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15 Marzo 2016

 

Censura e lotta ai curdi, la nuova enigmatica Turchia di Erdogan

di Dario Ronzoni

 

La lotta politica passa per il controllo dei mezzi di comunicazione, mentre da fuori pesa la presenza dei profughi e gli scontri sul campo. Il prof. Fabio Grassi tratteggia un Paese instabile con un leader incompreso

 

Dopo l’attentato di domenica 13 marzo nel centro di Ankara, che ha provocato 37 vittime e 71 feriti, il Paese è tornato nel caos. Il governo ha ribadito l’intenzione di bloccare, una volta per tutte, la deriva degli attentati che da mesi colpiscono il Paese. E che sarebbero, secondo le dichiarazioni ufficiali del ministero, opera di estremisti curdi. Nella mattinata di lunedì 11 aerei turchi hanno colpito 18 obiettivi del Pkk, l’organizzazione terroristica ribelle curda, nelle aree del nord Iraq. È un momento complicato e, come spiega Fabio Grassi, professore di Storia dell’Europa Orientale ed esperto di Turchia, «non è senza dubbio una buona notizia per Erdogan».

 

Cosa sta succedendo in Turchia, dopo questo attentato, l’ultimo di una lunga serie?

Speriamo che sia l’ultimo di una serie, e non il primo di una nuova.

In che senso?

Le modalità sono cambiate. Finora gli obiettivi dei terroristi erano militari, gruppi armati, forze dell’ordine, oppure particolari segmenti della popolazione, come i manifestanti. Stavolta le cose sono diverse, e si è colpito nel mucchio. A caso. È una differenza significativa. E questa è una prima puntualizzazione. Poi ce ne sarebbe da fare un’altra.

Cioè?

Che non è una buona notizia per Erdogan. Finora aveva recuperato consensi proprio grazie alla retorica della stabilità, promettendo, con la sua dottrina, di riportare l’ordine nel Paese. Dopo le elezioni di giugno, che per il suo partito non erano andate bene, era riuscito a ritrovare una rivincinta a novembre. Il problema, adesso, è che siamo sul filo del rasoio. Di fronte a questi episodi, i suoi avversari potranno sostenere che le mosse politiche di Erdogan si rivelano inefficaci. Lui potrà sostenere che questo avviene perché le sue scelte non vengono applicate fino in fondo.

In molti non gradiscono la sua politica repressiva dei curdi, soprattutto in un momento in cui il loro ruolo contro l’Isis dimostra di avere un certo peso.

Andiamo con ordine. Erdogan, nella sua storia, ha avuto diversi momenti. Nei confronti dei curdi, ad esempio, è stato il primo, dopo decenni, a fare un passo in avanti ed esprimere posizioni di apertura. Ha riconosciuto che il trattamento riservato alla minoranza curda era stato un’ingiustizia storica e ha aperto una trattativa. I termini non erano chiari ma, come hanno fatto notare in tanti, il solo gesto di mettere in moto qualcosa, soprattutto sul quel fronte, si presentava come una mossa non priva di rischi. Sarebbe stato molto più semplice restare nel solco seguito fino ad allora, cioè negando l’esistenza stessa del problema.

E come è andata?

Lo vede anche lei. Per un osservatore è scioccante constatare come la situazione si sia involuta così rapidamente in modo così tragico. Ora nel sud-est della Turchia c'è un livello di scontro paragonabile a quello degli anni ’80 e ’90.

Perché è finita male?

Erdogan non ha trovato un interlocutore abbastanza malleabile per raggiungere un accordo. Probabilmente aveva anche un interesse elettorale, quello di "sfondare" nel sud-est curdo, che non si è realizzato. A un certo punto avrà pensato che il gioco non valesse la candela.

E i suoi avversari ne approfittano. Erdogan è accusato anche di reprimere il dissenso.

Di sicuro c'è stata una pesante "colonizzazione" dei media. Riguardo ai casi specifici di repressione, nel caso per esempio della stampa legata a Fethullah Gülen, si assiste anche a una lotta tra poteri, come del resto avviene, anche se forse in modo più soft, nei Paesi occidentali.

Al centro del dibattito oggi, però, c’è anche la questione siriana.

Dopo i curdi, Erdogan – visto anche l’abbandono da parte dell’Europa – ha cercato di promuoversi come padrino delle Primavere Arabe, anche in Siria. Il fatto che andasse, lui sunnita, a combattere contro un capo di Stato alawita gli era noto, ma ho l'impressione che non abbia calcolato l'importanza di questo aspetto.

Forse aveva anche interesse a partecipare al conflitto per avere un ruolo di rilievo quando, una volta caduto il regime, si fosse discusso di un’eventuale spartizione della Siria.

Qualunque calcolo avesse in mente, si è rivelato sbagliato. Si ricordi, peraltro, che cinque anni fa il sostegno ai ribelli anti-Assad era lodato in tutto il mondo occidentale.

Ora viene accusato di collaborare con l’Isis, ad esempio comprando il petrolio.

Sì, il governo russo aveva annunciato le prove definitive, ormai sono passati mesi. Ci sono diversi aspetti nella questione, al di là del fatto del petrolio. Prima di tutto, il fatto che la questione curda sia ormai, in modo sistematico, una questione interna e internazionale. Gli attentati fanno pensare anche a un'intelligence divisa, o disorganizzata oppure entrambe le cose, soprattutto dopo la rottura all'interno dello Stato esplosa nel dicembre 2013.

Torniamo all’Isis.

La Turchia, come tutti gli altri attori internazionali e regionali, ha più di un avversario e cerca di combattere ciascuno senza favorire gli altri. In questo equilibrio delicato, ogni mossa si traduce in una complicazione. E chiama in gioco gli altri Stati della regione. Ad esempio l’Iran: io non credo che a Teheran non importi nulla della questione curda. Ma, anche qui, è da capire cosa vogliono fare.

Anche perché, a scombussolare tutti questi equilibri, è arrivata anche la Russia.

Mi sembra che Erdogan, come tutti gli altri, non si aspettava un ingresso in scena così audace e deciso. Lo scontro con Mosca si è tradotto in un’ulteriore problema. I russi, al momento, hanno il vantaggio di una strategia semplice. Solo a loro, mi sembra, possono andare bene esiti netti, come per esempio una sconfitta di Ankara. Sono anche gli unici che non hanno il problema dei profughi.

Problema che si somma al quadro confuso della questione.

Ed è fondamentale ricordarlo. La Turchia, oggi, è un Paese che si fa carico di 2.500.000 profughi. Come poi lo faccia, non lo racconta nessuno. Forse proprio perché lo fa bene. Ma è una questione che viene sempre messa in secondo piano. È sconcertante come questo aspetto venga sempre dimenticato, trascurato, messo da parte.

Non è vero: si parla molto del ricatto di Erdogan ai Paesi della Ue sulla questione profughi.

Esatto: e perché si parla di “ricatto?” Mantenere i profughi ha un costo, e da sola l’economia turca Lo sostiene a fatica. Perché quando l’Italia, per il suo impegno nei confronti dei migranti, chiede più sostegno alla Ue, viene considerata una richiesta legittima e quando la Turchia fa la stessa cosa, si parla di “ricatto”?

Perché?

Perché esiste un sentimento anti-turco in occidente, che ha radici profonde in Europa. Gran parte dell’identità europea si è costruita in contrapposizione al pericolo rappresentato dai turchi. Questo, in fondo, è rimasto. È lecito, come è ovvio, criticare le posizioni assunte e le scelte politiche. Ma molti di noi che osserviamo la Turchia condividiamo, pur nella diversità dei punti di riferimento ideologici e degli specifici giudizi, la sensazione che verso i turchi ci sia in molti ambienti pregiudiziale malevolenza. Con tragicomiche incoerenze: una volta c'erano i “generali cattivissimi” che opprimevano i curdi. Poi sono diventati i "martiri della laicità" epurati dal cattivissimo Erdogan. Forse c’è qualcosa che va rivisto nel nostro modo di guardare la Turchia.

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