Al-Arab 21/03/2016
La Turchia nel mirino del terrorismo: dove il pericolo maggiore? di Abdel Bari Atwan giornalista palestinese e caporedattore del portale online Ray al-Youm Traduzione e sintesi di Marianna Barberio
Gli ultimi attacchi terroristici nelle due capitali turche rappresentano, almeno in parte, un colpo al turismo locale
Al quinto anniversario della crisi siriana, aldilà della discussione sul futuro del presidente Bashar al-Assad, l’attenzione è ora riservata al nemico numero uno del suo governo, tra coloro che si aspettavano sin dall’inizio la sua caduta, ovvero il vicino turco. Quest’ultimo ha giocato un ruolo fondamentale nella Siria degli ultimi cinque anni, sia tramite l’intreccio di alleanze regionali e internazionali volte a rovesciare il leader siriano, sia tramite l’appoggio fornito all’opposizione siriana armata o mediante il rifornimento, o meglio, la facilitazione del trasferimento di armi, denaro e volontari intenti a velocizzare un simile obiettivo. In questi ultimi cinque anni non avremmo però immaginato che il terrorismo facesse il suo ingresso nel cuore delle due capitali turche: la prima e “ufficiale” Ankara e l’altra, commerciale e “storica” Istanbul; fino a renderci conto che la crisi che oggi interessa il paese non è meno pericolosa di quella presente in Siria, pur consapevoli di trovarsi ancora agli inizi. L’attacco terroristico operato da un kamikaze nel centro di via Istiklal, la famosa via dello shopping a Istanbul, sabato 19 marzo, è stato il quarto nella sua specie dall’inizio di quest’anno che ha fatto salire il numero delle vittime a 80 e a più di 300 quello dei feriti. A seguito degli attacchi, il ministro degli Interni turco, Efkan Ala, ha accusato Mehmet Öztürk, originario di Gaziantep, adiacente alla città di Aleppo, di essere l’artefice dell’attentato, appartenente forse alle file di Daesh (ISIS). L’elemento che contraddistingue l’ultimo attacco dai precedenti riguarda le vittime in sé, israeliani per la maggior parte, un dato che ha sconcertato tanto il governo turco quanto quello di Benjamin Netanyahu, e da cui sono sorti ulteriori interrogativi circa la natura, probabilmente, politica dell’attentato. È stato forse un tentativo di rovinare i legami turco-israeliani che progrediscono velocemente verso una naturalizzazione totale, in seguito agli intensi colloqui tra negoziatori diplomatici da parte di entrambi? Del resto è del tutto prematuro insistere in questa direzione, anche perché le informazioni ufficiali sono ancora insufficienti. Le recenti esplosioni, come quelle che le hanno precedute, sembrano aver voluto colpire al turismo turco e seminare terrore nei turisti stranieri; ciò è stato realizzato almeno in parte. Infatti, le prenotazioni in località turistiche in vista della prossima stagione estiva sono diminuite di circa il 40%, una percentuale destinata ad aumentare e che potrebbe causare la perdita di circa 15 miliardi di dollari per le casse pubbliche. La tempistica dell’attentato è imbarazzante e terrificante, soprattutto perché arriva a un mese dall’apertura dell’Expo di Antalya, nella Turchia meridionale, occasione questa per muovere l’economia e promuovere il turismo. Dunque non sorprende che l’ultimo attentato abbia voluto complicare tale lavoro. Il governo turco sta combattendo su tre fonti differenti che interessano in primo luogo il Partito dei Lavorati del Kurdistan (PKK), sostenuto da Mosca e dal presidente Vladimir Putin; in secondo luogo il Partito dell’Unione Democratica Curdo-Siriano; e infine Daesh. Tutti e tre rappresentano un elevato grado di pericolo soprattutto per la loro diffusione nel tessuto sociale e geografico della Turchia, nonché per il livello di simpatia raggiunto da Daesh, che accoglie più di due mila combattenti turchi. Tale analisi precede un ultimo interrogativo: quale sarà il destino della Turchia al settimo anniversario della crisi siriana?
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