Lo Statuto Costituzionale del Non Cittadino
di Valerio Onida
Già Presidente della Corte Costituzionale
SOMMARIO:
- 1. La rilevanza costituzionale del tema.
- 2. La cittadinanza: da fattore di uguaglianza a fattore di disuguaglianza.
- 3. I diritti umani universali e la perdita di centralità della cittadinanza.
- 4. Contro il principio di reciprocità.
- 5. La Costituzione e il nuovo diritto internazionale dei diritti umani.
- 6. Cittadinanza e doveri costituzionali.
- 7. Cittadinanza e territorio.
- 8. La libertà di emigrazione e i limiti costituzionali delle politiche dell’immigrazione. – - 9. Le migrazioni e l’Europa.
-10. I diritti politici degli stranieri: una nuova sfida per la democrazia.
- 11. Il diritto all’acquisto e al mutamento di cittadinanza
1. La rilevanza costituzionale del tema
La categoria della cittadinanza non è solo nella tradizione, ma è al centro del diritto costituzionale e dell’esperienza costituzionale, benché gli studi che la assumono ad oggetto specifico siano tutt’altro che frequenti . Il tema scelto per questo convegno non è dunque per nulla un tema settoriale o periferico, è invece un invito a riflettere ancora sulla storia e sui “fondamentali” della nostra disciplina e del nostro ordinamento, oltre che a cercare sul terreno costituzionale risposte coerenti e lungimiranti, o almeno le premesse per fare fronte, a problemi sempre più pressanti e drammatici che investono la politica dei nostri giorni.
Da un lato, infatti, la categoria e la stessa nozione della cittadinanza si intreccia strettamente con i concetti-base e con i principi-cardine del diritto e dell’assetto costituzionale: eguaglianza, diritti e doveri costituzionali, rapporto autorità-libertà, Stato e forma dello Stato, democrazia come principio costitutivo dell’organizzazione politica.
Dall’altro lato, il rapporto cittadini/non cittadini e la relativa problematica si collocano oggi nel cuore di fenomeni sociali imponenti e a carattere globale, che condizionano sempre più la vita concreta delle comunità. Alludo evidentemente alle migrazioni di massa: che non sono certo fenomeno solo di oggi, ma, rispetto al passato anche recente, si connotano in modo nuovo. Può dirsi all’incirca conclusa l’epoca delle migrazioni di massa che, muovendo da territori densamente abitati, alla ricerca di sbocchi e di opportunità, andavano a popolare nuove terre occupando spazi vuoti o semivuoti, e a costituire nuove nazionalità; si è aperta l’epoca delle migrazioni di massa (o dei tentativi, spesso ostacolati, di migrazione) verso territori a loro volta popolati ed economicamente sviluppati, spinte ancora dalla ricerca di opportunità di vita e di lavoro, ma generate dalle disuguaglianze e dagli squilibri mondiali nell’accesso e nel godimento delle risorse economiche. Quello che un tempo era il lungo (anche temporalmente) viaggio verso le lontane Americhe o
l’Australia, cui si aggiungevano più ridotti trasferimenti, per lo più temporanei, di lavoratori fra paesi vicini (per gli italiani, verso la Svizzera, il Belgio, la Francia, la Germania), oggi è sostituito da imponenti flussi, legali e illegali, di migranti, con spostamenti anche relativamente brevi, dal sud al nord del Mediterraneo, dall’est all’ovest dell’Europa, dall’Asia e dall’America latina agli Stati Uniti e al Canada.
La trasformazione è bene esemplificata dalla vicenda del nostro paese, divenuto in poco tempo, da terra di emigranti, terra di immigrazione, in misura non dissimile dagli altri vicini paesi europei. Nel 1947 la Costituzione repubblicana si preoccupava ancora di riconoscere espressamente la libertà di emigrazione e di sancire la tutela del lavoro italiano all’estero (art. 35, quarto comma), disinteressandosi invece totalmente dei problemi della immigrazione, salvo il richiamo al diritto d’asilo, di matrice politica e non economica (art. 10, terzo e quarto comma), e fondando lo “statuto costituzionale” degli stranieri essenzialmente sul diritto internazionale (art. 10, secondo comma). Oggi l’attenzione del legislatore (non ancora di quello costituzionale, qui sostituito però largamente dallo sviluppo del diritto internazionale) si è spostata necessariamente, spinta dalla realtà, verso i problemi della immigrazione.
Da questo punto di vista si deve dire che il legislatore degli emendamenti alla Carta recati dalle leggi costituzionali n. 1 del 2000 e n. 1 del 2001, relativi al voto degli italiani all’estero, è stato un legislatore strabico o con gli occhi rivolti all’indietro: preoccupato di facilitare l’esercizio del diritto di voto e di dare una rappresentanza parlamentare (peraltro separata) agli italiani residenti all’estero, e così enfatizzando il significato della cittadinanza italiana staccata dall’effettivo insediamento sociale nel paese, non ha invece per nulla posto mente, in relazione all’esercizio dei diritti alla partecipazione e alla rappresentanza, alla crescente quota di stranieri residenti spesso da molto tempo e in modo stabile nel territorio italiano. E anzi il legislatore (ordinario) del 1992, sostituendo la vetusta legge sulla cittadinanza del 1912, ha ritenuto di favorire al massimo l’acquisto della cittadinanza da parte di chi avesse anche un lontano ed esile legame di sangue con cittadini italiani , nonché la possibilità di conservare la cittadinanza italiana anche in caso di acquisto di un’altra , e per contro di rendere più difficile l’acquisto per naturalizzazione da parte degli stranieri residenti, portando da cinque a dieci anni il periodo di residenza richiesto e perfino l’acquisto per elezione da parte dei nati in Italia da genitori stranieri, richiedendo a tale scopo il soggiorno legale e ininterrotto dell’inconsapevole nuovo nato per tutto il tempo decorrente fra la nascita e la maggiore età .
2. La cittadinanza: da fattore di uguaglianza a fattore di disuguaglianza
Ma torniamo alle radici costituzionali del tema della cittadinanza.
Il nesso con l’eguaglianza è evidente. Il concetto stesso di cittadinanza e di cittadino, accolto nei sistemi costituzionali contemporanei per come si è formato e si è affermato con le rivoluzioni liberali della fine del Settecento, nasce in funzione dell’eguaglianza. La qualifica di “cittadino” nasce in contrapposizione alle diverse qualifiche – fossero titoli nobiliari o ecclesiastici, titoli indicativi di mestieri o professioni, o altri – con cui nelle società dell’antico regime venivano prevalentemente designati gli individui. E benché l’uso linguistico comune dell’appellativo di “cittadino” sia ben presto scomparso (ad esempio, nello statuto albertino la parola non compariva nemmeno, sostituita dall’oggi desueto ma equivalente “regnicoli”: art. 24, sull’eguaglianza), è rimasta l’idea che là dove in passato vi erano individui designati e trattati secondo le loro diverse appartenenze e funzioni, ora ci sono “i cittadini” come espressione di qualcosa che accomuna gli individui al di là delle diverse appartenenze e funzioni, in ragione di un loro vincolo o rapporto sostanziale, non di semplice soggezione, con la compagine sociale e col potere politico. E’ questo, come si sa, il senso del passaggio dai “sudditi” ai “cittadini” che caratterizza il sorgere delle Costituzioni, in qualunque modo poi si definisse la categoria. Ma è interessante sottolineare che questo passaggio – mentre non cambia il dato comune della soggezione al potere politico, solo innovato nel suo fondamento, nella sua organizzazione e nelle sue regole di esercizio – cambia per così dire il modo di esprimere il “valore” giuridico dell’individuo rispetto all’organizzazione politica. Nell’antico regime l’individuo “valeva”, in linea di principio, per il diritto e per il diritto pubblico in ispecie, soprattutto in quanto appartenente a un ceto, a una corporazione, ad un “insieme”, insomma, che ne segnava e ne graduava la posizione ed il valore. L’unica posizione di uguaglianza stava nella comune soggezione al sovrano. Nel nuovo regime le appartenenze non scompaiono ma divengono per così dire giuridicamente irrilevanti o almeno non determinanti per indicare la posizione e il valore dell’individuo rispetto allo Stato. “Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge” è l’espressione classica di questo passaggio. La cittadinanza, insomma, nasce come fattore di eguaglianza.
Si comprende dunque che il principio di eguaglianza, che pure nell’ispirazione originaria del costituzionalismo attinge a radici universalistiche e si afferma in rapporto alla comune appartenenza alla specie umana , venga poi espresso dalle Costituzioni nazionali, anche da quelle moderne come la nostra, primariamente con riguardo ai cittadini. E tuttavia in ciò si annida una sorta di contraddizione.
Sono solo le carte internazionali dei diritti, espressione del nuovo costituzionalismo “internazionale” sviluppatosi dopo la seconda guerra mondiale, a recuperare l’originaria ispirazione universalistica nell’affermazione dei diritti umani, e quindi a introdurre accanto ai classici divieti di discriminazione per sesso, razza, colore, lingua, religione, condizione sociale, il divieto di discriminazione in base alla
“origine nazionale” , che significa in base alla cittadinanza, come è reso evidente, in qualche testo, anche dal distinto riferimento al divieto di discriminazione per gli appartenenti a “una minoranza nazionale” .
Questa è una delle grandi vere novità della nuova fase del costituzionalismo apertasi poco più di mezzo secolo fa. Nel celebre discorso delle “quattro libertà” con cui il Presidente Roosevelt anticipò i fondamenti ideali di questa nuova fase , l’elemento saliente non era tanto la riaffermazione contenutistica dei fondamentali diritti civili e sociali, ivi comprese la “libertà dal bisogno” e la “libertà dalla paura”, quanto l’insistita affermazione per cui questi diritti dovevano valere e realizzarsi “everywhere in the world”: che non significa, evidentemente, ciascuno a casa propria, ma per tutti, ovunque si trovino. Questa è dunque la nuova-antica frontiera dell’eguaglianza.
Quando la Corte costituzionale si è trovata confrontata a questioni di legittimità costituzionale fondate sul principio di eguaglianza che coinvolgevano norme legislative sugli stranieri, essa ha ben presto chiarito che, nonostante il riferimento dell’art. 3, primo comma, ai “cittadini”, il principio di eguaglianza vale pure per lo straniero quando si tratti di rispettare i diritti fondamentali dell’uomo riconosciuti dall’art. 2 della Costituzione. Ciò non ha impedito tuttavia alla Corte sia di avallare da una parte, ad esempio, norme che stabilivano trattamenti differenziati a sfavore degli stranieri sulla base dell’assunto per cui fra cittadino e straniero possono esistere “differenze di fatto” giustificatrici di tali diversi trattamenti, anche quanto al godimento di certi diritti di libertà , o di negare, a proposito dei limiti all’espulsione degli stranieri derivanti dall’esistenza di vincoli familiari, che si possa paragonare, ai fini di un giudizio di eguaglianza, la situazione di chi ha vincoli familiari con un cittadino con quella di colui che è coniugato con altro straniero ; sia, dall’altra parte, e in altri casi, di censurare invece (o di interpretare in senso conforme a Costituzione) norme incidenti negativamente su diritti degli stranieri da ritenersi fondamentali, come il diritto all’unità familiare o il diritto alla salute , ma anche norme attributive di diritti esplicitamente considerati estranei di per sé ad una assoluta garanzia costituzionale, riguardo ai quali il legislatore aveva attuato una irragionevole discriminazione a danno degli stranieri : riconoscendo così, in definitiva, una generale applicabilità del principio di eguaglianza (che comporta, come si sa, un divieto di differenze non ragionevoli) anche al non cittadino. Il carattere di per sé elastico del criterio di ragionevolezza fa sì poi che il problema delle discriminazioni si presenti sotto profili sempre nuovi: nella storia, è noto del
resto che tante discriminazioni “storiche”, a cominciare da quelle di genere, sono state “giustificate”, in un primo tempo, in base a differenze “di fatto”.
L’infittirsi di controversie costituzionali di questo genere è in ogni caso una spia del fatto che lo status di cittadino, nato agli albori del costituzionalismo moderno, come si è detto, in funzione uguagliatrice rispetto agli antichi trattamenti differenziati, finisce oggi, spesso, per costituire il fattore di una delle più significative disuguaglianze giuridiche che sopravvivono al progresso, su questo terreno, della civiltà. Un paradosso storico, che ci dice come, pur nella consapevolezza della permanente rilevanza, ancor oggi, degli elementi che tradizionalmente differenziano il trattamento dello straniero da quello del cittadino, il costituzionalista si trovi oggi a doversi interrogare sempre più spesso sulla ragionevolezza o irragionevolezza di questa disuguaglianza nelle sue varie manifestazioni.
3. I diritti umani universali e la perdita di centralità della cittadinanza
D’altra parte è tramontata l’era in cui l’assetto dei rapporti internazionali pareva ruotare attorno al principio nazionale, che identificando tendenzialmente Stato e nazione, cittadinanza e nazionalità, sembrava offrire un fondamento “naturale” alla distinzione fra cittadini e stranieri. Siamo entrati in un’epoca in cui, pur rendendo omaggio all’autodeterminazione dei popoli, proclamata come diritto ad esempio nell’articolo 1 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (senza peraltro che sia molto chiaro quali siano e che cosa siano i “popoli”), la sicurezza e il rispetto dei confini esistenti fra gli Stati fanno generalmente premio sulle varie aspirazioni o pulsioni indipendentistiche, ricondotte piuttosto al diritto alla protezione delle minoranze nazionali nell’ambito degli Stati esistenti; in un’epoca in cui la realtà della convivenza e del meticciato, all’interno dei confini di ciascuno Stato, fra persone e gruppi diversi per origine, cultura, spesso lingua e religione, impedisce ormai di considerare lo Stato stesso come genuina ed esclusiva espressione giuridica di un gruppo umano ben identificato per caratteri “pregiuridici”. I processi di autoidentificazione delle comunità esistenti in un territorio, e l’influenza dei vari comunitarismi, più o meno inclusivi o esclusivi, sfuggono largamente alle regole giuridiche (si pensi solo alla storia del nostro regionalismo). E’sempre più difficile dunque giustificare differenze di trattamento o discriminazioni su basi “naturalistiche” o “di fatto”.
Il riconoscimento di un nucleo di diritti inviolabili comuni a tutti gli esseri umani introduce un cuneo che rende sempre problematica e meno giustificabile anche la differenza cittadino/non cittadino. I diritti del cittadino sono oggi sempre più visti e trattati come diritti dell’uomo: in questo l’universalizzazione dei diritti nata con la fondazione dell’ONU e lo spazio sempre maggiore conquistato da Corti e giurisprudenze sovranazionali, che operano non in nome di uno Stato, ma in nome di carte dei diritti a loro volta sovranazionali, cambia radicalmente il panorama.
Nell’assetto costituzionale sorto dalle rivoluzioni liberali, la cittadinanza finiva per operare un poco allo stesso modo delle antiche appartenenze di ceto o di gruppo, che gli ideali rivoluzionari avevano inteso abbattere: cioè come fattore determinante del “valore” giuridico dell’individuo rispetto allo Stato. Come nell’antico regime le persone non “valevano” di per sé tutte allo stesso modo, ma in funzione della loro appartenenza a questo o quel ceto o gruppo, così nel nuovo regime le persone non “valevano” ancora una volta di per sé tutte allo stesso modo, ma in funzione della loro appartenenza ad uno Stato, quello di cui erano cittadini. Come nell’antico regime, così nel nuovo erano tutti egualmente soggetti all’autorità statale, ma il riconoscimento di diritti e anche la pretesa di adempimento di certi doveri erano legati alla cittadinanza.
4. Contro il principio di reciprocità
Un segnale significativo di ciò lo ritroviamo in un principio che la nostra legislazione ancora, anacronisticamente, contiene, in alcune norme generali che identificano condizioni per il godimento di diritti da parte dei singoli: il principio di reciprocità. L’articolo 16 delle disposizioni preliminari al codice civile non è stato abrogato dalla nuova legge che ha riformulato l’intero corpo delle norme del cosiddetto diritto internazionale privato . L’art. 73 ha abrogato i soli articoli dal 17 al 31 delle preleggi, lasciando in vita l’articolo 16 sul “Trattamento dello straniero”, il quale recita ancora così: “Lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino a condizione di reciprocità e salve le disposizioni contenute in leggi speciali”. Si noti: lo straniero “è ammesso” a godere dei diritti, non se li vede riconoscere (verbo invece usato dall’articolo 2 della Costituzione a proposito dei diritti inviolabili) al di fuori della “concessione” del legislatore statale. La condizione di reciprocità significa che lo straniero, il quale sia cittadino di uno Stato che non riconosce ai cittadini italiani gli stessi diritti dei propri cittadini, non gode di per sè in Italia degli stessi diritti dei cittadini italiani.
Attenzione: non è solo archeologia giuridica, se è vero che nel dibattito politico non è infrequente sentir affermare, per esempio, che, sì, si può magari “concedere” di costruire moschee in Italia per i musulmani residenti, ma si dovrebbe far valere il criterio di reciprocità, visto che in molti paesi islamici non è consentito costruire liberamente chiese cristiane. Chi fa affermazioni del genere ragiona esattamente come se il diritto di libertà religiosa fosse da riconoscere non alle persone in quanto tali, in base alle loro scelte di coscienza e alle loro appartenenze di fatto, ma fosse da riconoscere agli stranieri (e non importa se ci sono pure musulmani cittadini italiani: anch’essi vengono considerati “stranieri” a questi effetti) in quanto appartenenti a Stati islamici, i quali dovrebbero a loro volta garantire parità di trattamento ai “nostri” cittadini. Appunto: il “valore” giuridico dello straniero (in questo caso musulmano) dipende dalla sua appartenenza ad un (altro) Stato. Il criterio conduttore, in questo caso per l’attribuzione di diritti agli stranieri, è un tipico criterio del classico diritto internazionale, inteso come ordinamento che regola i rapporti fra gli Stati: l’individuo, per questo diritto, è solo un “riflesso” dello Stato di appartenenza: io, Stato italiano, lo prendo in considerazione alla stregua dei rapporti che ho con gli altri Stati (di reciprocità e amicizia, o di conflitto). Se ho buoni rapporti con il suo
Stato, offro diritti allo straniero; se ho cattivi rapporti, anche il trattamento dello straniero ne subirà le conseguenze.
Naturalmente l’avvento delle convenzioni internazionali sui diritti che spettano ad “ogni individuo”, e che gli Stati contraenti hanno l’obbligo di garantire “senza distinzione di origini nazionali” a tutti coloro che comunque ricadano nella loro giurisdizione, ha cambiato radicalmente questa situazione. Ma non è senza significato che il legislatore dei nostri giorni (del 1995) abbia sentito il bisogno di lasciare in vita quell’articolo 16 delle preleggi. E del resto non è solo un guscio del tutto vuoto. L’articolo 2 del vigente testo unico delle leggi sugli stranieri e sull’immigrazione sancisce bensì, al comma 1, che allo straniero comunque presente nel territorio dello Stato “sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti”, ma specifica al comma 2 che lo straniero regolarmente soggiornante in Italia “gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano” salvo però che “le convenzioni internazionali in vigore per l’Italia e il presente testo unico dispongano diversamente”, e rinvia ai casi in cui lo stesso testo unico o le convenzioni internazionali “prevedano la condizione di reciprocità”, da accertarsi secondo i criteri e le modalità previste dal regolamento (che peraltro esclude la necessità di tale accertamento nel caso di stranieri in possesso di un titolo di soggiorno per lavoro o studio o per motivi di famiglia o umanitari: art. 1 d.P.R. n. 394 del 1999). Torna qui comunque, sul piano formale e sia pure in termini assai circoscritti, il riferimento alla condizione di reciprocità. Ma questa, come si è detto, ha senso quando si parla di rapporto fra Stati, mentre non dovrebbe avere alcun ruolo quando si parla di diritti dei singoli, cittadini di uno o di altro Stato.
5. La Costituzione e il nuovo diritto internazionale dei diritti umani
Lo stesso testo costituzionale, su questo terreno, non è caratterizzato dalla stessa lungimiranza che lo connota per altri profili. Come si è ricordato, la Costituzione non si occupa del fenomeno della immigrazione, e sul trattamento giuridico dello straniero ha una posizione tradizionale, limitandosi a rinviare al diritto internazionale (art. 10, secondo comma), oltre che ad affermare il diritto di asilo. La vera apertura, indiretta, del testo costituzionale in questa materia sta nelle sue clausole internazionalistiche: quella dell’art. 10, primo comma, che pur continua ad essere oggetto, anche nella giurisprudenza della Corte, di una interpretazione restrittiva che esclude dalle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute quelle contenute nelle grandi convenzioni universali o regionali sui diritti , che pure chiaramente esprimono ormai principi comuni del nuovo diritto internazionale, e
quindi meriterebbero di ricevere lo stesso trattamento delle norme consuetudinarie; e quelle dell’art. 11, e, oggi, dell’art. 117, primo comma, attraverso cui il diritto comunitario e, rispettivamente, il diritto internazionale pattizio hanno acquistato un rango e un ruolo prevalenti quanto meno sulla legislazione ordinaria .
Onde può dirsi che i progressi registrati sul terreno del trattamento giuridico dello straniero sono passati in questi anni, più che attraverso il ruolo garantista della Costituzione, attraverso gli effetti dirompenti del nuovo diritto internazionale dei diritti umani: soprattutto le convenzioni generali e quelle particolari in materia di lavoro, le quali hanno cominciato anche a dettare principi e regole attinenti specificamente al trattamento degli stranieri . Anche su questo terreno la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, fondata sulle norme convenzionali, esercita già, e sempre più potrà esercitare in futuro, un’influenza rilevante nella concretizzazione del nostro ordinamento costituzionale.
6. Cittadinanza e doveri costituzionali
Se i diritti del cittadino tendono ormai a cedere il posto, entro certi limiti, ai diritti dell’uomo, altrettanto e forse più ciò può dirsi per i doveri costituzionali. Tra i doveri tradizionalmente posti a carico dei (soli) cittadini vi sono il dovere di difesa della patria e di prestazione del servizio militare (cfr. art. 52 Cost.) e il dovere di fedeltà alla Repubblica (art. 54 Cost.): mentre, come è noto, il dovere di concorrere alle spese pubbliche attraverso il prelievo tributario (art. 53 Cost.) prescinde dalla cittadinanza, riguardando tutti coloro che pongono in essere nel territorio dello Stato fatti rivelatori di capacità contributiva.
La recente “sospensione”, salvo situazioni di emergenza, dell’obbligo militare ha fatto venire praticamente quasi meno una delle più significative differenze di trattamento, in termini di prestazioni dovute, fra cittadini e stranieri (e, in materia, è significativo dell’atteggiamento del nostro legislatore il fatto che, prima di questa sospensione, l’esenzione dal servizio militare spettasse a chi lavorava all’estero : nell’ottica, ancora una volta, della tutela del lavoro italiano all’estero di cui parla l’art. 35 della Costituzione).
A sua volta il dovere di fedeltà, in un sistema fondato sulla libertà di opinione, tende a ridursi a contenuti minimi. Il “dovere civico” del voto (art. 48, secondo comma, Cost.) è ormai privo di qualsiasi sanzione, e anzi si teorizza il diritto di non votare (per esempio nei referendum). Il fenomeno non è solo italiano, tanto che, ad esempio, uno dei “considerando” posti a premessa e motivazione della convenzione europea sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale del 5 febbraio
19 fa riferimento al fatto che “i residenti stranieri sono a livello locale generalmente sottoposti agli stessi doveri dei cittadini”.
7. Cittadinanza e territorio
Cosa resta allora del tipico contenuto della cittadinanza, e quindi, per converso, che cosa differenzia essenzialmente, oggi, lo statuto dello straniero da quello del cittadino? Resta uno statuto di minorità, anzi di esclusione, dello straniero rispetto ai diritti chiamati politici; e resta, ancor più rilevante, l’esclusione degli stranieri da un diritto che meno spesso siamo portati nella vita pratica a considerare tale, ma è essenziale: il diritto di entrare o rientrare, e di restare o stabilirsi, sul territorio dello Stato (art. 16 della Costituzione, cui fa riscontro l’art. 3 del Protocollo n. 4 della CEDU, sul divieto di espellere i propri cittadini). Che poi vi siano alcuni milioni di cittadini poco o per nulla interessati ad esercitare tale diritto se non occasionalmente, perché residenti stabilmente all’estero, mentre premono alle frontiere milioni di stranieri che quel diritto, se l’avessero, sarebbero assai interessati ad esercitarlo, fa parte ancora una volta del divario fra la realtà sociale in movimento e un assetto giuridico che non vi si adegua se non lentamente e con difficoltà.
Il diritto di spostarsi liberamente sul territorio, alla ricerca di lavoro, di istruzione, di conoscenza, di una migliore qualità di vita o semplicemente della sopravvivenza, è uno dei diritti fondamentali della persona, tanto più rilevante quanto più crescono, dal punto di vista tecnologico ed economico, le possibilità di viaggiare e di comunicare.
Nell’ambito dello Stato tale diritto è garantito costituzionalmente in modo rigoroso: è tipica di regimi autoritari la limitazione di questo diritto mediante l’istituzione di “passaporti interni” o di controlli (e da questo punto di vista suscita qualche timore la tendenza oggi affiorante nella nostra legislazione a imporre nuove limitazioni all’iscrizione nell’anagrafe di un Comune, in relazione alle condizioni dell’alloggio : ). Il diritto di libertà di circolazione e soggiorno confina con quello primigenio della libertà personale, tanto che si discute, come è noto, di quali siano i confini precisi fra le due libertà. L’assoluta libertà di movimento, di stabilimento e di impiego all’interno dei confini nazionali è inoltre garantita dal rigoroso divieto sancito dall’articolo 120 della Costituzione, nel testo originario e anche in quello rivisto nel 2001, di ogni, anche indiretto, ostacolo che le norme e l’azione delle Regioni potrebbero porre alla “libera circolazione delle persone e delle cose” in tutto il territorio nazionale.
A sua volta il nuovo diritto internazionale dei diritti umani non manca di sancire la libertà di circolazione all’interno dello Stato per cittadini e stranieri legalmente
residenti , il divieto di espulsione dei cittadini , e la libertà di “lasciare il territorio di qualsiasi Stato, incluso il proprio” .
8. La libertà di emigrazione e i limiti costituzionali delle politiche dell’immigrazione
La libertà di emigrazione, vale da dire la libertà di spostarsi sul territorio del pianeta da uno Stato all’altro, è dunque il contenuto preciso di uno dei diritti umani fondamentali. E’ vero che, ovviamente, libertà di emigrare dal proprio Stato non significa libertà di immigrare in un altro qualunque Stato. Ogni Stato mantiene ancora il controllo pieno del proprio territorio e dei suoi confini esterni (e anzi a questo proposito è forse il caso di sottolineare come appaiano ancora molto lontane dalla realtà le ipotesi di definitivo deperimento dell’entità “Stato” in virtù dei vari fenomeni di globalizzazione e del ruolo assunto da realtà super-statali e sub-statali). E tuttavia la libertà di emigrazione in tanto si può concretamente esercitare in quanto vi siano altri Stati che consentano l’immigrazione. Quando il controllo statale sul territorio e sulle frontiere si incontra (o si scontra) con milioni di uomini e di donne che si spostano o aspirano a spostarsi da un luogo ad un altro della terra, ci si dovrà ben domandare quali limiti incontri e quali criteri debbano guidare l’esercizio del relativo potere. Davvero le autorità dello Stato – di ogni Stato – sono pienamente libere (intendo, libere dal punto di vista dei principi costituzionali e del rispetto delle norme internazionali) di stabilire quanti e quali esseri umani, e provenienti da dove, e per fare che cosa, sono ammessi ad entrare nel territorio di propria pertinenza? Davvero sono libere di stabilire fino a quando questi esseri umani possono restare in quel territorio, indipendentemente dalle concrete situazioni personali, dalla durata del soggiorno pregresso, dall’esistenza e dal rilievo di legami familiari o sociali stabiliti nel territorio o invece perduranti con la terra di origine? (La nostra legge sull’immigrazione introduce tale tipo di valutazioni solo in ipotesi particolari, relative a coloro che si sono avvalsi delle norme sul ricongiungimento familiare e ai titolari di permesso di soggiorno di lungo periodo ).
La Corte costituzionale ha più volte affermato che “la regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale è collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione” e che il legislatore, cui “tale ponderazione spetta in via primaria”, “possiede in materia un’ampia discrezionalità, limitata, sotto il profilo della conformità a Costituzione, soltanto dal vincolo che le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli” . Ora, certamente la Costituzione consente in
materia un ampio esercizio della discrezionalità legislativa: benché valga la pena di precisare che la ponderazione dei diversi interessi (tra i quali peraltro il dovere di salvaguardia dei diritti fondamentali sembra, in questo passaggio giurisprudenziale, implicito solo nel riferimento ai vincoli internazionali, ed è troppo poco) incontra anche limiti derivanti dalla gerarchia costituzionale degli interessi medesimi. Così pure, è giusto prendere atto delle difficoltà e dei problemi che nascono dal manifestarsi di flussi migratori incontrollati e fuori dalle previsioni legali e che le autorità statali debbono affrontare (parlare di immigrazione “clandestina” è forse improprio, tenuto conto che ciò che si tratta assai spesso di fatti che avvengono alla luce del sole). Ma occorre pur dire, proprio da un punto di vista costituzionale, che fenomeni di questa natura e di questa entità non possono essere fronteggiati con i soli strumenti della polizia di sicurezza, tanto meno con gli strumenti del diritto penale, quasi si trattasse esclusivamente o primariamente di questioni di ordine pubblico. Ciò significa infatti affrontare i problemi dalla coda delle conseguenze ultime più che dalla testa delle loro radici. Una seria politica dell’immigrazione, costituzionalmente orientata, non può ignorare il fatto che ci si trova di fronte a fenomeni di massa non evitabili, in cui si manifesta peraltro l’esercizio da parte di milioni di esseri umani di una libertà (la libertà di emigrare) che le convenzioni internazionali riconoscono come diritto fondamentale, e che la nostra stessa Costituzione protegge in capo ai cittadini.
Insomma i criteri e le modalità con cui lo Stato regolamenta l’ingresso e il soggiorno degli stranieri nel proprio territorio non possono essere lasciati interamente alla discrezionalità di un legislatore a rimorchio degli umori e delle paure che affiorano alla superficie della società, e nemmeno alla discrezionalità dell’amministrazione di polizia (la Direzione generale dell’immigrazione è collocata nell’ambito del Ministero dell’interno: non di rado la collocazione dei compiti nell’ambito dell’apparato pubblico è rivelatrice dei criteri di fondo cui si ispira la relativa politica). Non c’è solo il dovere di garantire, come sempre, la legalità di fronte a fenomeni che tendono a sfuggirvi: c’è, ancor prima, il dovere di assicurare che il governo legale del fenomeno risponda a criteri di giustizia e di realtà. Se non si regolamenta opportunamente ed efficacemente la immigrazione legale, non si può poi ridurre tutto agli strumenti di contrasto della immigrazione illegale.
9. Le migrazioni e l’Europa
Che poi la politica dell’immigrazione investa per sua natura profili e responsabilità ultrastatali, e per noi, in particolare, profili di responsabilità delle istituzioni europee e quindi anche di diritto comunitario, è fuori di dubbio: ma, ancora una volta, non si possono ridurre tali profili ad un problema di coordinamento delle politiche statali dell’ordine pubblico, degli strumenti di controllo delle frontiere e delle amministrazioni di sicurezza degli Stati membri dell’Unione.
Le istituzioni europee sono a loro volta basate, come è noto, sui principi fondamentali della libertà di circolazione delle persone, oltre che delle merci e dei capitali, e della libertà di stabilimento nell’intero territorio dell’Unione: da questo punto di vista la cittadinanza europea, pur ancora embrionale e apparentemente semplice proiezione sovranazionale delle consolidate cittadinanze degli Stati membri, costituisce una delle maggiori novità costituzionali, nella misura in cui incorpora il diritto fondamentale, tipico dei cittadini, di ingresso, soggiorno e circolazione nell’intero territorio (in questo caso, dell’Unione). Che si sia cercato, negli ultimi anni e a seguito dell’allargamento dell’Unione, di contenere anche gli effetti delle migrazioni “interne” allo spazio europeo, prevedendo limitazioni e controlli sulle persone che nell’ambito del territorio statale sarebbero impossibili a realizzarsi perché contrastanti con la libertà di circolazione e soggiorno , è un altro segnale della difficoltà, anche in Europa, a “pensare in grande” i temi della cittadinanza.
10. I diritti politici degli stranieri: una nuova sfida per la democrazia
C’è infine il tema dei diritti politici, che i nostri ordinamenti riconoscono ancora quasi in esclusiva ai cittadini, negandoli agli stranieri, quale che sia la durata del loro soggiorno legale nel territorio. Il tema coinvolge un altro dei principi cardine del costituzionalismo, la democrazia.
Noi siamo abituati a discorrere del “popolo”, formato dall’insieme dei cittadini, come titolare collettivo dei diritti democratici. Ma chi è popolo? Se si abbandona, come è necessario, una visione “naturalistica” della collettività politica, coincidente o meno con la nazione o comunque con un gruppo avente comuni caratteri culturali di sempre più difficile definizione, e se si guarda allo Stato come è nella realtà odierna, cioè un’organizzazione politica per il governo di una concreta collettività insediata in un territorio, appare sempre più difficile giustificare in base a presupposti genuinamente democratici la limitazione dei diritti di partecipazione politica a coloro cui la legge dello Stato riconosce la cittadinanza o che l’ottengono in “concessione”.
Se democrazia significa governo fondato sul consenso dei governati, è difficile escludere dall’universo dei “governati” persone che stabilmente risiedono, vivono, si sposano, fanno figli, lavorano, si istruiscono, spesso addirittura nascono nel territorio dello Stato, solo perché sono nati forniti della cittadinanza di un altro Stato, ma che in molti casi è per loro più un ricordo e un’eredità del passato che non una realtà vissuta del presente. C’è una contraddizione insita nel definire “democratica” una Repubblica che nega i diritti politici a una quota consistente e crescente degli individui che in essa vivono, spesso intenzionati a restarvi.
La storia dei diritti politici è del resto una storia di antiche contraddizioni fra idea democratica e realtà del suffragio limitato, per sesso, per censo, per cultura: contraddizioni che il tempo e la crescita della consapevolezza democratica hanno progressivamente sanato. Oggi la contraddizione evidente riguarda proprio la negazione del diritto di voto ai non cittadini, anche a quelli il cui radicamento nel territorio è consolidato e innegabile. Una democrazia jure sanguinis o gentilizia non è, in fondo, meno discriminante di una democrazia censitaria o basata su una discriminazione di genere.
Pure, non solo in Italia, stenta a farsi strada l’idea di una estensione dei diritti politici ai non cittadini. Colpisce il fatto che la convenzione promossa dal Consiglio
d’Europa sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica locale, stipulata nel 1992 ed entrata in vigore nel 1997, sia stata finora, a 17 anni di distanza ormai, firmata da soli 13 Stati membri del Consiglio, ratificata da soli 8 fra questi, e per di più talvolta, come nel caso dell’Italia, limitando l’adesione ad un parte soltanto del trattato, in particolare con l’esclusione della parte relativa all’esercizio del diritto di voto nelle elezioni locali . Evidentemente in larga parte dell’Europa la concezione di una democrazia jure sanguinis è dura a morire.
11. Il diritto all’acquisto e al mutamento di cittadinanza
Naturalmente la contraddizione sarebbe in parte sanata o largamente ridotta nei suoi effetti se alla stabile residenza nel territorio si legasse, in base alla sola volontà dell’interessato, l’attribuzione della cittadinanza, che in questo caso esprimerebbe l’incontro fra una situazione oggettiva di radicamento nel territorio e la volontà dell’interessato di farne conseguire l’esercizio dei diritti politici: integrando la democrazia jure sanguinis con una democrazia jure electionis. Ma così non è, come è noto. L’attribuzione della cittadinanza viene tuttora collegata a condizioni assai più rigorose di quelle che esprimono un radicamento stabile nel territorio: solo per chi vanti ascendenze di sangue italiano o per chi contragga matrimonio con un cittadino si facilita il percorso , mentre per gli altri stranieri l’acquisto della cittadinanza è condizionato oggi a dieci anni di regolare residenza e al compimento di un lungo iter burocratico che di fatto porta il tempo necessario ad almeno dodici anni .
Il tema delle condizioni di acquisto della cittadinanza è a sua volta tutt’altro che privo di risvolti costituzionali. Non è un argomento che si possa ritenere rimesso interamente alle libere decisioni di ogni legislatore statale, dopo che la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (art. 15) ha proclamato che “Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza” e che “Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza”; e dopo che il Patto internazionale sui diritti civili e politici ha a sua volta stabilito che “ogni fanciullo ha diritto ad acquistare una cittadinanza” (art. 24, par. 3 ). La Costituzione, all’art. 22, si limita a garantire i cittadini contro la privazione della cittadinanza “per motivi politici”: ma, ancora una volta, dal diritto internazionale discendono ulteriori vincoli, almeno nel senso che, in situazioni in cui sussiste un rapporto di fatto col territorio dello Stato, l’acquisto della cittadinanza non può essere subordinato a condizioni del tutto liberamente determinate dal nostro legislatore, specie quando ci si trovi in presenza di persone che, se non riconosciute come cittadini italiani, rischiano di trovarsi in condizioni di apolidia (si pensi agli effetti delle recente dissoluzione della
Repubblica federativa di Jugoslavia, per gli ex cittadini di quella Repubblica che, trovandosi all’estero o essendovi nati, non siano oggi riconosciuti come cittadini dagli Stati ad essa subentrati).
E’ da sottolineare del resto che la Dichiarazione Universale non si limita a proclamare il diritto di ogni individuo ad avere una cittadinanza, ma afferma anche quello, non limitabile arbitrariamente, di mutare cittadinanza, e dunque di passare, essendovi le condizioni, dallo “statuto” di straniero a quello di cittadino. Benché per questo aspetto la Dichiarazione non sia stata ancora tradotta in norme pattizie, essa esprime una linea direttiva, che le legislazioni nazionali, e dunque anche la legge italiana, non possono ignorare.
Colpisce il fatto che, finora, le innovazioni legislative nel nostro paese si siano mosse invece in direzione esattamente contraria a quella che consentirebbe di cominciare a sanare la contraddizione di cui ho parlato. Recentemente, per la verità, è stata presentata alle Camere una proposta di legge , che, finalmente, si muove nella direzione giusta, tendendo a rendere meno gravose le condizioni per l’acquisto della cittadinanza da parte degli stranieri regolarmente residenti, specie se nati in Italia. La sorte che avranno queste proposte ci dirà se qualcosa, finalmente, si sta muovendo per rendere lo statuto dello straniero in Italia meno lontano da una prospettiva costituzionalmente orientata .
Statuto costituzionale del cittadino e statuto costituzionale del non cittadino rappresentano, in definitiva, le polarità di un rapporto di contrapposizione che finisce per contraddire la linea di sviluppo del costituzionalismo. Questo, se resta fedele alla sua ispirazione primigenia e alla sua funzione storica, non può non muovere, sulla base dei fondamenti costituiti dal valore della dignità umana e dall’affermazione dei diritti inviolabili della persona, verso un orizzonte in cui quella contrapposizione si riduce e si ricompone.