciò si potrebbe aggiunge una reazione culturale alla cosiddetta globalizzazione. Questo movimento all’Uno “che omologa ma non universalizza, comprime ma non unifica”[6] crea un vuoto di identità collettiva che non è meno richiesta di quella individuale promossa unilateralmente dai fautori del “tutto il mondo è un mercato”. La domanda di appartenenza e la rassicurazione del gruppo, viepiù dove religione e politica sono ordinatori tramontanti, potrebbe allora trovare conforto nel riconoscersi parte di un popolo antico, una tradizione, un modo di essere ricco di significati, una minorità da riscattare.

 

Abbiamo dunque visto quattro forze che congiurano al prosieguo della spinta a produrre nuovi stati: 1) crescita demografica che ingrossa taluni stati riproponendo al loro interno il problema degli equilibri tra partizioni etniche; 2) una fascia afro-asiatica per lo più islamica la cui attuale partizione statale è figlia del colonialismo, il quale ha operato ignorando il tessuto geo-storico amalgamando cose diverse e dividendo cose uguali; 3) un forte interesse tattico e strategico da parte degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita nel suo sogno di allargare la propria area di egemonia, ad usare la precaria e contraddittoria costituzione degli stati post coloniali, sponsorizzando conflitti e scissioni; 4) possibile tendenza ad una ripresa delle nazioni (vere o presunte) all’interno degli Stati, alla ricerca di un sogno di autodeterminazione più vantaggioso rispetto a l’inefficace equilibrio redistributivo gestito dal centro. Come abbiamo visto in analisi, promotori attivi e strategicamente interessati del principio wilsoniano (1919) di “autodeterminazione dei popoli” non mancano, internamente ed esternamente alla attuali partizioni statali.

 

Sembrerebbe dunque sia possibile e forse probabile un ulteriore  incremento quantitativo degli Stati, nei prossimi due/tre decenni. Ma con quale concetto di sovranità? La piena sovranità statale è stata negli ultimi decenni erosa da più fenomeni, questi fenomeni agiranno ancora nel futuro e saranno ancora così intensi o verranno sostituiti da altri fenomeni?  L’argomento è un po’ troppo complesso per stare in un semplice articolo senza soffrire delle riduzione ma detto ciò, accenniamo a grandi linee a questa seconda parte del ragionamento che bisognerebbe esplorare con il dovuto tempo e spazio.

 

Sul piano militare -ad esempio- segniamo tre discontinuità. A seguito della rottura del Patto di Varsavia, non solo la NATO ha allargato a dismisura la propria composizione (con nuovi 13 Paesi) ma sembra tendere alla modifica della propria postura strategica da esclusivamente passiva e difensiva ad attiva sebbene ancora non dichiaratamente offensiva.  La sua omogeneità interna però segna qualche possibile frattura e la spinta a creare una forza armata europea, ancorché ancora grezza, contraddittoria e certo difficile da attuare, segnala una divergenza di interessi, di priorità e financo di metodi tra l’interpretazione occidentale anglosassone e quella euro-continentale occidentale (quella orientale è del tutto servile verso la protezione USA). Altri modelli però s’affacciano, come la Shanghai Cooperation Organization, basati su collaborazioni e coordinamento ma tra forze armate che rimangono totalmente in capo alle rispettive nazioni.  La seconda discontinuità  è il probabile declino delle operazioni di comunità internazionale, ovvero le cosiddette missioni di peace-keeping a base ONU, quindi multilaterali. In linea generale, le istituzioni sovranazionali multilaterali non sembrano avere un futuro significativo dato che il mondo è sempre più un tavolo di gioco in cui si affrontano attori-giocatori tra loro in aperta competizione e quindi, radicale divergenza di interessi. Il terzo punto è la composizione del gruppo delle potenze atomiche che in logica multipolare, potrebbe portare ad un allargamento della compagine. La questione nord coreana, è presto per dire che esito avrà ma sembra proprio che Pyongyang sia riuscita ad imporre lo stallo, poco o nulla si può fare e per via militare e per via diplomatica, non per congelare ma per far retrocedere i coreani verso un disarmo. Se Pyongyang finisse con l’occupare la casella numero nove dell’elenco degli “atomici”, chi potrebbe fermare un lento dilagare del fenomeno? Se si accetta (anche non formalmente) Pyongyang, per leggi di simmetria (sul modello India-Pakistan), Seul che fa? E Tokyo che già scalpita? E perché Tokyo sì e Berlino, no?  Varsavia dormirà tranquilla con arsenali a destra e sinistra? Ed il mondo delle monarchie del Golfo, si accontenterà dell’attuale blanda ed ambigua amicizia nucleare con il Pakistan ora che Islamabad flirta con la Cina? E se Riyad si arma, Teheran starà ferma? E Ankara allora? Il Cairo?  Un mondo multipolare, è assai probabile diventerà almeno all’inizio, anche un mondo multi atomico ed il riflesso in seno al Consiglio di sicurezza sarà cruciale poiché Germania ed India potrebbero cambiare un po’ i grandi pesi del rapporto tra atlantisti e resto del mondo. L’arma nucleare che è essenzialmente dissuasiva, realizza il massimo principio della sovranità militare, l’intangibilità, il dotato di arma atomica non può esser attaccato viepiù se in logica multipolare, ogni attore per quanto minore, è posizionato in una rete di relazioni che lo dotano di alleati nel caso di attacco. Il segnale di inizio della logica multipolare lo si rileva già nel tratto 1996-1999 quando la curva degli investimenti miliari (fonte SIPRI) mondiali, dopo una flessione conseguente il rilassamento post ’89, ha ripreso slancio portando, dal 2007, la spesa complessiva a superare stabilmente quella pre ’89.

 

In definitiva, quello che leggiamo è la crescita esponenziale dei problemi da gestire ma l’unico attore in grado di intenzionalità ragionata e strategica è e rimane lo Stato. Gestire le retroazioni dei limiti ambientali, tessere relazioni inter-nazionali sul doppio livello dell’economia e della geopolitica, tenere i mercati aperti/chiusi, disciplinare le relazioni che dall’esterno vengono all’interno e viceversa (vale per gli investimenti esteri come per i migranti ed altro ancora), le geopolitiche specifiche della logistica e dei trasporti, del cibo e dell’acqua, dell’energia e delle telecomunicazioni, la sovranità ma anche difendibilità valutaria, la redistribuzione interna, la stessa gestione del sistema-Paese in senso strategico poiché nei tempi in cui siamo capitati le condizioni si fanno viepiù strette e vivere alla giornata significa non poter contare su buone condizioni di possibilità future, il menù è ampio ed impegnativo.  I compiti non mancano, il problema semmai è la capacità dello Stato di assolvere ai molteplici e difficili problemi connessi per avere une effettiva sovranità.

 

Soprattutto, appare diversa la situazione tra gli Stati impostati secondo forme più o meno illuminate di centralismo decisionista ed al limite vero e proprio dispotismo e gli Stati provenienti da sistemi di democrazia rappresentativa. Questi ultimi, hanno visto una crescita di dimensione, ruolo e potere di diverse forme di élite, di oligarchie, di lobbies, di cartelli visibili ed invisibili poiché l’ordinatore che domina le forme di vita associata occidentale è l’economico. Il politico è stato confinato al ruolo di fornitore e protettore di condizioni di possibilità per l’economico. Queste élite vedono solo l’interesse particolare ed a breve termine il che contrasta con le richieste teoriche di salvaguardia e gestione dell’interesse generale valutato anche a medio e lungo termine. Ma questo addensamento di corpi egoisti che come virus si alimentano voracemente a scapito della salute dell’organismo generale, viepiù famelici ora che sentono il restringimento delle condizioni di possibilità generali (il neo-liberismo può esser diagnosticato come forma patologica ed estrema del mercatismo onnivoro laddove evidentemente la macchina economica tradizionale ha cominciato da tempo a non funzionare più come una volta), è solo la metà di un fenomeno. Dall’altra parte c’è stata la progressiva scomparsa degli enti intermedi (partiti, sindacati, gruppi di opinione a comporre la mitica e sempre meno consistente “società civile”), del senso di partecipazione civile e politica, di vivacità democratica, di buona intensità e distribuzione di informazioni corrette e conoscenze vaste quanto approfondite sul ricco campionario di parti e dinamiche che compongono il mondo complesso.  Nelle democrazie occidentali le élite vanno ormai appresso al puro interesse di nicchia disposte quindi a lasciare lo Stato come vuoto a perdere intorno a cui come mitili, si attaccano le ultime rimanenze provinciali di un “politico” stanco e senza slancio ma anche le popolazioni sembrano non aver più gli strumenti per interpretare il mondo e di conseguenza adattarvisi cambiandolo al contempo. In fondo, ogni popolo ha l’élite che si merita.

 

A gli Stati europei, tutti concettualmente formati da vicende di parecchi secoli fa in un mondo che non c’è più, si pongono diverse questioni attinenti la dimensione necessaria a riconquistare e difendere la sovranità in un mondo così affollato e competitivo ma soprattutto si pone il problema dell’adeguatezza dei soggetti occidentali a capire quale nuovo modo di stare al mondo si rende necessario adottare per dare un futuro alla loro longeva ma non necessariamente eterna forma di civilizzazione. Non stiamo evidentemente parlando di politica a breve respiro, per altro l’unica che sembra interessare i pochi che ancora vi si dedicano, stiamo parlando di strategia dei prossimi tre decenni. Molti rifiutano questo appello pressante che proviene dalla poderosa dinamica di cambiamento del mondo poiché si tende a non leggere il fondo impersonale dei fenomeni ma solo quello personale di chi li cavalca e ciò è -in parte- comprensibile. Alla lunga però, resistere alle potenti forze mareali del mondo nuovo e complesso, porterà inevitabilmente a diverse forme di caotica frammentazione a cui faranno da contrappeso reazioni identitarie ed irrigidimenti di vario tipo, reazioni -in Europa- tristemente note. Pare richiedersi di accettare il cambiamento, lo sforzo di una propria via adattiva alle mutate condizioni e quindi pare richiedersi facoltà di progetto e non più solo di critica e resistenza. La critica da sola non cambia lo stato delle cose e la resistenza al cambiamento è foriera sempre di irrigidimenti che sfociano in qualche disastro storico. Ma “accettare il cambiamento” non significa seguirne la partitura imposta da certe interpretazioni di parti minoritarie interessate a mantenere il loro potere ed è su progetti alternativi che queste vanno sfidate più che nella difesa di un “come eravamo” che storicamente non è mai buona guida.

 

Forse è giunto il momento di rimettere in discussione i contratti che hanno fondato in Europa il concetto di Nazione prendendo atto che lo spazio statale di tipo europeo non garantisce già oggi il mantenimento efficiente della sovranità e viepiù non la garantirà in futuro. Stati (Stati non vaghe “Unioni”) più grandi, federali, fatti di più “nazioni” o “etnie” tra loro integrate, promossi da un movimento fondativo radicalmente democratico, di portanza tale da garantire difesa dello spazio e gestione dei corsi economici, nonché delle relazioni con il resto del mondo e tutte le altre questioni che abbiamo visto, sembrano l’unica strada per resistere alla doppia pressione del globalismo mercatistico nel macro e della reazione micro-identitaria dall’altra che per altro gli è simmetrica. Soprattutto, sembrano l’unica risposta possibile per partecipare  e non subire gli effetti del nuovo gioco di tutti i giochi del riassetto multipolare. Se da una parte gli Stati aumenteranno, altri in altro contesto geo-storico, potrebbero avere interesse invece ad addensarsi. Tali progetti dovrebbero ricorrere ai suggerimenti della geo-storia, ovvero modularsi secondo le linee che marcano lo sviluppo storico a sua volta contenuto in spazi geografici: mediterranei, europei del Nord, Slavi nella loro diverse configurazioni. Queste sono tre aree geo-storiche ben precise e prima di pensare all’improbabile fusione in un unico calderone degli altamente eterogenei (l’improbabile “unione dei popoli” che rispetto all’unione delle “élite” non discute il format ma solo l’agente costruttore), dovrebbero addensarsi al loro interno dove le differenze sono meno pronunciate. Ciò che non è nella geo-storia, verrebbe rigettato dalla stessa geo-storia e quindi conviene ascoltarne i suggerimenti diversamente da quanto fatto da élite europee trainate dall’unico mito in comune del mercato. l’Unione europea è e rimarrà per sempre un mercato con qualche istituzione di supporto o poco più ma nel mondo multipolare, l’economia è soggetta alla politica e ciò che non è soggetto politico dotato di tutte le leve di sovranità sarà subordinato alle regole imposte dai principali player.

 

Cambiare si deve ma sul come sarebbe il caso di aprire urgentemente il dibattito, soprattutto occorre fuggire presto dalla minorità passiva di oscillare tra Unione (inconsistente tanto nella versione elitista che ipoteticamente popolare), la tardiva riscoperta della Nazione e nuove rivendicazioni secessioniste. Nuovi Stati in grado di partecipare al gioco multipolare, più grandi ma fondati politicamente e su basi di compatibilità geo-storica, pluri-nazionali e di conseguenza federali, declinanti nel locale lo specifico che ricalca mentalità e storie di ricca diversità, locale che meglio si presta alla volontà imprescindibile di “osare di più democrazia”. Dobbiamo osare più democrazia perché con la complessità del mondo nuovo dovremmo farci i conti tutti se non vogliamo che l’ennesima élite malintenzionata o anche solo inetta ed incapace ci porti là dove il futuro sarà incubo.  Questa potrebbe esser l’unica via che abbiamo per non finire a far da camerieri al tavolo in cui atlantisti, islamici, cinesi, indiani, russi e quanti altri decideranno in che mondo vivremo.

 

NOTA:

La testata on line Megachip, ha ripreso questo articolo qui. Ha poi deciso di lanciare un dibattito per esplorare meglio le questioni correlate all’indagine, invitando più pensatori ad esprimersi in merito. Il primo intervento è di Fabio Marcelli, giurista democratico, ricercatore di studi giuridici internazionali del CNR di cui spesso leggiamo gli interventi sul blog del Fatto, qui.

 

Note

[1] M. Marconi, Nel groviglio delle etnie, in Geopolitica delle prossime sfide, a cura di G. Lizza, UTET, Torino, 2011. Da questo contributo ho anche tratto la numeriche sulle etnie filippine, indonesiane ed europee.

[2] Il romanzo Soumission (2015, Sottomissione che è la traduzione di “musulmano”) di M. Houellebecq, è uscito il giorno dell’attentato a Charlie Hebdo il che è stata una macabra fortuna per l’editore ma non necessariamente per le intenzioni dell’Autore. Il dibattito infatti è esploso su una serie di questioni connesse più allo stato politico della questione musulmana nel presente, che non nel futuro che era il tempo di cui forse Houellebecq voleva parlare. Proiezioni demografiche al 2050 basate su gli indici di natalità (quindi anche al netto degli effetti migratori) indicano che se in Europa si stima una presenza di un 20% di musulmani, in alcune aree, si sforerà il 50%. Cosa succederà quando la minoranza diventerà maggioranza o anche solo vi si approssimerà? Le demografie asimmetriche hanno già cambiato radicalmente paesi come il Libano (nato a maggioranza cristiana con parto francese ed oggi a maggioranza sciita) e la questione si proietta anche negli equilibri interni ed esterni tra l’Israele ebraica e quella araba e palestinese.

[3] E. Hobsbawm, H. Trevor-Hoper, L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino, 1879-1994

[4] Accanto ad Hobsbawm un altro classico di riflessione su i processi di individuazione ed identità nazionale (più “costruiti” che naturali) in Benedict Anderson, Comunità immaginate, manifesto libri, Roma, 2009

[5] Gli anglosassoni si sono già lanciati su questa strategia, questo è uno degli ultimi “manuali” del buon secessionista: R. Griffiths, The Age of Secession, CUP, 2016

[6] G. Marramao, La passione del presente, Bollati Boringhieri, Torino, 2008

[7] Il concetto di “globale” è altamente indeterminato. Qui lo intendiamo non rispetto alla costituzione di un macro-sistema mondiale che è fatto tendenzialmente fuori discussione ma rispetto alla forma. La “mondializzazione” ovvero il formarsi del macrosistema mondo, ha avuto la fase globalista che noi vediamo calante sostituita oggi dalla crescita di una nuova tessitura a più mani, diverse intensità ed intenzionalità. Il risultato sarà più o meno lo stesso (il nuovo sistema-mondo) ma la forma ne cambierà la logica sostanziale.

[8] Tali difese son sono state annunciate su imput francese – tedesco ed italiano, da J.C. Juncker nel Discorso sullo stato dell’Unione a metà settembre 2017. E’ un fatto interessante poiché mostra il peso che i rapporti di reciprocità avranno nella tessitura multipolare. L’Europa mostra di voler “specchiare” l’atteggiamento cinese e quindi in qualche modo, l’atteggiamento cinese fa da format per le relazioni bilaterali. La reciprocità sarà lo stile di relazione per tessere l’ordito multipolare ed è per questo che l’America si sta ritirando dalle contrattazioni globali.

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