Originale: Counterpunch http://znetitaly.altervista.org/ 18 giugno 2017
Democrazia e mercati di Anders Sandstrom, Jason Chrysostomou ed Elizabeth Meade traduzione di Giuseppe Volpe
La democrazia riguarda (1) regole formali di decisione e (2) organizzazione e disegno delle istituzioni della società al fine di promuovere l’influenza dei cittadini sulle decisioni e gli sviluppi della società. Quando la maggior parte delle persone pensa oggi alla democrazia, presumibilmente pensa al voto nelle elezioni e a quello che succede nel governo, con scarse opportunità di contribuire tra un’elezione e l’altra. Tuttavia il cuore della democrazia dovrebbe riguardare la partecipazione delle persone alle decisioni che influiscono su di loro. La sinistra libertaria ha a lungo definito ciò più chiaramente come autogestione, cioè gli interessati da una decisione dovrebbero avere su di essa un’influenza corrispondente alla misura in cui ne sono toccati. Ciò dovrebbe estendersi a tutte le aree della vita sociale in cui vanno prese decisioni collettive, che sia nella famiglia, nella comunità, nei nostri luoghi di lavoro, a livello nazionale e internazionale, eccetera.
Oggi nella maggior parte delle economie il sistema dominante per distribuire beni, servizi e risorse (compresi lavoro e capitali naturali e prodotti) è il sistema del mercato, che è definito come un sistema di offerte competitive tra singoli acquirenti e venditori. Noi sosteniamo che il sistema del mercato è fondamentalmente in conflitto con il concetto della democrazia e con la voce in capitolo delle persone sulle decisioni che le riguardano. Ad esempio, quando un produttore di automobili vende un’auto a motore diesel a un acquirente in un mercato, quelli nella comunità che sono danneggiati dall’inquinamento acustico e dell’aria proveniente dall’auto sono esclusi dall’aver voce nella transazione. Inoltre, in un mercato, i consumatori “votano” su ciò che deve essere prodotto e su quali investimenti la società dovrebbe fare in base al principio “un dollaro, un voto”, indipendentemente da quale sia la ricaduta sui singoli. Quanti più sono i dollari cui uno ha accesso, tanti più voti può esprimere.
I mercati hanno un’influenza pervasiva in ogni area delle nostre vite e tuttavia non sono chiamati a rispondere delle conseguenze negative, quali il cambiamento climatico e la disuguaglianza economica in continua crescita. Nelle attuali economie di mercato, formalmente democratiche, c’è un costante tiro alla fune tra mercati e democrazia. Quanto maggiore è l’influenza dei mercati, tanto minor spazio c’è per l’influenza democratica e viceversa. Eventi recenti dopo la crisi finanziaria del 2008, con la concentrazione sul salvataggio di istituzioni finanziarie di proprietà privata ma non dei proprietari di casa in pignoramento e con la contemporanea messa in atto di dure misure d’austerità per i cittadini comuni, hanno sottolineato ed enfatizzato questa contraddizione. Ogni movimento che abbia l’obiettivo di lungo termine di trasformare la società rendendola veramente democratica e liberatrice deve alla fine non solo affrontare e migliorare il processo del voto politico rendendolo più trasparente, diretto e partecipativo, ma anche introdurre processi decisionali democratici nell’economia sostituendo ai mercati una procedura democratica, decentrata e partecipativa di pianificazione dell’allocazione delle risorse sociali.
Socialdemocrazia postbellica Nel periodo postbellico e fino ai tardi anni ’70 i lavoratori e i cittadini comuni principalmente nell’Europa Occidentale e in Nord America avevano possibilità piuttosto buone di influenzare lo sviluppo della società e la distribuzione del reddito mediante sindacati relativamente forti e partiti socialdemocratici, o equivalenti, che almeno parzialmente difendevano dal mercato gli interessi di vasti gruppi della popolazione. I sindacati premevano per salari più alti e per un’accresciuta influenza sul luogo di lavoro ed ebbero un certo successo, anche se una vera democrazia dell’industria non fu mai in discussione. In Svezia i sindacati si spinsero sino a mettere in discussione la proprietà privata delle imprese mediante la proposta di fondi dei salariati a metà degli anni ’70. I partiti socialdemocratici ridistribuirono il reddito mediante trasferimenti e attuarono riforme dello stato sociale che garantirono l’accesso universale a risorse pubbliche vitali, quali l’assistenza sanitaria e l’istruzione. Inoltre molti cittadini erano impegnati in associazioni civili che avevano una certa influenza sullo sviluppo della società. Tali associazioni civili funzionavano come una “scuola di democrazia”, in cui i partecipanti sviluppavano competenze relative all’assunzione e all’attuazione di decisioni collettive. La domanda aggregata della società era gestita in accordo con le teorie di John Maynard Keynes come componenti chiave dello sviluppo economico e del governo che, assieme a un esteso sistema di assistenza sociale, trasferimenti ugualitari di reddito e un considerevole numero di imprese di proprietà pubblica sulle quali i cittadini avevano, almeno in teoria, controllo democratico, garantivano un settore pubblico forte. Mentre i socialdemocratici all’origine avevano obiettivi e visioni più ambiziosi, arrivati al 1950 e in seguito i mercati furono ritenuti necessari ma sottoposti a decisioni e istituzioni democratiche e limitati da esse. Le transazioni finanziarie e gli investimenti internazionali e molto disciplinati e non era consentito loro di controllare le decisioni di istituzioni formalmente democratiche in stati sovrani.
Nel complesso il periodo postbellico fino ai tardi anni ’70 fu caratterizzato da mercati disciplinati e controllati, elevata crescita, un grande settore pubblico, sindacati forti con grande influenza e limitate disparità di reddito.
Neoliberismo A partire dai tardi anni ’70 la situazione è cambiata enormemente. La dottrina neoliberista, sviluppata da Friedrich von Hayek e Milton Friedman e promossa attraverso la rete della Mont Pelerin Society e delle sue associate, tra cui istituzioni accademiche quali la Chicago Business School nei decenni dopo la seconda guerra mondiale, negli anni ’80 divenne più o meno la sola dottrina accettata tra i politici e gli economisti prevalenti. Il neoliberismo enfatizza l’importanza di minimizzare, e idealmente sradicare, le possibilità che la democrazia influenzi le decisioni economiche. I mercati e, soprattutto, la concorrenza dovrebbero guidare le decisioni e lo sviluppo in tutte le aree della società, senza essere ostacolati o influenzati da decisioni o azioni di organismi gestiti democraticamente. La logica del mercato deve essere considerata una “legge di natura” inaccessibile al processo decisionale democratico e agli interventi politici. Lo scopo della politica consiste nel proteggere i mercati e le altre istituzioni della società dall’influenza democratica. Il potere politico dovrebbe essere al massimo possibile delegato a tecnocrati ed esperti “apolitici” che sono al di là della portata dell’influenza democratica. Semmai debbano esistere istituzioni democratiche, devono essere subordinate alle richieste dei mercati. L’idea liberale classica che i cittadini abbiano determinati diritti intrinseci in quanto esseri umani che dovrebbero essere garantiti attraverso istituzioni pubbliche è respinta. I soli diritti cui il cittadino ha titolo sono quelli che può assicurarsi sul mercato. Tutto questo, contrariamente alla credenza del pubblico, richiedere uno stato forte e un elevato livello di coercizione politica. Lo stato deve limitare le scelte disponibili che i cittadini hanno, promulgando e facendo rispettare leggi che proteggano la proprietà privata, i negoziati di mercato, i contratti, eccetera.
Questo programma è stato attuato con successo in tutto il mondo. Le istituzioni democratiche della società sono state sistematicamente smantellate in linea con le richieste del mercato. Il potere e l’influenza dei sindacati sono stati ridimensionati. Ci sono differenze tra i paesi riguardo a quanto in là si sono spinti in questo sviluppo neoliberista, ma non c’è alcun dubbio sulla direzione generale. Le liberalizzazioni e gli accordi di libero scambio hanno dato alle imprese e soprattutto al capitale finanziario un grande potere per spingere i paesi gli uni contro gli altri. Hanno reso difficile, se non impossibile, ai paesi perseguire una politica indipendente che vada contro le pretese del mercato riguardo ai diritti sindacali, alla protezione dell’ambiente, alla tassazione, alla politica sociale, alla politica fiscale e via discorrendo, il che ovviamente era uno degli scopi della liberalizzazione. Il potere dei sindacati di influenzare i salari e le condizioni di lavoro è stato anch’esso influenzato negativamente dalle liberalizzazioni e dagli accordi di libero scambio.
L’estesa privatizzazione di un crescente numero di attività in precedenza messe a disposizione dal settore pubblico ha (1) ridotto la sfera soggetta all’influenza democratica e (2) aperto nuovi mercati e creato maggiori opportunità di profitto per il capitale. La politica monetaria è stata delegata a banche centrali indipendenti che sono “protette” dall’influenza democratica. Contemporaneamente la politica monetaria, e dunque le banche centrali, ha ottenuto maggiore influenza poiché i parlamenti nazionali hanno più o meno rinunciato alla politica di bilancio di fronte alle richieste dei mercati di basse imposte e ridotta spesa governativa. La sola responsabilità delle banche centrali consiste nel tenere sotto controllo l’inflazione, il che è lo stesso che dire che la disoccupazione andrebbe mantenuta a un livello sufficientemente elevato per non far partire l’inflazione. Il Europa e altrove il potere formale è trasferito dai parlamenti nazionali a organismi sovranazionali quali OCSE, BCE, Commissione Europea, FMI, Banca Mondiale, eccetera; organi che decidono, ad esempio, il tetto del debito e i deficit di bilancio degli stati membri sulla base delle richieste dei mercati. Queste istituzioni sono progettate per essere inaccessibili all’influenza democratica e sono situate lontano dai cittadini influenzati dalle loro decisioni. In alcuni casi, rappresentanti democraticamente eletti sono stati cacciati e sostituiti da tecnocrati non chiamati a rispondere, come in Grecia e in Italia, sulla scia della crisi finanziaria del 2008, al fine di soddisfare le richieste del mercato e di precludere l’influenza democratica. La liberalizzazione dei mercati finanziari globali a partire dagli anni ’80 è stata particolarmente rimarchevole e ha un ruolo importante nello spiegare la crisi finanziaria del 2008.
In sintesi, il trionfo del neoliberismo dalla fine degli anni ’70 ha condotto a una crescita stagnante, a enormi disuguaglianze, alla finanziarizzazione dell’economia e a un’accresciuta corruzione. I rapporti di forza sono cambiati spettacolarmente a vantaggio dei mercati a spese di istituzioni democratiche indebolite, che in linea di principio sono divenute esecutrici delle richieste e delle preferenze del mercato.
Alternative C’è chi promuove e opera per un percorso di sviluppo diverso dal neoliberismo. Molte organizzazioni e partiti politici situati a sinistra dei socialdemocratici aderiscono a una qualche variante della visione mercato-socialista in cui alle istituzioni democratiche è dato maggior potere e influenza e i mezzi di produzione sono di proprietà comune della comunità o dei lavoratori, ma ci sono beni e servizi ancora distribuiti attraverso i mercati. Due dei più noti promotori delle teorie mercato-socialiste sono oggi David Schweickart (Democrazia economica) e Erik Olin Wright (Utopie reali).
Alcuni, come Gar Alperovitz e Richard D. Wolff, sottolineano la necessità di cominciare a fare esperimenti di democrazia su piccola scala ora, all’interno del sistema capitalista, se la democrazia deve funzionare su vasta scala. Secondo Alperovitz gli attivisti devono cominciare a prendere il controllo di imprese e a gestirle sotto forma di cooperative controllate dai lavoratori nel quadro del sistema di mercato capitalista. Mondragon in Spagna e Vio.me in Grecia sono spesso citati come esempi riusciti di imprese controllate dai lavoratori. Inoltre alcune regioni e municipalità stanno sperimentando procedure più democratiche di bilancio – chiamate bilancio partecipativo – in cui ai cittadini è data una maggiore influenza sull’allocazione dei beni pubblici della regione o della municipalità. Tali esempi servono da fonte d’ispirazione per molti e spesso riescono ad aumentare l’influenza democratica e (nelle aziende) a ridurre le differenze dei livelli di retribuzione tra i lavoratori più e quelli meno pagati.
Tuttavia le imprese esistenti in un ambiente istituzionale ostile sono sempre costrette a una corsa in salita per conservare i loro “principi cooperativi”, cioè una dedizione alla democrazia interna e a strutture salariali ugualitarie. Nel lungo termine rischiano o di doversi sempre più adattare a una logica di mercato capitalista con gerarchie decisionali interne autoritarie e di dover aumentare le differenze di remunerazione e così compromettere ogni progresso, oppure l’esaurimento dei loro membri che spesso devono assumersi sforzi e sacrifici extra, spesso con un compenso inferiore rispetto a occupazioni paragonabili, affinché le loro aziende sopravvivano nel mercato. La socialdemocrazia e i principali sindacati hanno a lungo accettato sia la proprietà privata sia i mercati. La loro strategia è consistita nell’aumentare il potere e l’influenza del sindacato sulle decisioni discusse e assunte nei consigli di amministrazione, senza mettere seriamente in discussione i diritti di proprietà e i diritti del proprietario alle decisioni finali. Questo significa, tra l’altro, che i principali sindacati hanno sempre avuto, e hanno tuttora, un atteggiamento ambivalente nei confronti del movimento cooperativo perché i membri delle coop opereranno sia come proprietari, che in un sistema capitalista di mercato sono soggetti alle richieste del mercato, sia come lavoratori i cui interessi fondamentali vanno contro la logica del mercato.
Che si preferisca una strategia socialdemocratica per controllare e limitare il mercato e aumentare l’influenza democratica sulla società, come nel periodo post-bellico, o si sia a favore di una visione mercato-socialista di più vasta portata in cui i mezzi di produzione sono di proprietà comune, qualsiasi potenziale conquista sarà limitata, richiederà sacrifici enormi e rischierà di essere cancellata fintanto che i mercati sono accettati come meccanismo dominante di allocazione, poiché mercati e democrazia sono fondamentalmente incompatibili. Gli imprenditori in cerca di profitto saranno costantemente alla ricerca di qualsiasi opportunità di nuovi affari, il che significa espandersi in aree geografiche e sociali nuove in precedenza non organizzate da mercati popolate da fornitori a fini di profitto.
Contraddizioni tra democrazia e mercato Nella misura in cui le decisioni su ciò che dovrebbe essere prodotto, consumato e investito in una società sono prese attraverso i mercati, tutte le parti influenzate dalle decisioni sono escluse dall’influenza ad eccezione dei compratori e venditori che stringono l’accordo. Da un punto di vista economico ciò non solo non è democratico, ma è anche inefficiente, poiché le risorse saranno distribuite in base a informazioni inaccurate e incomplete riguardanti i costi e benefici sociali delle alternative. Gli effetti a lungo termine, sull’ambiente e sulla salute, ad esempio, saranno sottovalutati o ignorati.
Inoltre se i dipendenti o i membri delle cooperative saranno assunti medianti negoziati sui mercati del lavoro il compenso per il lavoro – il reddito – sarà determinato in base al potere negoziale di chi lo cerca e/o alla capacità di contribuire alla produzione e alle entrate dell’impresa, indipendentemente da sforzo e sacrificio, determinando vaste disparità di reddito sia tra differenti categorie di lavoratori sia tra individui. Questo è iniquo perché sforzo e sacrificio sono i soli fattori che un lavoratore può influenzare direttamente, mentre altri fattori che determinano la produttività di un lavoratore sono fuori dal suo controllo, come la qualità degli strumenti di lavoro, i talenti, i geni, la fortuna e così via. Questo è vero indipendentemente dal fatto che i mezzi di produzione siano di proprietà privata o comune. Se una società è capitalista, cioè se i mezzi produttivi e finanziari sono di proprietà privata, la disuguaglianza di reddito e la concentrazione della ricchezza sono amplificate, poiché il proprietario del capitale riceve un reddito senza svolgere alcun lavoro – profitti – e quanto maggiore è il capitale tanto più elevato è il profitto. Il reddito a sua volta determina (1) la possibilità per l’individuo di accedere a beni e servizi, e (2) la sua possibilità di “votare” per ciò che dovrebbe essere prodotto e per quali investimenti dovrebbero essere fatti in una società in conformità al principio “un dollaro, un voto”. Nelle democrazie capitaliste, persino l’influenza politica formale è in larga misura determinata da differenze di reddito e di patrimoni, nonostante l’idea che tale influenza dovrebbe essere democraticamente “una persona, un voto”. Estesi patrimoni finanziari introducono molte opportunità di esercitare potere politico, ad esempio mediante donazioni e attività di pressione.
I mercati compromettono anche le competenze e le capacità che sono necessarie per un processo veramente democratico, ad esempio la capacità di assumere decisioni collettive e provare empatia e solidarietà per gli altri. I mercati sono contesti sociali che premiano certe caratteristiche, quali egoismo, insensibilità e indifferenza mentre solidarietà ed empatia sono punite. Sono premiati quelli che sfruttano in modo più efficace i loro simili. Infine la concorrenza sul mercato significa che i luoghi di lavoro devono sempre dare priorità a risparmiare sui costi, anche in casi in cui le attività sono redditizie, il che a sua volta agevola strutture decisionali gerarchiche in cui i capi sono assunti per prendere “decisioni dure” a detrimento dei lavoratori comuni, poiché il luogo di lavoro deve sempre, soprattutto, essere competitivo.
Un’alternativa democratica non di mercato L’idea che non ci siano meccanismi di allocazioni alternativi al mercato è oggi diffusa, persino all’interno di vasti strati della sinistra, il che è uno dei principali ostacoli alla creazione di un’economia democratica ed equa. C’è tuttavia il diritto di essere scettici riguardo a visioni non capitaliste, considerati i tentativi falliti di socialismo di stato nel ventesimo secolo e le odierne visioni alternative non capitaliste devono essere una chiara alternativa sia ai mercati sia alla pianificazione centrale autoritaria. La sfida consiste nel trovare una soluzione che distribuisca potere e influenza a lavoratori e consumatori e allo stesso tempo protegga gli interessi di altri gruppi nell’economia che sono toccati dalle loro decisioni e azioni. Lo stesso vale nella sfera politica. Nel ventesimo secolo non c’è stato, sotto nessun aspetto, alcun tentativo di far progredire e sviluppare i principi fondamentali della democrazia parlamentare in direzione di un processo decisionale più partecipativo. Perciò il lavoro per un’economia più democratica è collegato in modo cruciale alla politica che mira a superare e far progredire la democrazia parlamentare. Lo scopo è una democrazia partecipativa con minor rappresentanza indiretta e con le persone che abbiano una maggior voce in capitolo effettiva sul processo decisionale delle loro comunità.
In un’economia la maggior parte delle decisioni economiche avrà effetti su molte persone, ma in gradi diversi, e la sfida consiste nel dare a lavoratori e consumatori autodeterminazione sulle loro azioni nella misura appropriata. In un’economia democratica, nella quale l’obiettivo è l’autogestione, non c’è spazio per proprietari privati di capitale o azionisti che possiedono fabbriche e altre risorse produttive, che controllano che cosa è prodotto e come la produzione è organizzata e perseguono profitti massimi da investimenti privati senza considerazione per gli effetti negativi per altri gruppi della società. Né c’è spazio per banche private o altri creditori che controllano l’accesso a opportunità d’investimento per quelli che non dispongono di fortune proprie. Non possono esserci gruppi di lavoratori la cui unica funzione consiste nell’obbedire a ordini o eseguire esclusivamente compiti monotoni e ripetitivi, mentre altri lavoratori prendono tutte le decisioni e monopolizzano compiti che danno accesso a informazioni e potere. Ogni differenza di reddito deve essere limitata e basata solo su differenze di sforzi e sacrifici e non su differenze in fattori che sono oltre il controllo umano.
Ogni alternativa democratica perseguibile nel lungo termine al sistema del mercato deve (i) essere realmente democratica mettendo quelli che sono toccati da decisioni economiche in grado di aver voce in capitolo attraverso una struttura dal basso di federazioni industriali e geografiche; (ii) essere decentrata, senza alcuna burocrazia di pianificazione centrale; (iii) generare le informazioni necessarie per rivelare i costi e benefici reali di differenti scelte, compreso l’impatto sugli altri e sull’ambiente e, infine, (iv) incoraggiare la partecipazione senza comportare eccessivo dispendio di tempo o essere eccessivamente noiosa.
Un esempio di tale alternativa è il modello di economia partecipativa sviluppato dagli economisti Michael Albert e Robin Hahnel. Informazioni sul modello si possono trovare presso www.participatoryeconomics.info.
N.d.t.: una discreta quantità di materiale è stata tradotta e pubblicata qui, su znetitaly. Digitare nel campo ricerca i nomi degli autori o la voce economia partecipativa.
Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/democracy-vs-markets/
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