Relazione tenuta il 20 gennaio 2017 all’interno della sessione Chi sono i comunisti? della Conferenza di Roma sul comunismo http://www.euronomade.info/ http://www.sinistrainrete.info/ 02 Febbraio 2017
Chi sono i comunisti? di Toni Negri
Sono quelle donne e quegli uomini che aprono le forme della vita alla liberazione dal lavoro e sviluppano le condizioni di una lotta rivoluzionaria continua a questo fine e così inventano e costruiscono istituzioni radicalmente democratiche – che possiamo chiamare istituzioni del comune. Meglio detto, i comunisti sono coloro che uniscono rivoluzione politica e liberazione dal lavoro, istituzione comune ed emancipazione della produzione della vita dal comando capitalista. Prima di argomentare questa definizione lasciatemi fare qualche precisazione a proposito di alcune tesi che si pretendono rifondatrici di un discorso comunista, mentre invece – a mio parere – tolgono la stessa possibilità di parlare di comunismo.
1. Ci sono in primo luogo tesi che destoricizzano e dematerializzano, unitamente all’idea del potere, quella di comunismo. Sono spesso concezioni abbarbicate al passato, all’ideologia del “socialismo reale” e non riconoscono quanto il mondo del capitale e le lotte di liberazione siano oggi mutati. Altre volte poi ci sono compagni che, pur riconoscendo il mutamento, nella contemporaneità, della composizione tecnica del lavoro vivo (rispetto a quella dell’industrialismo) rifiutano tuttavia di tradurla in un’idea adeguata di composizione e di organizzazione politiche. Questi compagni pretendono l’impossibilità di questa traduzione. Possiamo concedere che non sia facile – come nulla è facile in questo campo. Ma “hic Rhodus hic salta” : gli ostacoli non si scelgono, si superano. Evitando questo compito, quei compagni non potranno mai dislocare lo scontro dal terreno delle contraddizioni sociali a quello dell’organizzazione politica. Si ostinano a pensare il potere come esercizio generico di comando e/o di terrore e vedono lo sfruttamento come schiavitù generalizzata, riconoscendo impropriamente ogni condizione produttiva come una sottospecie dell’accumulazione originaria, e quindi riducendo lo sfruttamento ad un mero esercizio di violenza. Come se non fossimo nel mezzo di un ciclo di trasformazione produttiva e sviluppo tecnologico la cui complessità rende impossibile ogni semplificazione del comando. Quel comando innerva ormai la vita ed è su quel terreno che, articolando lo scontro va combattuta. Dimenticano l’hic et nunc di ogni analisi critica e confondono nel passato ogni progetto di avvenire. Finiscono per caricaturare il proletariato come una forza indistinta, una folla che abbisogna, dall’esterno, di un’intelligenza strategica che la guidi. L’insurrezione la fa il proletariato nudo; l’egemonia la stabiliscono il partito o l’avanguardia o l’élite. A questo conducono la destoricizzazione e la dematerializzazione dell’analisi.
2. E ancora, non sono comunisti coloro che, dicendosi tali, pensano tuttavia che l’alienazione capitalista abbia raggiunto, nel neoliberalismo, l’anima e il cervello di ogni lavoratore e che ormai non ci sia più produzione di soggettività se non quella che il capitale costruisce attraverso la sua organizzazione del lavoro, a volte consolidata dall’azione dello Stato. Che cosa potrà allora produrre lotte e costituire resistenza? Che cosa potrà risoggettivare l’azione rivoluzionaria? Lo stacco che qui si pone tra la forza di assoggettamento del capitale neoliberale e la potenza reattiva del soggetto produttivo, del precario, del proletario è talmente grande che la rottura (il fare rivolta ed il costruire azione rivoluzionaria) sembra loro impossibile, inconseguibile – meglio, la virtuale rottura secondo loro è schiacciata da un rapporto asimmetrico impossibile da squilibrare. Che cosa potrà ridare, in questa situazione, forza soggettiva alla ribellione? Loro dicono: nulla che sia legato alla vita sfruttata, al corpo battuto e stanco di lavoro, al cervello costretto dall’algoritmo. Solo un risveglio radicale, un evento intellettuale, morale – pretendono – permetterà di ripensare la democrazia in maniera rivoluzionaria. Insomma: l’immaginazione ci salverà – un desiderio dematerializzato e desoggettivato, che nasce nel vuoto della condizione di assoggettamento. Così dicono. Ma questa concezione psicologica, immateriale se non semplicemente idealista della rinascita della lotta comunista dimentica l’essenziale: la potenza del lavoro vivo, protagonista della produzione. Perché il lavoro vivo è indivisibile, produce ed immagina nello stesso tempo, crea cose e libera il cervello nell’agire. Non lo si può separare in due, da un lato schiavo e dall’altro libero di immaginare. La soggettivazione non cessa mai di avvenire, neppure quando – essendo assoggettati – si lavora e si soffre. Bisogna forse andare altrove per ribellarsi? Ma in quale Grecia fantasticata l’istituzione immaginaria della società potrà mai trovare il proprio habitat? Non è invece lì dentro, nello spessore del lavoro vivo, cioè nella vita stessa, che la ribellione avviene? Il lavoro vivo assoggettato, o soggettivamente attivo, è durezza del produrre ed insieme virtualità di liberazione. La desoggettivazione non è una determinazione applicabile al lavoro vivo. Insomma, è solo sul lavoro vivo che si fonda l’essere comunisti, sul lavoro vivo che scalpita dentro la materialità del produrre e del vivere.
3. Non sono comunisti in terzo luogo coloro che pensano che non si dia resistenza se non in termini di “destituzione” dell’ordine presente. Quando si parla di destituzione si intende la volontà di rifiutare radicalmente ogni rapporto con il potere e di intraprendere un esodo dalle condizioni stesse del produrre, come se potere e produrre fossero sinonimi. È chiaro che questo progetto si presenta come un’estrema ipotesi di distacco dalla materialità della vita e di astratta separazione dalla schiavitù del capitale. Implica una virtù ed una decisione – una virtù sublime ed una decisione vuota. Ma in tal modo la volontà di destituire si affida al dispositivo paradossale di un gesto politico puro e incondizionato, e di un esodo compiuto e realizzato. E non si interroga sulle loro condizioni di realtà, che sono ben altre. Si costituisce qui un vero e proprio abito ideologico che nasce da un tardo apprezzamento dell’attuale crisi della dialettica del capitale e da una presa di coscienza della difficoltà di congiungere l’operare produttivo e l’azione rivoluzionaria che è data come disperata. In questo senso, destituzione è il contrario di costituzione, volontà destituente è il contrario di potere costituente. L’idea di destituzione non rifiuta tuttavia solo la possibilità dell’azione costituente, attribuisce a questa la ripetizione del potere costituito – per evitarlo propone il dislocamento dell’azione in un luogo dove il potere sia assente. Ma ciò si presenta come un gesto talmente dematerializzato da imporre un abbandono del vivere stesso – un gesto individuale che conduce ad un’afona ed improduttiva solitudine – ammesso che sia possibile. Ma con ciò la cosiddetta dialettica negativa non finisce per risolversi nella soppressione stessa del produrre? Ma sopprimere il produrre significa sopprimere la riproduzione della vita – due atti che nel biopolitico non possono più essere separati. Il comunismo è appropriarsi della natura e produrre vita, in maniera comune, creativa.
4. Non son comunisti infine coloro che immaginano, nel crepuscolo dell’occidente, che la liberazione non possa più esprimersi che attraverso l’esercizio della violenza – e la caratterizzano come un evento sacrificale e purificatore. Qui la biopolitica della crisi è tradotta in una necropolitica catastrofica ed escatologica. Destituzione e purificazione divengono le forme della liberazione. La disperazione innerva un agire preteso comunista e divenuto tristemente settario – un agire che raggiunge le esaltazioni dell’estremismo religioso. Non vi è più un passaggio dalla lotta sulla produzione (e/o riproduzione) alla lotta politica. Questo passaggio è distrutto. Qui la lotta di classe viene concepita come guerra – guerra nella quale immolarsi… per rinascere? Ma la guerra di classe è sempre stata un’altra cosa: è stata il punto più alto nel quale si è imposta una potenza costituente. La guerra di classe è distruzione del nemico per appropriarsi del potere e nello stesso tempo un processo costituente collettivo di costruzione di nuovi soggetti etici e politici, di definizione di nuovi luoghi di decisione cooperativa – e sorgente di nuove passioni e di nuove invenzioni. La guerra di classe è la continuazione della lotta di classe, è la continuazione di una politica dell’uomo per l’uomo. Ritorniamo dunque a chiederci chi siano i comunisti.
A. Sono coloro che riconoscono nella cooperazione lavorativa e sociale la virtualità di una praxis sovversiva. Essi trasformano questa cooperazione in contropotere. Qui, nel contropotere, non c’è mai solo una risposta oppositiva la potere ma c’è l’avvenire di un’eccedenza: il comune è il nome di questa eccedenza. Per avanzare in questo senso i comunisti sanno che, se oggi lo sfruttamento si attua in maniera estrattiva, esso coinvolge, con la cooperazione produttiva, il comune prodotto. Vogliono dunque riappropriarsi di questo comune, sia nelle lotte sulla produzione che in quelle sulla riproduzione. I comunisti resistono allo sfruttamento, coordinano nello sciopero i compagni di lavoro, esercitano il rifiuto ed il sabotaggio del comando, costruiscono contropotere nella produzione e nella riproduzione, nel lavoro e nella vita. Lo sciopero sociale è l’arma che oggi organizza questo confronto e questa lotta. Nella lotta sociale nasce la lotta politica.
B. Che cosa significa lottare per i comunisti? Significa molte cose. In primo piano, significa spostare il comando sulla cooperazione sociale dalle mani dei padroni a quelle dei lavoratori sociali. Ma spostare il comando è un’operazione ambigua perché il capitale è mobile nel suo occupare lo spazio della produzione. Ed è liquido nel proporsi su quello della riproduzione sociale. In secondo luogo, allora per i comunisti lottare significa essere capaci di penetrare le maglie del comando per romperle ed appropriarsi del capitale fisso. Mi spiego: oggi il lavoro è essenzialmente cognitivo, esso dispone della possibilità di agire con relativa autonomia all’interno dei meccanismi produttivi e dipende da mediazioni fluide nello scontro che lo oppone al capitale. Esso può dunque usare di questa relativa autonomia e di questa fluidità della mediazione per appropriarsi di capitale fisso – per farsi macchina dentro e contro la struttura macchinica dello sfruttamento. Il General Intellect è oggi il materiale sul quale il capitale costruisce valorizzazione. È sul cervello, verso la sua riappropriazione da parte del lavoratore collettivo che oggi si orienta la lotta. Finalmente, come auspicava Marx, “il vero capitale fisso” si è rivelato “essere l’uomo”. Così, facendosi macchina, la forza lavoro si soggettiva – quando si dice uomo-macchina non si dice che la macchina abbia assorbito l’uomo ma al contrario si dice che l’uomo si è arricchito di capacità macchiniche – il corpo e il cervello del lavoratore che hanno fatto propria l’intelligenza della macchina, possono ora rivoltarla contro il padrone. Questo processo di appropriazione di capitale fisso si è sempre dato nella storia operaia, almeno da quando il lavoratore è stato formato nella “grande industria”: anche la vecchia fabbrica non poteva funzionare senza l’intelligenza dell’operaio. Oggi, nell’età post-industriale, il corpo e il cervello del lavoratore non sono più docili al dressage, all’addestramento padronale, al contrario sono più autonomi nel costruire cooperazione e più indipendenti dal comando organizzativo. Il comando padronale è infatti uscito dalla fabbrica, si è raccolto nel capitale finanziario, ci avvolge certo, ma non ci determina più dall’interno, si è esteso ovunque ma proprio per questo si è esteso il terreno della resistenza e delle lotte. La sua presenza è parassitaria perché è sempre seconda rispetto alla produzione cooperativa sociale. I lavoratori comunisti, come macchine dentro e contro la macchina della produzione e della riproduzione sociale, possono così agire in maniera rivoluzionaria. Ma quello che è ancora più importante è che, in questa condizione, ogni loro movimento all’interno della macchina della produzione è anche eccedenza: invenzione teorica, arricchimento della vita e approssimazione ontologica ad un nuovo modo di produrre. Ogni loro movimento all’interno dei processi capitalisti di estrazione del comune è immediatamente un nuovo modo di istituzione del comune.
C. I comunisti esprimono potenza costituente. Quando affermano il lavoro come resistenza e contropotere i comunisti trasformano la cooperazione produttiva in istituzione comune. La storia del movimento operaio ci ricorda come nei soviet i comunisti abbiano trovato l’organo di una rivoluzione ad un tempo politica e produttiva. Dire “potere costituente comunista” significa ritrovare la chiave di questa duplice rivoluzione. E se della necessità di un nuovo modo di produzione, e della possibilità di costruirlo, abbiamo già detto, ora bisognerà dire che cosa significhi l’altro aspetto, quello politico, del soviet nella rivoluzione. Che cosa significa oggi soviet? Significa costruire istituzioni che traggano la loro forza, la loro legittimità non dalla volontà di un sovrano ma dalle volontà di coloro che le hanno prodotte. Le istituzioni del comune sono istituzioni non-sovrane, non conoscono né trascendenza né separatezza, conoscono intera l’immanenza del potere costituente. E questo esercizio di potere costituente non bisogna vederlo semplicemente come un evento. Esso non costituisce un’eccezione ma rappresenta un’eccedenza che sorge dal lungo accumularsi di lotte, di guerre e di forme di vita dei lavoratori. È un pieno di vita. E la presa del potere è sempre seconda perché prima c’è sempre l’appropriazione del comune.
D. I comunisti costruiscono su queste basi l’impresa della moltitudine. Una volta la chiamavamo partito, ora preferiamo chiamarla impresa. Possiamo strappare questa parola al lessico liberale? Io credo di sì. Perché impresa significa mettere in opera. Impresa politica dunque significa, diversamente da quello che voleva il partito, e cioè rappresentare l’egemonia di un’avanguardia, estrarre, produrre egemonia dai mille movimenti che costituiscono il sociale e determinarne le articolazioni tattiche: metterli in opera. L’impresa politica della moltitudine raccoglie e coordina le mille anime dei movimenti e costruisce la tattica, la gestione pragmatica delle lotte – è un’arma che nasce dal corpo trasversale della moltitudine, dalla sua qualità strategica. I poveri, gli sfruttati, i dominati – l’impresa della moltitudine li raccoglie tutti non perché siano semplicemente un altrui bisognoso ma perché sono costitutivi di un “Noi” desiderante. Qui nessuno può essere detto improduttivo. Proprio per questo l’idea di moltitudine esige il suo riconoscimento nella forma di un reddito incondizionato di esistenza. La costruzione di questa impresa/partito è oggi il compito fondamentale dei comunisti. Essi costruiscono l’impresa attraversando le reti dell’insubordinazione sociale e sviluppandole autonomamente. Riassumiamo: come Lenin diceva “comunismo = soviet + elettrificazione”, così noi diciamo “comunismo = soviet + produzione sociale”; e come Lenin diceva “tutto il potere ai soviet attraverso il partito”, così noi diciamo “tutto il potere all’impresa del ‘Noi’”.
E. I comunisti, infine, sono internazionalisti. La mondializzazione è stato l’effetto di un secolo di lotte ed ha rappresentato una grande vittoria proletaria. La mondializzazione ha permesso a milioni e milioni di uomini del Terzo mondo di uscire dalla fame e ha dato loro la forza di attraversare la terra e di venire nel Primo mondo per vivere da eguali. Ma anche per i proletari del primo mondo il globale è divenuto una forma di vita che deve rompere con ogni barbara identità nazionale e permettere di vivere nella moltitudine e di conquistare e sperimentare in essa un nuovo modello di vita – eguale e collettivo, cioè comune. I comunisti possono organizzarsi solo sul terreno internazionale, perché è solo a questo livello che il capitale può essere effettivamente attaccato e sconfitto. Non si torna indietro rispetto alla globalizzazione. Ogni sguardo indietro ci fa perdere l’obiettivo della lotta: la distruzione del capitale internazionalizzato, delle sue banche private globali e delle sue banche continentali statalizzate. La lotta che può raccogliere tutte le altre è quella contro il comando globalizzato del capitale. A questo guardano i comunisti.
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