Il buddhismo theravada letteralmente "la scuola degli anziani" è la forma di buddhismo dominante nell'Asia meridionalee nel Sud-est asiatico, in modo particolare in Sri Lanka, Thailandia, Cambogia, Birmania e Laos. È la più antica scuola buddhista tra quelle tuttora esistenti, originata da una delle prime e più importanti scuole nate dall'insegnamento di Siddhartha Gautama, in particolare dalla dottrina Vibhajyav?da "dottrina dell'analisi", a sua volta originatasi intorno al III secolo a.C. da una divisione dalla scuola Sthavirav?da o "scuola degli anziani", entrambe due scuole del buddhismo dei Nik?ya.


Originale: The Conversation

http://znetitaly.altervista.org/

20 novembre 2017

 

Il buddismo militante è in marcia

di Peter Lehr

Traduzione di Maria Chiara Starace

 

Anche dieci anni dopo, l’immagine che viene in mente riguardo al Buddismo Therav?da, è quella della Rivoluzione Zafferano nel Myanmar dell’Agosto-Settembre 2007: migliaia di monaci buddisti che manifestavano pacificamente nelle strade di Yangon, Mandalay, Pakokku, Sittwe e di altre città contro la giunta militare che governava. Questi monaci pacifici esistono ancora, anche se molti di loro si erano nascosti o erano fuggiti all’estero. I monaci birmani, però, che appaiono sulle prime pagine dei giornali, oggi predicano la violenza invece della pace, “l’azione decisa” invece della meditazione.

Non è soltanto il fatto che in Myanmar il Buddismo militante è in aumento: sta anche emergendo in altri due dei principali paesi dove esiste il Buddismo Therav?da: Sri Lanka e Tailandia. In tutti questi tre paesi i Buddisti costituiscono la vasta maggioranza della popolazione: il 70%  Sri Lanka, l’88% in Myanmar e il 93% in Tailandia. Si potrebbe essere scusati di pensare che non ci sia nulla per cui preoccuparsi: con tale rilevante prevalenza demografica, i Buddisti sono certamente protetti e sicuri in qualche misura nei loro rispettivi paesi.

Questo non è il modo in cui i monaci militanti vedono le cose. Sono convinti che il Buddismo sia sotto assedio e in grave pericolo di essere spazzato via. Per spiegare questo, fanno notare che, mentre i Musulmani o i Tamil induisti (nel caso di Sri Lanka) sono in minoranza in questi paesi, godono, invece di un importante sostegno da paesi che sono al di là dei loro confini nazionali.

In Sri Lanka e in Myanmar, l’dea che una minoranza non-buddista sia l‘avanguardia di un’imminente invasione, è davvero molto forte. Si crede che si debba  agire risolutamente per impedire “loro” di prendere il controllo delle terre buddiste e di sradicare il Buddismo. Fondamentalmente, i monaci militanti considerano le loro comunità come obiettivi di una “guerra santa” implacabile e di considerarla come loro dovere, per replicare con la stessa moneta, con la loro propria variante di “guerra santa”.

 

Giustificare la violenza

La convinzione che il Buddismo sia sotto minaccia permette anche a questi leader di giustificare l’uso della violenza. I monaci militanti di solito cominciano la loro argomentazione facendo notare che anche il Budda stesso dimostrava una certa comprensione delle guerre condotte dal suo benefattore Re Paenadi, invece di condannarle. Lo avvertiva, però, che “uccidendo guadagni il tuo uccisore, conquistando,  guadagni che ti conquisterà”: il messaggio era che la violenza genera violenza. Anche per il Budda, quindi, la non violenza non era necessariamente un valore assoluto – un punto sfruttato da molti dei monaci militanti di oggi. Anche se prontamente ammettono che un uso offensivo della violenza non dovrebbe essere mai permesso, fanno notare che le comunità buddiste pacifiche e non violente hanno ancora il diritto di difendersi, specialmente se e quando la sopravvivenza della religione in quanto tale è a rischio.

Il punto di vista è datato.  Non appena nacquero gli stati in maggioranza buddisti, il monachesimo dovette trovare le sue strade per giustificare la violenza, specialmente quella perpetrata dal loro virtuoso sovrano contro un rivale. In effetti è stato per la benevolenza del sovrano e con la leggere e l’ordine che creava, che l’ordine monastico è stato in grado di sopravvivere.

Un esempio antico di tale giustificazione viene dal Sinhalese Mah?vamsa (La Grande Cronaca): dopo una battaglia contro un esercito di Tamil induisti, il re buddista Dutug?munu provò rimorso per tutte le morti che aveva causato e chiese consiglio ai monaci anziani. Fondamentalmente gli risposero di non preoccuparsi dato che aveva causato la morte soltanto di una persona e mezza: una che si era appena convertita al Buddismo, e un’altra che era stato un seguace laico del Buddismo. Tutti gli altri erano stati soltanto “non credenti e uomini che avevano avuto una vita cattiva […], che non dovevano essere stimati più delle bestie”.

Questo importante verdetto implica che uccidere è scusabile fino a quando l’intenzione che ha dietro è in difesa della religione. Non sorprende che questa citazione sia ancora usata per legittimare l’uso della violenza – ultimamente da parte di Sitagu Sayadaw, lo stimato leader di un ordine monastico birmano, per giustificare l’attuale persecuzione di persone percepite come nemici sia dello stato che della religione – in questo caso, i Rohingya.

Sanzionare le azioni violente di un sovrano o di un governo, è una cosa; incitare attivamente i seguaci laici a compiere tali atti in difesa della religione, è un qualcosa di completamente diverso. Paragonati ai “predicatori di odio” delle religioni abramitiche*, i monaci militanti di oggi hanno una difficile corda su cui camminare, dato che l’incitamento a uccidere costituisce una delle quattro trasgressioni (p?r?jiikas) in seguito alle quali si deve lasciare l’abito, cioè, trasgressioni che hanno come conseguenza l’automatica espulsione dalla vita monastica. A settembre, per esempio, un monaco tailandese è stato costretto a lasciare l’abito perché aveva pubblicamente richiesto che per ogni monaco ucciso nel profondo sud della Tailandia, si sarebbe dovuto dare fuoco a una moschea.

La maggior parte dei monaci militanti sono, perciò, molto attenti a evitare chiari inviti alla violenza; partecipano, invece, a dimostrazioni di massa per alimentare i sentimenti anti-musulmani e a predicare la “resistenza passiva” o “l’azione affermativa pro-Buddismo”: non comprare dai Musulmani, non vendere a i Musulmani, non fraternizzare con i Musulmani, non permettere ai propri figli di sposare i Musulmani. Lasciano che siano i loro seguaci, specialmente quelli organizzati in gruppi di vigilanti favorevoli al governo o le milizie buddiste, a trarre le giuste conclusioni.

Anche se ci sono prove aneddotiche di monaci armati che prendono attivamente parte alla violenza, la maggior parte dei monaci militanti evitano un coinvolgimento diretto: sarebbe una forma altrettanto grave del codice monastico. Ashin Wirathu, monaco e leader del movimento birmano anti-musulmano, descrive in maniera molto eloquente questo ruolo passivo: “Sto soltanto dando consigli alla gente riguardo ai Musulmani. Considerate che sia come avere un cane che abbaia agli estranei che vengono a casa vostra: lo fanno per avvertirvi. Io sono come quel cane. Abbaio.”

L’ascesa di questa forma di Buddismo Therav?da può essere spiegata in termini etnici, sociali ed economici, ma dal punto di vista dei monaci militanti stessi, riguarda la religione. Non si tratta del  controllo delle risorse o i beni terreni, ma di una “guerra santa” difensiva o del “Dhamma Yudhaya” come risposta a una “jihad” aggressiva contro il buddismo che è stata combattuta per secoli, dalla distruzione della biblioteca buddista a  Nalanda, nello stato del Bihar alla fine del 12° secolo, alla distruzione dei famosi Budda di Bamyan (Afghanistan) nel marzo 2001.

Questa lettura alquanto semplicistica della storia, che ricorda la tesi di Samuel P. Huntington sullo “scontro di civiltà”, rafforza la convinzione dei monaci militanti che è adesso è il momento non per la meditazione pacifica, ma per un’azione decisa. L’avvertimento del Budda che la violenza genera violenza, in questi tempi sembra essere caduta nel vuoto

 

nota

https://it.wikipedia.org/wiki/Religioni_abramitiche

 


Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/militant-buddhism-is-on-the-march

 

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