http://www.greenreport.it/ 28 novembre 2017
La cupola dell’inferno nucleare è in paradiso di Umberto Mazzantini
Il deposito delle scorie nucleari Usa nelle Isole Marshall sgretolato dall’incuria e dal cambiamento climatico
Nella remota Runit Island, nelle Isole Marshall – Aor?kin M¸aje?, l’innalzamento del livello del mare causato dal cambiamento climatico sta facendo filtrare l’acqua dell’oceano in quella che gli ultimi abitanti dell’atollo di Enewetak chiamano semplicemente “The Dome” (la Cupola), una discarica delle scorie radioattive dei test nucleari statunitensi degli anni ’40 e ’50, quando le Marshall erano sotto mandato fiduciario Onu degli Usa. Alla vicenda, praticamente ignota nel resto del mondo, l’ABC – Australian Broadcasting Corporation dedica un reportage di Mark Willacy “A poison in our Island”, corredato da foto che in parte pubblichiamo e che sono quelle dei militari Usa che dopo la Seconda Guerra Mondiale costruirono la cupola delle scorie radioattive con pala e piccone, in pantaloncini e a torso nudo, le foto degli attuali abitanti di Enewetak e quelle fatte con i droni da Greg Nelson.
Il reportage comincia con i bambini di Enewetak che, seduti a gambe incrociate sulla sabbia corallina del loro piccolo paradiso cantano per il “Manit Day”, una celebrazione della cultura delle Isole Marshall, e che fanno sembrare che il tormentato passato di questa tormentato e piccolo Stato insulare sia un lontano ricordo. I bambini cantano le isole e gli atolli, il sole e la brezza: «Fiori e luce lunare, palme ondeggianti (…) Sono finiti i giorni in cui vivevamo nella paura, la paura delle bombe, delle armi e del nucleare (…) Questo è il tempo … questo è il mio Paese, questa è la mia terra».
I piccoli scolari sono nati decenni dopo l’ultima delle esplosioni nucleari che ha devastato interi atolli, ma l’eco di quegli esperimenti atomici è ancora nelle loro teste e potrebbe rendere molto difficile il loro futuro che tutti speriamo pacifico. Riferendosi al deposito delle scorie nucleari, la direttrice della loro scuola, Christina Aningi, ha detto all’ABC: «Lo chiamiamo la tomba. I bambini capiscono che abbiamo un veleno nella nostra isola». La cupola sorge all’estremo ovest delle isole Marshall, a metà strada tra l’Australia e le Hawaii, si tratta di una gigantesca struttura che dal mare sembra abbastanza insignificante – schermata come è da palme e vegetazione – ma sbarcati a terra ci si trova di fronte a quello che sembra un enorme disco volante sprofondato sulla lingua di sabbia di un’isola deserta, tra l’Oceano e la laguna interna. Sepolti sotto questa “tomba” ci sono 85.00 m3 di scorie radioattive, l’eredità venefica dell’alba tossica dell’era termonucleare. Infatti, alla fine degli anni ’70 anni ’70, Runit Island, fu scelta dal governo statunitense per ospitare il risultato della più grande bonifica nucleare nella storia degli Usa: le scorie altamente contaminate prodotte da una dozzina di test di bombe atomiche vennero scaricate sulla punta dell’isola disabitata, in un cratere largo 100 metri provocato da uno di quegli stessi esperimenti. Gli ingegneri dell’esercito Usa sigillarono questo inferno atomico con un “tappo” di cemento spesso solo mezzo metro e poi abbandonarono l’isola devastata al suo destino. Ora, con l’innalzamento del livello del mare, l’acqua dell’Oceano Pacifico ha cominciato a penetrare nella cupola e un rapporto del 2013 del Dipartimento dell’energia Usa ha rivelato che i materiali radioattivi si stanno sgretolando, minacciando la già pericolosa esistenza degli abitanti di Enewetak.
Alson Kelen, direttore del programma Waan Aelõñ in Majel (WAM), ex sindaco di Bikini e attivista climatico delle Isole Marshall, non ha dubbi: «Quella cupola è il legame tra l’era nucleare e l’era del cambiamento climatico. Se ci saranno davvero delle fuoriuscite sarà un evento molto devastante. Non stiamo parlando solo delle Isole Marshall, stiamo parlando dell’intero Pacifico».
Le Isole Marshall in realtà si chiamano Aor?kin M¸aje?, ma i tedeschi, che dal 1884 al 1919 ne fecero una loro colonia aggregata alla Nuova Guinea tedesca, le ribattezzarono Marschallinseln, poi vennero occupate dal Giappone e liberate dalle truppe statunitensi durante la Seconda Guerra Mondiale. Dopo la fine del conflitto le Marshall vennero assegnate agli Usa come parte del Territorio fiduciario delle Isole del Pacifico, solo nel 1979 le Isole Marhall – Aor?kin M¸aje? sono diventate una Repubblica indipendente di 29 atolli e 5 isole con una superficie totale di 181,42 km2 (più piccola dell’Isola d’Elba, ma sue lagune si estendono su 11.673 km2 e la sua Zona economica esclusiva marittima è enorme) e con oltre 50.000 abitanti, con capitale Majuro. Le Isole Marshall hanno mantenuto una libera associazione con gli Usa che dovrebbero garantire sostegno economico e il risarcimento dei danni provocati dai test nucleari.
Gli Usa hanno un forte debito con questo remoto paradiso: negli anni ’40 e ’50 fecero esplodere nelle Marshall, lontano dagli occhi indiscreti del mondo, 43 bombe atomiche, vaporizzando letteralmente 4 delle 40 isole che formavano l’atollo di Enewetak, una di queste esplosioni lasciò un cratere nucleare largo 2 Km dove un istante prima c’era un isola. Anche se i più famosi test nucleari furono quelli di Bikini che dettero il nome ad un allora scandaloso costume da bagno.
Prima dei test nucleari l’esercito Usa trasferì la popolazione di Enewetak su un’altra isola e alcuni di loro sono potuti ritornare a casa solo più di trent’anni dopo, in molti non hanno più rivisto la loro isola e tra gli abitanti di Enewetak sono ormai pochi quelli che possono ricordare come era quando erano bambini, prima dei test nucleari.
Mentre vaporizzava atolli e spostava intere popolazioni, Washington accantonava i fondi per costruire a Runit Island la cupola come deposito temporaneo delle scorie nucleari e inizialmente il progetto prevedeva di rivestire il fondo della voragine nucleare di Runit Island con del cemento, cosa alla quale alla fine gli americani hanno rinunciato perche troppo costosa. Intervistato da Willacy, Michael Gerrard, che presiede l’Earth Institute della Columbia University, spiega che «Il fondo della cupola è proprio quello che è stato lasciato dall’esplosione delle armi nucleari. E’ terreno permeabile. Non è stato fatto nessun lavoro per metterlo in sicurezza e quindi l’acqua di mare è all’interno della cupola». La gente del posto sbarca raramente su Runit Island, ha paura delle radiazioni in un territorio off-limits. Uno status che si estende a quasi tutte le isole che formano l’atollo di Enewetak, dove solo tre isole sono considerate abbastanza sicure per poterci vivere. Giff Johnson, il direttore del Marshall Islands Journal, l’unico giornale del Paese, spiega che le altre isole sono «Troppo calde, troppo radioattive per poterci stare» e che per questo non c’era motivo di bonificarle. La gente del posto a volte sbarca su Runit per raccogliere gli scarti di rame lasciati dagli americani, per venderli per pochi dollari a un commerciante cinese che evidentemente non si preoccupa molto della radioattività.
Insomma, quello che sembra un paradiso è in realtà un pericoloso inferno, anche sociale: dopo il fall-out dei test atomici, la vita tradizionale del popolo di Enewetak, che si basava sulla pesca di sussistenza, è finita perché il mare che dava loro cibo e inquinato e sull’isola principale, dove ormai vive la gran parte della popolazione che prima era disseminata nelle centinaia di isolette che formano l’atollo, la preoccupazione per la contaminazione radioattiva della catena alimentare marina ha provocato un radicale cambiamento della dieta tradizionale fatta di pesce e cocco. l’ABC sottolinea che «Il Dipartimento dell’energia Usa ha addirittura vietato le esportazioni di pesce e di copra da Enewetak a causa della continua contaminazione».
Così, ora quasi tutti i prodotti alimentari consumati a Enewetak sono importati sull’isola e gli isolani sono diventati dipendenti da prodotti confezionati, come la carne in scatola “spam”, che in tutto il Pacifico stanno causando un’epidemia di obesità e diabete. Gli scaffali dell’unico negozio di Enewetak sono pieni di barrette di cioccolato, lecca lecca e patatine americane e i bambini che cantano sulla sabbia le bellezze delle Marshall sono destinati a diventare adulti obesi e che vivranno di assistenza o lasceranno la loro isola assediata dal fantasma radioattivo del nucleare che costrinse alla fuga i loro nonni. Willacy ha intervistato anche Jack Niedenthal, segretario generale della Marshall Islands Red Cross Society, che per oltre 30 anni ha aiutato la gente del vicino Atollo di Bikini a lottare per ottenere i risarcimenti per i danni causati da 23 test atomici. Parlando di The Dome, Niedenthal non nasconde la sua preoccupazione: «Per me, questo è come un grande monumento a una gigantesca cazzata americana. Se tutto finisse sott’acqua, questo potrebbe causare dei problemi davvero grossi per il resto dell’umanità, perché è plutonio e cemento». L’attivista antinucleare si riferisce ad alcune delle scorie sepolte sotto la cupola che comprendono il plutonio 239, un isotopo fissile utilizzato nelle testate nucleari che è una delle sostanze più tossiche sulla terra e che ha un’emivita radioattiva di 24.100 anni. Eppure, il panorama che si vede dalla cima di The Dome sembra quello del paradiso: a est le onde del Pacifico, a ovest la calma superficie azzurra della laguna con, a pochi metri dalla cupola, uno spettacolare buco blu. Peccato che quel “pozzo” sia la voragine di un altro test nucleare che ha vaporizzato la barriera corallina.
Nonostante Ruinit islan sia ufficialmente off-limite, la cupola è priva di cartelli di pericolo ed è incustodita e la sua posizione vicino all’Oceano espone questa discarica di rifiuti nucleari alle onde delle tempeste sempre più frequenti e sempre più forti. Sulla cupola sono visibili delle crepe e intorno al perimetro dell’enorme struttura si sono formati stagni salmastri. Come spiega ancora Gerrard, « Già ora il mare a volte arriva sopra [la cupola] durante una grande tempesta. Il governo degli Stati Uniti ha riconosciuto che un grande tifone potrebbe spezzarla via e in parte far sì che tutte le radiazioni in essa contenute si disperdano».
Gerrard vorrebbe che gli Usa rafforzassero la cupola, ma un rapporto del 2014 del governo statunitense afferma che «Un crollo catastrofico della struttura non porterebbe necessariamente a un cambiamento dei livelli di contaminazione nelle acque circostanti». Gerrard chiosa: «Sono persuaso che la radiazione al di fuori della cupola sia nocive quanto la radiazione all’interno della cupola. E’ quindi, è una tragica ironia che il governo Usa abbia ragione sul fatto che, se questo materiale venisse rilasciato, il cattivo stato dell’ambiente circostante non peggiorerebbe di molto».
Ma questo non è di nessun conforto per la gente di Enewetak, che teme di essere nuovamente trasferita se “la tomba” si sgretolerà esponendo l’eredità venefica dell’inferno nucleare. Aningi conclude: «Se si apre, la maggior parte delle persone di qui non ci sarà più. Questo per noi è come un cimitero, siamo in attesa che succeda». Ma fortunatamente i canti dei bambini tengono ancora accesa la speranza di questo paradiso affacciato sul bordo dell’inferno nucleare.
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http://dorsogna.blogspot.it/ Fonte: Comune-info https://www.ariannaeditrice.it/articoli/ 26/11/2017
La plastica nelle viscere dell’Artico di Maria Rita D’Orsogna Fisico e docente all’Università statale della California, cura diversi blog
“Our data demonstrate that the marine plastic pollution has reached a global scale after only a few decades using plastic materials. It is a clear evidence of the human capacity to change our planet. This plastic accumulation is likely to grow further.” Andrés Cózar Cabañas, Universita’ di Cádiz, biologo
Se uno pensa all’Artico, pensa a una distesa di bianco, con magari il blu del mare, un orso polare che goffamente si incammina verso l’acqua, o qualche igloo. Nessuno pensa alla plastica. E invece, testimonianza ulteriore che l’inquinamento da plastica è ormai ovunque, si trovano pezzi di plastica galleggianti anche nei mari dell’oceano Artico, a meno di duemila chilometri dal polo nord, e in aree che fino a pochi anni fa non potevano essere raggiunte a causa degli enormi ghiacciai. Come ci è arrivata questa monnezza in Artico? Facile: i nostri fiumi, più o meno inquinati, riversano plastica a mare. Questa plastica pian piano si diffonde in tutti i nostri mari e negli oceani di tutto il mondo. E arriva anche in Artico. Ma qui, una volta arrivata, la plastica si “congela” nei ghiacci della zona e può restarci per decenni. Finché non arrivano i cambiamenti climatici a sciogliere parti delle nevi perenni e a rimettere in circolazione la plastica magari di tanti anni fa. E cosi l’Artico diventa un accumulatore di rifiuti.
È la prima volta che interi pezzi di plastica sono visibili in Artico. E questo perché prima era tutto ghiacciato, coperto dalle nevi, e la navigazione difficile. E adesso che questi ghiacciai iniziano a sciogliersi, ecco che dall’Artico arrivano pezzi di polistirolo e monnezza di vario di genere in bella vista. A testimoniare il tutto è un articolo pubblicato da Science Advances in cui si dice chiaramente che l’Artico è una sorta di dead-end della plastica.
Una volta arrivata qui la plastica, non se ne va più. Nessuno sa esattamente quanta plastica ci sia, ma si calcola che potrebbero esserci 300 miliardi di pezzi, e che l’Artico potrebbe essere un concentrato ancora peggiore del Great Pacific Garbage Patch scoperto qualche anno fa.
Come sempre, è tutto non-biodegradabile e chissà da quanti anni questa roba era li, nascosta nel ghiaccio, chissà quanta altra ce n’è, e chissà fino a quando resteranno queste traccie della nostra “civilizzazione” in Artico. Come sempre, questi pezzi di plastica non riguardano solo l’Artico, i suoi orsi polari, le sue foche, le sue balene, ma noi tutti, perché la microplastica che ne deriva viene mangiata dai pesci entrando cosi nella catena alimentare, prima localmente e poi in modo globale, ed in ultima analisi nei nostri corpi.
La cosa triste è che la situazione peggiorerà: con lo scioglersi dei ghiacciai, arriveranno i pescherecci, le navi, il petrolio, e infrastruttura pesante di vario genere. Il fatto che la neve rilasci la plastica che ci si era accumulata dentro ha altri risvolti negativi: gli animali che non sanno di meglio possono morire mangiandola, o rimanendone intrappolati dentro. Pezzi di plastica sono visibili anche da isole varie dell’Artico, per esempio le isole dell’arcipelago di Svalbard (Norvergia) e l’isola di Jan Mayen (Norvegia) hanno le spiagge con vari residui di plastica che arriva, molto probabilmente, dall’Europa e dal Nord America. I tempi di “navigazione” variano, ma per arrivare dal Regno Unito a queste isole si calcola che che ci vogliono circa due anni.
Le isole dell’arcipleago di Svalbarg sono state studiate a fondo negli scorsi mesi. Qui un gruppo di scienziati olandesi della Wageningen Economic Research Institute hanno raccattato 876 pezzi di rifiuti lungo per un totale di cento metri di costa. Sull’isola di Jan Mayen ne hanno invece trovato 575. Questi quantitativi sono più che la media sulle spiagge europee più a sud, proprio a causa del congelamento della plastica nelle nevi e delle correnti che fanno si che queste sostanze una volta arrivate in Artico, in Artico restano, congelate o non congelate.
Non si sa esattamente da dove arrivi questa enorme quantità di rifiuti, anche se si pensa che possa essere di origine europea e/o nordamericana. Molta della plastica infatti era troppo consumata per capire da dove venisse. Una parte erano residui di materiale da pesca, come reti o scotch per fissare le scatole del pescato suo pescherecchi. Circa l’8 per cento erano tappi di bottiglie.
Quanta plastica viene riversata a mare? L’equivalente di un camion ogni santo minuto, ogni santo giorno per un totale di 12 milioni di tonnellate l’anno.
Come proteggere l’Artico? Come proteggerlo dalla monnezza e dall’inquinamento che l’uomo porterà con se? E tutta questa plastica nascosta nei ghiacci, una volta sciolti i ghiacci, chi li recupererà per toglierli dalla circolazione? Come proteggere l’uomo da se stesso? |