http://comune-info.net/ 29 giugno 2017
Non vogliamo impadronirci dello Stato
C’è bisogno di una rottura, ma non per far ripartire la macchina crescita-occupazione. L’obiettivo non è impadronirsi dello Stato, ma procedere sulla strada difficile dell’autogoverno. E questo non è l’obiettivo di nessun partito
C’è bisogno di una rottura, ma non per far ripartire la macchina crescita-occupazione. L’obiettivo non è impadronirsi dello Stato, ma procedere sulla difficile strada dell’autogoverno. E questo di certo non è l’obiettivo di nessun partito. Tuttavia, aggiunge Serge Latouche, “anche se lo Stato-nazione è condannato e condannabile, è ancora in una certa misura un bastione contro la privatizzazione totale e la distruzione di quello che resta dello Stato sociale. Da questo punto di vista, pur combattendolo e puntando a superarlo, bisogna appoggiarvisi. Bisogna combattere su due fronti e non irrigidirsi in una posizione dogmatica… L’autogoverno implica che si sia contemporaneamente potere e contropotere”
Intervista di Didier Harpagès a Serge Latouche* Una volta lei ha detto al suo psicoanalista: «Non ero discepolo di nessuno, ma avrò dei discepoli!». Pensava al mestiere di insegnante che ha fatto in modo singolarmente innovativo? Eravamo nel «dopo maggio ’68» e lei abbatteva una serie di barriere che molti suoi colleghi tentavano di rialzare. Ci faceva un corso straordinario che apriva moltissime porte. Alle parole del «maestro» seguivano dibattiti ricchi e stimolanti in cui c’era sempre un atteggiamento critico. Insomma lei non era soporifero! Ha mai fatto una riflessione critica sul ruolo del pedagogo e più in generale sul posto che l’insegnamento deve avere nella società? In effetti nel maggio ’68 la questione della pedagogia veniva sollevata un po’ dovunque nel mondo della scuola. Si trattava di mettere in discussione il rapporto insegnante-allievo, i corsi tradizionali e il baronato. Questi problemi mi hanno sempre appassionato. Avevo fatto già una piccola esperienza di insegnante in Africa e nel Laos e il mio interesse per la psicoanalisi mi ha portato a interrogarmi sui rapporti maestro-discepolo e insegnante-allievo. In quel momento uscivano anche molti testi freudo-marxisti, come quelli di Wilhelm Reich, o I ragazzi felici di Summerhill [1], importantissimo all’epoca, che metteva in discussione l’insegnamento tradizionale. Non sono arrivato a conclusioni definitive né a una teoria precisa in fatto di pedagogia, ma tutto questo mi ha posto interrogativi che mi hanno seguito durante tutta la mia vita di insegnante. Il problema del transfert, ben noto in psicoanalisi, aveva ovviamente richiamato la mia attenzione. Sono stato sempre colpito da una certa analogia tra il rapporto tra analista e paziente e quello tra maestro e allievo. Lo vivevo mentre cercavo di analizzarlo, di tenerne conto e di ricavarne degli orientamenti nell’insegnamento. Penso d’altronde che nel corso della mia carriera non ho sempre insegnato allo stesso modo. All’inizio vedevo i miei studenti un po’ come cavie per tentare nuove forme di rapporto insegnante-allievo, sforzandomi di rompere la relazione classica. Verso la fine sono tornato saggiamente a un rapporto più tradizionale, avendo capito i limiti delle esperienze innovatrici. Nel senso che rimetteva in qualche modo una distanza tra lei e gli studenti. Sì, una distanza, ma senza arroganza e senza cercare di abusare del potere che inevitabilmente ha il maestro, il «soggetto che si suppone sappia» come diceva Lacan, sugli allievi. Aveva discussioni con i suoi colleghi sull’argomento? A Lille, negli anni che hanno seguito il ’68, non ero il solo a cercare delle formule nuove. Ho tenuto per diversi anni corsi liberi a Paris VIII – eravamo ancora a Vincennes – ed era fuori discussione fare lezioni tradizionali. L’insegnante doveva ascoltare gli studenti e la cosa a volte creava delle derive. È vero che il maestro è nella posizione del «soggetto che si suppone sappia». Dunque si deve prendere sul serio, credere nel suo ruolo, sapere che si trova in una posizione gerarchica dominante, ma non considerarsi onnipotente perché è a sua volta qualcuno che impara. Invece, l’idea che sia lo studente a dettar legge a lezione non ha senso. A Vincennes alcune lezioni si trasformavano in discussioni da bar. Dopo un po’ la cosa non interessava più nessuno. Il corso di epistemologia che lei teneva all’Università di Lille negli anni settanta era incentrato sulla critica dell’economia. Per meglio fustigare l’insieme del discorso economico, lei si appoggiava alla psicoanalisi e all’antropologia, ma criticava anche le diverse teorie chiamate in causa. L’economia politica classica era messa in discussione dal marxismo, di cui però lei cominciò rapidamente a segnalare la perversa tendenza economicistica, distinguendo tra il giovane Marx e il Marx maturo. E questa messa in discussione costante portava a un discorso coerente e strutturato. Pensa di essere dotato di una predisposizione psicologica all’esercizio della critica oppure pensa semplicemente che il suo lavoro intellettuale, la sua riflessione filosofica, siano le uniche fonti del percorso libertario da cui deriva il suo pensiero critico? È difficile stabilire quale sia la parte giocata dalla personalità e quale quella giocata dalla riflessione intellettuale nel risultato finale. Un mio libro di cui si è parlato poco e che non ha avuto un grande successo, Le Procès de la science sociale, per me è stato una tappa importante[2]. È in qualche modo il mio «discorso sul metodo». Sono stato molto influenzato dalla psicoanalisi. La psicoanalisi ci dice, secondo la formula di Lacan, che il reale è l’impossibile. Non si accede direttamente al reale, si accede ai sintomi, e la loro analisi permette di smascherare qualcosa del reale. Questo in qualche modo coincide con la concezione della teoria critica della Scuola di Francoforte, secondo la quale la conoscenza del reale si raggiunge attraverso la critica dell’ideologia. L’ideologia fa costantemente da schermo tra noi e l’accesso al reale. Gli uomini, come diceva Pareto, costruiscono dei discorsi giustificatori, delle derivazioni, che sono il risultato della loro realtà ma che al tempo stesso la mascherano. Io credo che si acceda alla realtà con la critica del discorso giustificatorio e che questa critica permetta di avere un effetto di disvelamento della realtà. Ho tentato di sistematizzare questo approccio in quel piccolo libro, giocando sulla parola «processo», al tempo stesso messa in discussione e movimento. Il discorso dell’economia politica è il discorso dell’ideologia della borghesia dominante. Rivela qualcosa del capitalismo ma contemporaneamente lo maschera. La sua critica non può essere soltanto una critica logica, come quella che Marx ha tentato di fare. La psicoanalisi e l’antropologia forniscono una dimensione estremamente importante per il disvelamento e permettono di non ricadere, come ha fatto Marx, nella trappola di quello che aveva denunciato (leggi anche Decrescita con Marx, ndr). […] Alcuni esperti scientifici fanno un lavoro prezioso denunciando gli effetti del degrado dell’ambiente sulla nostra salute. Ma molto spesso non collocano questa problematica all’interno di un contesto economico e sociale, come se in qualche modo volessero rinunciare alla critica. Probabilmente ciò è dovuto alla specializzazione del ricercatore, che si concentra su un campo specifico e di conseguenza non ha una visione globale. Gli scienziati spesso sono così, non vogliono vedere quello che succede al di fuori del loro settore. Ma se si pensa al fatto sociale totale di Marcel Mauss non si può dire che lo stesso avvenga nella stessa misura nelle scienze sociali. Invece la specializzazione degli economisti permette di oscurare il resto e di trascurare le interdipendenze. Vorrei tornare su una questione importante ma delicata affrontata nella conversazione con Daniele Pepino. Su temi come l’uscita dall’euro, la rilocalizzazione, la difesa dell’attività contadina, il ritorno a un certo protezionismo – temi che una sinistra antiliberale, antiproduttivista e anticapitalistica potrebbe ragionevolmente fare propri – si nota che convergono i punti di vista di forze politiche xenofobe, conservatrici e reazionarie di estrema destra, che hanno inserito quei contenuti nei loro programmi. Sicuramente da parte di tali forze c’è parecchio opportunismo e la loro è una strategia soltanto di bassa politica ed elettoralistica. Ma come ha detto Frédéric Lordon: «A forza di farci rubare le idee dal Front National ci ritroveremo senza niente!». Che cosa devono fare gli obiettori di crescita su questi argomenti per evitare la confusione e il discredito? Non è indispensabile una certa pedagogia per distinguere, ad esempio, la sovranità delle nazioni e dei loro capi dalla sovranità del popolo? Oppure, non è necessario chiarire che una moneta comune sarebbe preferibile, in nome di questa sovranità, alla moneta unica? La frase di Frédéric Lordon è divertente e rivelatrice. Sì, lui si ritroverà senza niente, ma noi no. Il problema sta nel fatto che il programma dei neokeynesiani viene ripreso dal Front National. Il nostro invece esprime soprattutto il rifiuto della crescita e dunque va molto più lontano, in quanto presuppone un cambiamento di paradigma. Senza dubbio la destra riprende alcune nostre idee, e si può capire, perché la cosa risponde ad aspirazioni reali. Del tipo: bisogna uscire dalla disoccupazione! Ma dalla disoccupazione non si uscirà con le ricette neoclassiche o neokeynesiane tradizionali. C’è bisogno di una rottura, ma non per far ripartire la macchina crescita-occupazione, bensì per promuovere un’economia più o meno stazionaria che separi la creazione di posti di lavoro dalla crescita del PIL. Noi abbiamo sempre detto che l’obiettivo non è di impadronirsi dello Stato così com’è, nazionalista, chiuso, ma di procedere sulla strada dell’autogoverno, e questo di certo non è l’obiettivo del Front National. D’altra parte, noi possiamo essere favorevoli alla riappropriazione del mercato interno, ma non per ripiegamento nazionalista, estremamente pericoloso, ma al contrario per distruggere la concezione dello Stato-nazione come luogo esclusivo del rifugio e dell’identità. Allo stesso modo, la riappropriazione della moneta per noi non vuol dire riproporre una moneta nazionale con tanto di Banca centrale. Si tratta al contrario di riappropriarsi della moneta in quanto bene comune del popolo, di cui il popolo controlla la creazione e l’utilizzazione. La riappropriazione indubbiamente pone problemi enormi, ad esempio quello del rapporto tra generazioni. In quanto riserva di valori, la moneta permette agli anziani di vivere grazie ai contributi sociali dei giovani. È evidente che questioni del genere non possono essere risolte con meccanismi finanziari ma devono basarsi su decisioni democratiche. Personalmente sono convinto però che la riappropriazione della moneta non debba tradursi in una rottura dei legami culturali con i nostri vicini europei. Uscire dall’euro non sarebbe abbandonare l’Europa? Affatto! Perché se rifiutiamo questa Europa economica e monetaria rifiutiamo anche la Francia del nazionalismo. Vogliamo ritrovare le regioni, ma non per farne degli Stati-nazione in miniatura, che sarebbe riprodurre in peggio i difetti del nazionalismo, come sfortunatamente fanno i nostri amici baschi e catalani. Sarebbe peggio perché il nazionalismo di minuscoli Stati non avrebbe la forza di uno Stato potente in grado in qualche modo di resistere alle multinazionali, e perché la cosa non risolverebbe in nessun modo il problema della distruzione dello Stato. Dunque è necessario uscire dal paradigma dello Stato e riappropriarsi dell’autogoverno, il quale in un certo senso non ha limiti. Intendiamoci, la democrazia deve essere locale ma al tempo stesso senza frontiere: non c’è nessuna ragione di mettere barriere identitarie alle frontiere della Bretagna, della Francia, della Germania e anche dell’Europa. Esiste un’identità culturale europea così come esiste un’identità culturale bretone o francese: bisogna concepire un meccanismo di osmosi. Al contrario, se c’è una cosa che non bisogna abolire è la frontiera monetaria, che bisogna invece moltiplicare. Le monete locali sono indispensabili, perché una moneta europea in presenza di leggi sociali, ambientali e culturali diverse distrugge le specificità. E le specificità sono essenziali, perché permettono il dialogo e l’arricchimento reciproco. L’omologazione distrugge ogni forma di diversità e di dialogo. L’ultima cosa da fare è creare una moneta unica. Si possono utilizzare monete di conto comuni per facilitare gli scambi, ma la moneta unica è la volpe nel pollaio, è la concorrenza di tutti contro tutti. […] Ho notato un’ambivalenza di alcune sue analisi, dovuta molto probabilmente alla complessità della realtà sociale. Ad esempio, lei ritiene che nella situazione attuale si debba sostenere lo Stato, sperando al tempo stesso che emergano nuove iniziative che vadano nel senso del suo superamento e della sua eliminazione. Insomma lei sostiene che non bisogna rinunciare alla democrazia rappresentativa, anche se la creazione di un contropotere sarebbe la benvenuta. La tradizione non deve essere rifiutata ma modernizzata. Bisogna combattere il potere ma non prenderlo. La pensa così per prudenza, per rifiuto del manicheismo? E questo approccio non la porta in fin dei conti ad adottare un metodo dialettico che vuole superare le contraddizioni apparenti? La risposta sta nella domanda. Bisogna tenere presente che la tradizione occidentale è fondamentalmente basata sulla logica formale aristotelica, che spinge in certo qual modo verso una forma di pensiero manicheo. Io penso che la realtà sia complessa, come lei dice, e che soprattutto nell’azione concreta dobbiamo tenere conto di questa complessità. Le cose non sono bianche o nere, e con la realtà bisogna giocare d’astuzia. L’esempio dello Stato è molto interessante perché non si può essere totalmente contro lo Stato, non si possono prendere i propri desideri per la realtà, bisogna conviverci. Oggi abbiamo un nemico temibile che è l’oligarchia mondiale, e questo nemico è talmente potente che il male (lo Stato) che può difenderci contro di esso diventa un bene. Anche se lo Stato-nazione è condannato e condannabile, è ancora in una certa misura un bastione contro la privatizzazione totale e la distruzione di quello che resta dello Stato sociale. Da questo punto di vista, pur combattendolo e puntando a superarlo, bisogna appoggiarvisi. Bisogna combattere su due fronti e non irrigidirsi in una posizione dogmatica. Dobbiamo usare il male per ricavarne del bene, ed è per questo che la tematica del contropotere è importante. Quello che ha prodotto il movimento amerindiano in America Latina è una rivoluzione nella rivoluzione. Le parole del subcomandante Marcos il 1° gennaio 1994 furono: «Noi non vogliamo prendere il potere, perché sappiamo per esperienza che se prendessimo il potere saremmo catturati dal potere. Non vogliamo prendere il potere, ma vogliamo che il potere ci ascolti e agisca secondo i nostri interessi». Certo si deve sperare che il potere sia più democratico e più sensibile alle rivendicazioni, ma anche di fronte a un potere fascista non bisogna rinunciare. Così è stato in Bolivia, dove nella guerra dell’acqua dell’aprile 2001 i manifestanti hanno fatto pressione su un governo di destra e hanno ottenuto l’annullamento di un contratto di privatizzazione dell’acqua. Non si ha mai un potere ideale, una cosa del genere non esiste. Pensiamo all’autogoverno. Una delle poche esperienze storiche che abbiamo è quella dell’Atene del v secolo a. C., che ha sempre fatto sognare Castoriadis. Eppure non era l’ideale. Funzionava più o meno perché Pericle aveva confiscato buona parte del potere a proprio vantaggio. E poi le cose sono precipitate. Ma l’esercizio di un contropotere non è ancora più esaltante dell’esercizio del potere? La gente di San Cristóbal non si è trovata in una situazione del genere? In realtà i membri dell’esercito neozapatista hanno il potere a livello locale e si trovano in una duplice condizione, perché il potere locale è al tempo stesso un contropotere rispetto al potere nazionale. L’autogoverno implica che si sia contemporaneamente potere e contropotere, in modo che le persone che prendono le decisioni siano nel mirino di quelle che le controllano. A San Cristóbal si applica la formula «comandiamo ubbidendo». In realtà il potere è sempre tentato dall’abuso di potere. «Ogni potere corrompe e il potere assoluto corrompe assoltamente», diceva Montesquieu. Il problema deriva dal fatto che quelli che sono al potere si prendono troppo sul serio, si appropriano di ciò che deve essere soltanto una funzione. Invece di esercitare il potere lo possiedono. […]
Note [1] Cfr. Alexander Sutherland Neill, I ragazzi felici di Summerhill. Il piacere di educare e di essere educati, Red, Milano 1990 (ed. or. 1960). [2] Cfr. Serge Latouche, Le Procès de la science sociale. Introduction à une théorie critique de la connaissance, Anthropos, Paris 1984. [3] Cfr. «Revue Francophone du développement durable».
In questo articolo, stralci di una conversazione di Didier Harpagès con Serge Latouche, la cui versione completa è raccolta in L’economia è una menzogna, edito Bollati Boringhieri (che ringraziamo). Il libro contiene altre due conversazioni con Latouche, una di Thierry Paquot e una di Daniele Pepino. |