http://www.nigrizia.it/ Mercoledì 05 luglio 2017
Caschi blu e abusi, problema irrisolto di Antonio Adustini
Secondo gli ultimi dati delle Nazioni Unite, nuove accuse di violenze sessuali vedrebbero coinvolti i peacekeepers della missione Minusca, attiva nella Repubblica Centrafricana. Nonostante il cambio al vertice dell’Onu, la gestione dei caschi blu impegnati nel mondo rimane problematica.
Dal primo gennaio 2017 Antònio Guterres è il nuovo segretario generale delle Nazioni Unite, succeduto al sudcoreano Ban Ki-moon. Dal suo insediamento, Guterres ha subito delineato le linee guida per cercare di risolvere l’annoso problema delle violenze sessuali e di altri abusi sulle popolazioni, in cui centinaia di peacekeepers risultano coinvolti. Tra le prime mosse del segretario generale c’è stata la creazione di una task force, formata da nove membri, con il preciso incarico di elaborare un nuovo approccio nella gestione dei caschi blu impegnati nelle varie missioni di pace in tutto il mondo per prevenire e rispondere in modo adeguato alla piaga delle violenze e degli abusi. Tuttavia, dopo sei mesi, la task force guidata da Jane Holl Lute non sembra funzionare a dovere. Infatti, i nuovi dati rilasciati dalle Nazioni Unite, in riferimento al 2017, parlano di 33 nuovi casi di sfruttamento e abusi sessuali: mostrando continuità con il passato per quanto riguarda l’incapacità di prevenire e di incriminare i colpevoli di tali reati. Linea di continuità Mercoledì 21 giugno l’Onu annunciava che circa 600 peacekeepers congolesi della Minusca, missione schierata nella Repubblica Centrafricana, sarebbero stati rimpatriati a Kinshasa in seguito ad accuse di abusi sessuali. Dopo nemmeno 10 giorni da tale dichiarazione, venerdì 30 giugno, sempre le Nazioni Unite hanno pubblicato una serie di dati che registrano 33 nuove accuse di violenze sessuali e sfruttamento di civili, alcune delle quali interessano ancora la Repubblica Centrafricana. Anche un altro portavoce dell’Onu ha confermato le nuove accuse che vedrebbero coinvolto il personale congolese della missione Minusca, senza tuttavia specificare se i casi di presunte violenze registrati siano avvenuti prima o dopo la decisione del presidente Denis Sassou Nguesso di richiamare in patria i quasi 600 caschi blu accusati di abusi e sfruttamento sessuale. Delle 33 nuove accuse registrate nel 2017, si legge sul sito delle Nazioni Unite, 6 riguarderebbero abusi, 26 riguarderebbero casi di sfruttamento e infine, in un caso, la vittima avrebbe subito ambedue i tipi di violenza. Gli autori di tali reati, sempre secondo i dati dell’Onu, in 23 casi sarebbero stati militari, in 5 casi agenti della polizia e nei restanti 5 episodi dei normali civili. Delle 33 accuse, ben 17 riguardano episodi avvenuti nel 2017, mentre i restanti 16 episodi riguardano casi avvenuti negli anni precedenti ma denunciati solo quest’anno. Le missioni di pace che hanno registrato il numero maggiore di presunte violenze (sempre in riferimento ai primi sei mesi del 2017) sono state: la Minusca, attiva nella Repubblica Centrafricana (9 casi registrati); la Monusco, di stanza in Repubblica democratica del Congo (11 casi); la Minustah, impegnata ad Haiti (5 casi) e la Unmiss, schierata in Sud Sudan (2 casi). Da tempo il problema dei peacekeepers coinvolti in casi di sfruttamento e abusi sessuali ha assunto proporzioni importanti. Secondo una recente inchiesta dell’agenzia Associated Press (Ap) tra 2005 e il 2017 sono state registrate circa 2.000 accuse di presunte violenze e abusi sessuali. Ad enfatizzare il problema dell’inerzia delle Nazioni Unite ci sono le comunicazioni interne svelate all’inizio di giugno dalla Campagna Code Blu, che si occupa dei casi di impunità dei peacekeepers coinvolti in abusi sessuali e violenze di altro genere. Nei rapporti rilasciati da Code Blu si evince che nonostante le numerose lamentele avanzate dal tenente generale Balla Keita (capo della missione di peacekeeping Onu in Repubblica Centrafricana) sul comportamento poco esemplare delle forze di pace congolesi della Minusca, le azioni intraprese dalle Nazioni Unite per arginare il problema furono inesistenti. Infatti, la dichiarazione dell’Onu riguardante il ritiro dei 600 caschi blu congolesi fu rilasciata solo dopo che Code Blu rese pubbliche le comunicazioni del tenente generale Keita. Sostanziale impunità Tra le varie contromisure adottate negli anni dall’Onu per arginare il problema della cattiva condotta dei caschi blu nessuna sembra aver avuto l’esito sperato. Il problema più grande nel perseguire i reati dei peacekeepers risulta infatti l’impotenza dei paesi in cui vengono commessi i crimini di potere processare i colpevoli. Infatti, secondo le regole delle Nazioni Unite, il compito di investigare e perseguire le presunte violenze spetta al paese che fornisce le truppe. Ma questo rimbalzo di responsabilità fa sì che dall’accadimento del reato all’apertura dell’inchiesta passi troppo tempo, e le prove vengano inquinate o direttamente perse. Mentre nei rari casi in cui si arriva a processo, questo si tiene a centinaia di chilometri di distanza da dove si è consumato il reato: con l’impossibilità per i testimoni di partecipare al dibattimento. Questo meccanismo farraginoso fa sì che molte accuse cadano senza esser state approfondite, e molti peacekeepers rimangano impuniti. Intanto, il 30 giugno l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato il budget 2017/2018: 6.8 miliardi di dollari da destinare a 14 missioni di pace differenti. Ma, all’orizzonte un nuovo problema potrebbe minare le già travagliate missioni di pace. L’amministrazione Trump ha infatti annunciato di voler tagliare un miliardo di fondi ai finanziamenti delle missioni di peacekeeping (gli Usa contribuiscono per il 28.5% al bilancio totale delle missioni di peacekeeping), non di certo una bella notizia per il nuovo segretario generale Antònio Guterres.
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