Originale: Links.org

http://znetitaly.altervista.org

19 Ottobre 2017

 

Comprendere la crisi dei Rohingya

di Lionel Bopage

President at Australian Advocacy for Good Governance in Sri Lanka

Traduzione di Maria Chiara Starace

 

I Rohingya sono la più grande comunità del mondo senza patria. La maggior parte di loro vive nello stato costiero occidentale di Rakhine, uno degli stati più poveri del Myanmar. La maggior parte dei Rohingya sono musulmani e per secoli hanno vissuto nel Myanmar a maggioranza buddista. I Rohingya parlano il Rohingya o Ruaingga, un dialetto che è diverso da altri dialetti parlati nello Stato di Rakhine e nel Myanmar. Non sono considerati uno dei 135 gruppi etnici ufficiali del paese ed è stata loro negata la cittadinanza in Myanmar fin dal 1982, cosa che li ha di fatto resi senza patria. Fin dall’agosto 2107, più di mezzo milione di Rohingya sono fuggiti dal Myanmar in Bangladesh.

Di recente vari monaci buddisti a Sri Lanka hanno protestato fuori da un ricovero che ospita 31 rifugiati, per lo più donne e bambini. In aprile la marina militare dello Sri Lanka ha soccorso questi rifugiati che erano a bordo di una barca nelle acque di quell’isola.

La situazione del Myanmar può essere paragonata, ma è molto peggiore, a quella che è esistita a Sri Lanka per circa 50 anni. Le ben note rivolte del Luglio Nero sono state una ‘reazione’ ben pianificata all’uccisione di 13 soldati dell’esercito di Sri Lanka, nel luglio 1983, per mano delle Tigri per la liberazione della patria Tamil (LTTE). La violenza che fu  scatenata non soltanto aiutò le LTTE a ingrossare i suoi ranghi, ma rese anche  internazionale il conflitto con un esodo in massa di Tamil verso la loro patria nel nord e nell’est e poi oltremare.

Le circostanze storiche che hanno portato il Myanmar all’attuale pantano, hanno molti paralleli a Sri Lanka. Come Sri Lanka, il Myanmar era sotto il dominio coloniale britannico. La strategia di dominazione in entrambi i paesi era quella di “Dividi e Governa”. Fina dalla loro rispettiva indipendenza dal dominio coloniale, sia Sri Lanka che il Myanmar hanno percorso strade simili. Non si è mai cercato di unire comunità diverse per costruire una nazione concorde. Sono state prese misure che alcuni gruppi etnici come i Tamil e i Musulmani hanno considerato discriminatorie, come privare del voto i lavoratori nelle tenute agricole, colonizzare la terra, rendere il Sinhala la lingua ufficiale e allo stesso tempo trascurando la lingua Tamil, standardizzare l’istruzione e fare discriminazioni nelle assunzioni e negli avanzamenti di carriera. La divisione, la polarizzazione e  l’esclusione dell’altro ne sono stati i frutti amari.

 

Il dominio coloniale britannico 

Durante più di 100 anni di dominio britannico, il Mynamar è stato amministrato come una provincia dell’India. Non esisteva nessun confine internazionale tra Bengala ed Arakan e non c’erano restrizioni alla migrazione tra le regioni. Sembra che i Musulmani abbiano vissuto nel Myanmar già nel 12° secolo. I Rohingya hanno vissuto nello stato dell’Arakan (conosciuto ora come Rakhine) per un tempo molto lungo.

La politica coloniale britannica ha incoraggiato gli abitanti bengalesi delle regioni adiacenti a migrare nell’Arakan come braccianti agricoli. Le ondate di migrazione furono principalmente dovute alla richiesta di lavoro a poco costo per sovrapporre l’economia capitalista all’organizzazione di tipo feudale che prevaleva in Myanmar.

Nel 17° secolo, molti Rohingya forse  sono  entrati in Myanmar per  queste politiche. La maggior parte dei ‘nativi’ consideravano negativamente la migrazione dei lavoratori.

I Rohingya sostengono di essere Arakan del Myanmar occidentale, influenzati dalla cultura araba, moghul e portoghese. La lingua Rohingya è considerata parte di un sub-ramo  della più ampia famiglia linguistica ino-europea. E’ collegata al dialetto  cittagonio (della città di Chittagong, in Bangladesh) parlato nella parte più meridionale del Bangaldesh ai confini con il Myanmar. Sia il Rohingya che il Cittagonio sono collegati al Bengali.

 

Gli insediamenti musulmani

L’Arakan era un centro chiave del commercio marittimo e degli scambi culturali. Dall’ottavo secolo in poi sembra che molta gente locale si sia convertita all’Islam, grazie alle attività missionarie arabe. I Rohingya praticano l’Islam sunnita.

Come in Sri Lanka, ci sono diverse versioni della storia che si narrano in Myanmar. In una versione, diversa dalle conversioni, i mercanti arabi sposavano le donne locali e si sistemavano nell’Arakan, cos che fece aumentare la popolazione musulmana. I

Rohingya credono di discendere da queste prime comunità.

 

In un’altra versione, si dice che gli abitanti del Rakine siano una delle tribù del Popolo Pyu che parlava una lingua tibeto-birmana e che cominciarono a migrare nell’Arakan attraverso i monti Arakan nel nono secolo e che fondarono varie città nella regione. Le forze birmane hanno invaso le città del Rakhine nel 1406. Questo avvenimento ha costretto i governanti del Rakhine a cercare rifugio in Bengala. Dopo essere stati in esilio, ritornarono nell’Arakan nel 1430 con l’assistenza militare bengalese. I Bengalesi che arrivarono con i Rakhine formarono i loro insediamenti nella regione.

 

All’inizio del 19° secolo, migliaia di Bengalesi si sono insediati nell’Arakan per cercare lavoro. Non è chiaro se i nuovi migranti bengalesi fossero gli stessi che sono stati deportati in Bengala durante le conquiste birmane e che poi sono ritornati in seguito per via della politica britannica, o se erano una nuova popolazione di migranti senza radici ataviche con l’Arakan. Anche se i Rohingya fanno risalire le loro origini ai Musulmani che erano vissuti nell’Arakan nel 15° e 16° secolo, la maggior parte dei Rohingya è forse arrivata durante il dominio coloniale britannico nel 19° e 20° secolo. Secondo il Gruppo Internazionale di Crisi, questi immigrati erano Rohingya dislocati dalla Seconda  guerra mondiale.

 

Cominciarono a ritornare nell’Arakan dopo l’indipendenza della Birmania ma furono stati considerati immigrati illegali.

L’impatto dell’immigrazione è stato particolarmente forte nell’Arakan. Ha dato impulso all’economia locale, ma gli Arachenesi ne risentirono molto. I Birmani che vivevano sotto il dominio britannico si sentivano impotenti. Reagirono con un razzismo che mise insieme i sentimenti sia di superiorità che di paura. Provocarono un nazionalismo birmano basato sulle loro radici. Mentre il nazionalismo birmano si affermava sempre di più prima della II Guerra mondiale, la presenza indiana e la religione musulmana ‘importata’ con loro, cominciarono a subire degli attacchi. All’inizio degli anni ’30 ci furono gravi disordini contro gli Indiani e nel 1938 ci furono sommosse specificamente dirette contro la comunità indiana musulmana. I Musulmani dell’Arakan settentrionale furono coinvolti in questo fuoco incrociato.

 

La strategia del “dividi ei impera”

I nazionalisti birmani hanno appoggiato i Giapponesi durante la II Guerra mondiale. I Musulmani fuggirono dalle aree a maggioranza buddista controllate dai Giapponesi, verso l’Arakan settentrionale controllato dai Britannici e dominato dai Musulmani. I massacri del 1942 nell’Arakan hanno comportato violenza comune tra le reclute Rohingya armate dai Britannici e i Rakhine favorevoli ai Giapponesi. La situazione ha radicalizzato l’intera regione, comprese altre parti della Birmania, lungo linee etniche. Con  la ritirata dei Britannici, i Giapponesi si sono avvicinati all’Arakan e i Buddisti hanno provocato la violenza contro i  Musulmani. L’esercito giapponese ha commesso stupri, omicidi e torture contro i Musulmani nell’Arakan. Molti sono stati uccisi o sono morti di fame e migliaia sembra che siano fuggiti.

 

Come reazione, i Musulmani hanno condotto attacchi di rappresaglia dalle zone controllate dai Britannici, facendo in modo che i Buddisti fuggissero nell’Arakan meridionale. I Britannici formarono Forze Volontarie denominate “V-Force”, costituite da Rohingya. Alcuni rapporti dichiarano che questa “V-Force” distrusse i luoghi buddisti di culto e che commisero atrocità nell’Arakan settentrionale, invece di combattere i Giapponesi. Le reclute Rohingya si impegnarono in una campagna contro le comunità dell’Arakan. I Britannici avevano promesso ai Rohingya una “area musulmana anonima” se combattevano a fianco dei Britannici contro i Giapponesi. Nel 1948, tuttavia, quando i Britannici lasciarono il Myanmar, i Rohingya  non ottennero una zona autonoma.

Non essendo stato loro concesso quello che i Britannici avevano promesso, i Rohingya Musulmani erano preoccupati di un futuro governo dominato dai Buddisti. Nel 1946, i capi musulmani dell’Arakan chiesero l’aiuto di Ali Jannah  (il politico pachistano considerato il padre fondatore del Pakistan, n.d.t.) per aggiungere la zona Rakhine al Pakistan, data l’affinità religiosa e la vicinanza geografica. Fondarono  anche  la Lega Musulmana dell’Arakan settentrionale. Jinnah non volle interferire nelle faccende interne della Birmania. Dopo il suo rifiuto, alcuni anziani Rohingya

Fondarono il Partito Mujahid nell’Arakan settentrionale allo scopo di creare uno stato musulmano autonomo.

 

Fin dall’Indipendenza

Nel 1947, due indiani dell’Arkhan furono eletti all’Assemblea Costituente della Birmania. U Nu andò al potere proprio prima dell’Indipendenza, in seguito all’assassinio del grande eroe della resistenza della Birmania, leader dell’indipendenza e fondatore del Partito Comunista della Birmania, Aung San (defunto padre della attuale leader di fatto, San Suu Kyi) e dei suoi ministri in un tentativo di colpo di stato compiuto dall’ex Primo Ministro, U Saw. Sotto la leadership di U Nu, Burma rimase una democrazia dal 1948 al 1962. Il suo regime riconobbe la  “Rohingya” come una nazionalità etnica indigena, ma questo termine non fu usato largamente fino agli anni ’90.

 

Il Parlamento del Myanmar promulgò la legge di Cittadinanza dell’Unione che definiva quali etnie potevano ottenere la cittadinanza. I Rohingya furono esclusi. La legge, tuttavia, permetteva a coloro le cui famiglie avevano vissuto in Myanmar per almeno due generazioni, di fare richiesta della carta di identità. Ai Rohingya inizialmente fu data questo documento di identificazione o perfino la cittadinanza in base a una disposizione  generazionale. Nel 1950, alcuni Rohingya inscenarono una ribellione contro le politiche del governo, esigendo la cittadinanza e chiedendo lo stato che i Britannici avevano promesso.

 

Il Parlamento continuò ad avere legislatori Rohingya: nel 1951 furono eletti cinque Rohingya e sei nel 1956. Alcuni di loro svolsero la funzione di ministri, di segretari parlamentari e di funzionari governativi con alte posizioni nel gabinetto del primo Ministro U Nu. Durante la campagna elettorale del 1960, il primo Ministro U Nu promise di includere tutto l’Arakan in una sola provincia. Dopo l’elezione generale, U Nu fondò una zona amministrativa separata per le zone del nord dell’Arakan a maggioranza Rohingya che fu chiamata Distretto di Frontiera Mayu. La zona veniva amministrata direttamente dal governo nazionale della Birmania.

 

Colpo di stato “socialista”

Nel marzo 1962, Il Generale U Ne Win, che iniziò la sua carriera combattendo per i Giapponesi nella II Guerra mondiale, ottenne il potere e questo fatto pose fine al sistema politico di governo di stile Westminster. Il domini autoritario dell’esercito che ha abbracciato 26 anni, aveva creato uno stato di polizia co arresti in piena notte, carcerazione senza processo, una stampa controllata e un brutale Servizio di Intelligence militare. Tutti i cittadini dovettero ottenere delle tessere di registrazione nazionali. Ai Rohingya vennero date soltanto carte di identità straniere, così potevano perseguire soltanto limitate opportunità di lavoro e di istruzione. I militari confiscarono la terra arata dei Rohingya e diedero questa terra espropriata ai coloni buddisti che arrivavano da fuori regione.

Il regime militare ha fatto molto affidamento sull’uso del nazionalismo birmano e del Buddismo Theravada per rinforzare il suo dominio. Per rimanere al potere, il regime militare non soltanto fece discriminazioni nei confronti delle minoranze, ma contribuì anche a provocare rivolte guidate dai Buddisti. Il nuovo regime effettuò operazioni militari contro i Rohingya per oltre 20 anni. Nel 1978, fu dato il via a un’operazione militare su vasta scala denominata “Re Dragone”, per espellere quelli che chiamavano gli insorti Rohingya. Questa operazione costrinse centinaia di migliaia di persone a fuggire nei vicini Bangladesh, Pakistan, Malesia e Tailandia.

 

Nel 1978, il Bangladesh ha protestato con il governo della Birmania per avere espulso migliaia di Musulmani birmani. Malgrado l’argomentazione birmana che le persone espulse erano abitanti del Bangladesh che risiedevano illegalmente in Birmania, no fornirono alcuna prova per verificare queste asserzioni. Il regime birmano in sostanza ha accettato di riprendersi 200.000 rifugiati che si erano stabiliti nell’Arakan. Una dichiarazione congiunta del Myanmar e del Bangladesh all’epoca e poi ripetuta nel 1992, riconosceva che i Rohingya erano residenti birmani legali. Malgrado l’uso del verbo al passato, il regime militare continua a rifiutarsi di usare il termine Rohingya per identificarli adesso.

 

La legge di Nazionalità del Myanmar del 1982

La legge di Nazionalità del Myanmar del 1982 ha spogliato i Rohingya retrospettivamente della loro cittadinanza e li ha resi  apolidi. Le legge richiedeva che la famiglia di una persona avesse vissuto in Myanmar prima del 1948 e che parlasse fluentemente la lingua nazionale. Molti Rohingya mancavano di modulistica che non era disponibile o che veniva loro negata. Per essere un cittadino, i suoi antenati avrebbero dovuto appartenere a una razza nazionale o a un gruppo prima del dominio britannico del 1823.  I Rohingya sono stati dichiarati stranieri bengalesi, malgrado che la loro presenza risalisse al 12° secolo.

I diritti dei Rohingya di studiare, lavorare, viaggiare, sposarsi, praticare la propria religione e di potere accedere all’assistenza sanitaria, erano limitati, dato che negavano loro  la possibilità futura di ottenere la nazionalità. Non possono comprarsi una proprietà o candidarsi a una carica. A oggi, nel 2017, la Birmania non ha neanche un solo Deputato Rohingya. I Rohingya non hanno diritti di voto e sono soggetti a varie forme di estorsione, di tassazione arbitraria, di confisca delle terre, di sfratto obbligato, di distruzione delle abitazioni, di limitazioni dei matrimoni e di bambini

messi su una lista nera. Anche se in qualche modo diventano “naturalizzati”, viene loro impedito di accedere  professioni in ambito medico e legale. Il loro tasso di analfabetismo è di circa l’80%.

 

I movimenti pro-democrazia

I leader della comunità Rohingya hanno sostenuto  la “insurrezione 8888” che era stata organizzata e  in gran parte guidata da studenti universitari. Nota anche come Insurrezione del Potere del Popolo e come Movimento di Democrazia del Popolo, ha portato a una serie di proteste, dimostrazioni e disordini in tutta la nazione che sono culminati l’8 agosto 1988 (da qui il nome insurrezione 8888”). Nelle elezioni generali che si sono tenute nel 1990, il Partito Nazionale Democratico per i Diritti Umani, guidato dai Rohingya, ottenne 4 seggi.  La Lega Nazionale per la Democrazia, si Aun San Suu Kyi, vinse le elezioni, ma  fu messa agli arresti domiciliari per impedirle di diventare Primo Ministro. La giunta militare birmana, nel 1992 mise al bando il Partito Nazionale Democratico per i Diritti Umani. I suoi leader furono arrestati, messi in carcere e torturati.

 

La prima costituzione dell’Unione della Birmania fu promulgata nel 1947. Dopo il colpo di stato del 1962, fu promulgata una seconda costituzione nel 1974. La Costituzione del 2008 è la terza ed attuale costituzione, in base alla quale le forze armate del Myanmar controllano ancora gran parte del governo del paese, compresi i ministeri degli interni, della difesa e delle questioni riguardanti i confini. Un Vice Presidente e il 25% dei seggi in Parlamento vengono dai militari e quindi i leader civili del paese, come Aung San Suu Kyi, hanno scarsa influenza sull’establishment della sicurezza.

 

Durante i 60 anni del dominio militare, per i Rohingya le cose peggiorarono. Affrontarono giri di vite dei militari nel 1978, 1991-92. 2012. 2015, 2016 e ora nel 2017. Fin dagli anni ’90, sembra che sia emerso un nuovo movimento Rohingya. Questo movimento procura pubblicità al termine ‘Rohingya’, rifiuta di essere rappresentato come nato dal Bengala, e con la loro diaspora fa pressione a livello internazionale.

 

Paure diffuse tra i Rakhine buddisti che sarebbero presto diventati una minoranza, contribuirono agli scontri del 2012 i Rohingya musulmani e i Rakhine etnici. Si dice che questi ultimi siano stati favoriti e armati dalla capitale dello stato Rakhine. Facendo appello ai Rakhine di difendere la loro “razza e religione”, il regime sembra avere incitato a fare questo massacro, sebbene il regime lo abbia negato.

 

Il regime impose un coprifuoco, schierò le truppe e nel giugno 2012 impose uno stato di emergenza nel Rakhine. Il regime, tuttavia, non ha mai perseguito nessuno per gli attacchi contro i Rohingya che erano considerati una minaccia per l’identità nazionale. Circa 140.000 Rohingya sono rimasti confinati nei campi profughi e sono stati sottoposti a detenzione arbitraria, assalti, stupri, torture, incendi doloso e uccisioni. Le forze di sicurezza hanno chiuso le loro organizzazioni sociali e politiche. Il fatto che il  governo sia subentrato nelle loro aziende private, ha debilitato finanziariamente i Rohingya.

 

La minoranza più perseguitata 

Nel 2013 le Nazioni Unite hanno riconosciuto che i Rohingya sono la minoranza più perseguitata del mondo. Il censimento del 2014 in Myanmar non ha incluso i Rohingya dato che erano classificati come Musulmani apolidi del Bangladesh.

Molti Rohingya considerano questo come una negazione dei loro diritti fondamentali.

Anche l’inviato speciale dell’ONU per i Diritti Umani, in Myanmar è stato d’accordo su questo. Nel 2015, molte migliaia di Rohingya sono fuggiti in barca attraverso le acque dello Stretto di Malacca e del Mare delle Andamane. L’ONU stima che soltanto dal gennaio al marzo 2015, circa 25.000 persone siano fuggite usando le barche. Un numero di rifugiati stimato in 3000, sono stati soccorsi o sono riusciti ad arrivare a terra, mentre varie migliaia si pensa che siano rimasti intrappolati sulle barche in mare. Sembra che 100 siano morti in Indonesia, 200 in Malesia e 10 in Tailandia.

 

L’ONU ha adottato un risoluzione per organizzare ina missione internazionale indipendente per indagare sui presunti crimini. Tuttavia, il Myanmar è stato riluttante a permettere all’ONU di investigare o ad accettare investigatori dell’ONU. Hanno negato i visti a membri di un’indagine  dell’ONU che volevano indagare sulla violenza e i presunti abusi nel Rakhine. L’ONU ha fatto appello a Aung San Suu Kyi e alle forze di sicurezza dell’ONU di porre fine alla violenza e ha etichettato le operazioni di sicurezza come un “esempio da libro di testo di pulizia etnica”. L’ONU ha anche avvertito di una imminente “catastrofe umanitaria”.

 

In base a un piano originariamente introdotto nel 2015, il Bangladesh voleva spostare i cittadini del Myanmar privi di documenti in un’isola remota che è soggetta a inondazioni durante il monsone ed è considerata inabitabile. L’ONU è preoccupato anche per questo controverso  e forzato trasferimento. Il primo ministro del Bangladesh ha definito “genocidio” la violenza contro i Rohingya. La sua Commissione Nazionale per i Diritti Umani stava considerando di fare pressione affinché  un tribunale internazionale si pronunci contro l’esercito del Myanmar in base ad accuse di genocidio.

 

La Commissione per il  Rakhine 

Nel settembre 2016, Aung San Suu Kyi  ha incaricato una  commissione consultiva (la Commissione per il Rakhine) guidata da Kofi Annan di trovare dei modi per guarire le divisioni di vecchia data e ha detto che il governo si  avrebbe attenuto alle sue risultanze. Tuttavia non ci fu alcun mandato di indagare su casi specifici di violazione dei diritti umani. Nell’ottobre 2016, furono attaccati tre posti di frontiera lungo il confine del Myanmar con il Bangladesh. Gli insorti rubarono varie dozzine di armi da fuoco e  casse di munizioni. La conseguenza fu l’uccisione di vari funzionari della sicurezza. Le truppe si riversarono nei villaggi nello Stato di Rakhine provocando un giro di vite più severo sui villaggi dove vivevano i Rohingya.

 

Nell’agosto 2017, la Commissione comunicò le sue raccomandazioni. Il rapporto chiedeva misure che avrebbero migliorato la sicurezza in Myanmar per i Rohingya, ma non permise tutte le misure che varie fazioni Rohingya chiedevano.

 

Secondo l’esercito del Myanmar, l’Esercito per la salvezza dei Rohingya (ARSA) ha lanciato vari e molteplici attacchi coordinati contro gli avamposti della polizia e le guardie di confine, subito dopo. Questo ha scatenato l’attuale catastrofe umanitaria. In seguito agli attacchi, l’esercito e alcuni estremisti Buddisti hanno iniziato un rilevante giro di vite per i Musulmani Rohingya nella zona occidentale dello stato di Rakhine.

 

Il regime nello stato di Rakhine in origine ha dato la colpa a un gruppo islamista di insorti. Tuttavia l’ARSA e altri sei gruppi ne hanno rivendicato la responsabilità. La reazione dell’esercito ha avuto come conseguenza violazioni dei diritti umani su vasta scala comprese uccisioni extragiudiziali, stupri di gruppo, incendi doloso e altre azioni brutali. L’ONU, Amnesty International, il Dipartimento di Stato americano e il governo della Malesia hanno criticato il giro di vite dei militari. Il regime ha detto che avevano “il diritto di difendere il paese con mezzi legali” contro “le crescenti attività terroristiche”, e ha aggiunto che era sufficiente un’indagine nazionale. Il regime ha spesso limitato l’accesso ai giornalisti e ai gruppi di assistenza agli stati del Rakhine settentrionale.

 

Le risultanze della Commissione hanno spinto il regime a mettere fine al giro di vite altamente militarizzato nelle zone dove vivono i Rohingya e a mettere da parte le limitazioni al movimento e alla cittadinanza. L’ONU dice che molto probabilmente l’esercito ha commesso gravi violazioni dei diritti umani che possono equivalere a crimini di guerra, cosa che il governo ha negato. L’ONU ha sostenuto le risultanze e ha spinto il governo ad adempiere alle sue raccomandazioni. Il governo del Myanmar ha accettato le raccomandazioni e ha promesso di dare a queste “piena considerazione

con l’idea di metterle in pratica…in linea con la situazione sul terreno”. Nulla, comunque, finora è stato  fatto.

 

L’ONU crede che siano state uccise oltre 1000 persone fin dall’ottobre del 2016, contraddicendo quindi il bilancio delle vittime fornito dal regime. Nel settembre 2017, l’ARSA ha dichiarato un temporaneo cessate il fuoco unilaterale, ma il governo del Myanmar non ha preso in considerazione questo gesto, dicendo: “Non negoziamo con i terroristi”.  Il portavoce della presidenza del Myanmar ha annunciato che il Myanmar avrebbe istituito una nuova commissione per mettere in atto alcune raccomandazioni della Commissione per il Rakhine. Aung San Suu Kyi è stata particolarmente criticata per la sua inazione e il suo silenzio e per non aver fatto molto per impedire gli eccessi dell’esercito. Verso la fine del mese, Aung San Suu Kyi ha condannato tutte le violazioni dei diritti umani nel Rakhine, ma non ha mai menzionato  il nome  Rohingya,  parlando di coloro che erano fuggiti in Bangladesh.

 

Aung San Suu Kyi ha anche ampiamente difeso la sua precedente posizione di appoggio all’esercito del Myanmar e alle sue azioni. Ha sviato le critiche internazionali, dicendo che la maggior parte dei villaggi Rohingya era rimasta intatta, e che il conflitto non era esploso dovunque. Senza esprimere alcuna critica dell’esercito e nessuna smentita di nessun scontro armato o di operazioni di bonifica, fin dal 5 settembre, ha aggiunto che il Myanmar era impegnato a ripristinare la pace,  la stabilità e la rule of law* in tutto lo stato ma non ha chiarito in che modo questo sarà ottenuto. Ha detto che il suo governo sta proteggendo tutti nello stato di Rakhine,  ha criticato i servizi dei  media perché fanno disinformazione che va a beneficio dei terroristi.

 

Il governo era pronto “in qualsiasi momento” a verificare la situazione di coloro che sono fuggiti, ha detto Aung San Suu Kyi, ma non ha specificato quale sarebbe stato il processo di verifica e chi sarebbe stato qualificato a tornare. In alcuni ambienti, si crede che il suo discorso sia un tentativo di pacificare l’opinione pubblica globale riguardo a questo problema umanitario. Il Segretario Generale dell’ONU ha esortato le autorità del Myanmar a sospendere l’azione militare e a far smettere le violenze, insistendo che il governo del Myanmar dovrebbe far rispettare the rule of law* e dovrebbe riconoscere il diritto dei rifugiati di tornare a casa. Il Consiglio di Sicurezza ha anche espresso “preoccupazione” per le notizie di eccessive violenze usate durante le operazioni di sicurezza in Myanmar e ha chiesto di ridimensionare la situazione, di ristabilire la legge e l’ordine, di proteggere i civili e di risolvere il problema dei rifugiati.

 

L’ARSA ha rilasciato una dichiarazione nel marzo 2017 in cui si afferma che non si associa a nessun gruppo terrorista e che non commette atti di terrore contro nessun civile, indipendentemente dalla loro origine religiosa ed etnica, ma che era stato obbligato a difendere, a salvare e a proteggere la comunità Rohingya. Il gruppo considera che ha il legittimo diritto, in base alla legge internazionale, di difendersi, in linea con il principio di autodifesa.

 

Conclusione

I semi di un nazionalismo ristretto e discriminatorio  sono esplosi  in una catastrofe umanitaria di proporzioni epiche. E’ necessario che le soluzioni politiche operino verso la costruzione di una società del Myanmar inclusiva che includa la sua diversità

Etnica e religiosa. Anche se difficile, sarà l’unica risposta disponibile per affrontare il conflitto armato che dura da decenni. Riconciliare le richieste e le aspettative delle comunità buddiste e musulmane del Rakhine sarà una sfida importante. In un tale  contesto, è essenziale combattere l’estremismo e l’incitamento all’odio, così come assicurare i fondamentali diritti e libertà.

 

E’ essenziale che il governo del Myanmar affronti in maniera produttiva e costruttiva  questo disastro che si sta intensificando. Questo richiede di rendere effettive soluzioni a lungo termine per mettere insieme le circa  centinaia di comunità e operare per un futuro inclusivo, pieno di concordia e riconciliato. Affrontare i problemi radicati in decenni di violenza armata e di domino autoritario, richiede una risposta umanitaria sostenibile e volta al miglioramento. La cessazione di un prevalente clima di impunità contribuirà alla stabilità politica e ad aumentare le prospettive di costruire una società concorde.

 

Le vertenze dei Rakhine sono simili a quelle di altre minoranze etniche in tutti il globo, compreso Sri Lanka: discriminazione, privazione della cittadinanza e dell’espressione politica, emarginazione economica, violazioni dei diritti umani e linguistici, e restrizioni culturali. Inoltre, le comunità Rakhine temono di poter diventare presto una minoranza all’interno del loro stesso stato, se la loro regione verrà travolta da un’ondata inarrestabile di Rohingya. La loro preoccupazione/paranoia  è aggravata dalla sovrappopolazione e dalla densità della popolazione nel Bangladesh.

 

La situazione è complessa e ha problemi che si aggrovigliano di relazioni storiche centro-periferia, con povertà estrema, sottosviluppo e conflitto etnico e religioso con i Musulmani. Anche se la cittadinanza è necessaria, non porta per forza a migliorare i diritti della popolazione musulmana. Molte persone di fede islamica sono confinati in campi per gli sfollati senza libertà di movimento e non si permette loro di ritornare alla loro terre ancestrali.

 

Per affrontare questa situazione, è necessario porre fine alle politiche discriminatorie

e alle restrizioni sui movimenti e bisogna migliorare drasticamente la situazione della sicurezza e della rule of law*. C’è, tuttavia, un chiaro modello di tumulti che  esplodono nello stato di Rakhine quando il Bangladesh decide di rimpatriare in Myanmar coloro che vivono nei suoi campi per i rifugiati, fatto che ostacola il rimpatrio. La violenza continua e la paura di azioni penali al ritorno, sembra che abbia impedito alla maggior parte dei rifugiati Rohingya di tornare nelle loro case in Myanmar.

 

L’iniziativa del regime del Myanmar per affrontare la situazione, dipende dalla verifica della cittadinanza dei cittadini musulmani ed è estremamente problematica. Garantire la cittadinanza  di cittadini naturalizzati che non conferisce i diritti di totale cittadinanza renderà le persone più insicure. Il rifiuto del governo e della comunità del Rakhine di usare il termine “Rohingya” e quello dei Rohingya di adottare il termine “Bengalesi”, hanno portato a un impasse. Se non si risolverà, una maggioranza di Rohingya respingerà questo processo di verifica. I Rohingya moderati, tuttavia, sembra che desiderino ottenere uno status di cittadinanza, anche con un uso concordato del termine Rohingya. Se la cittadinanza viene garantita, sembra che saranno disposti a prendere un’identità che non sia né “Bengalese” né “Rohingya”.

 

Le comunità musulmane, in particolare i Rohingya, nel corso degli anni sono state progressivamente emarginate dalla vita sociale e politica. Continuare a tenerle prive di uno stato e del diritto di voto distruggerà le loro speranze di raggiungere una giusta  ragionevole soluzione  delle loro legittime vertenze. Alcuni di loro hanno già perduto tutte le speranze. Non permettere di arrivare a una soluzione democratica e inclusiva della loro situazione disperata, li costringerà a cercare la violenza come sola opzione fattibile per affrontare i loro problemi umanitari.

 

Le soluzioni politiche sono fondamentali per il futuro dello stato del Rakhine e del Myanmar. Affrontare la violenza con la violenza non ha mai risolto e non risolverà mai i problemi politici. Un processo credibile per uscire da questa situazione sarà necessario che includa la creazione di un nuovo senso dell’identità nazionale del Myanmar che includerà globalmente la sua enorme diversità culturale, etnica e religiosa. E’ necessario affrontare la duratura povertà generazionale e il sottosviluppo di tutte le comunità per mezzo di schemi di sviluppo giusti ed equi. In caso contrario, la pace e la stabilità del Myanmar continueranno a essere sfuggenti in  per un lungo tempo nel futuro.

 

nota

https://it.wikipedia.org/wiki/Rule_of_Law

 


Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/understanding-the-rohingya-crisis-in-myanmar

 

top