english version and links below

http://foreignpolicy.com/
August 22, 2013

Come la Turchia è passata da zero problemi a zero amici
di Piotr Zalewski


E ha perso la sua influenza in tutto il mondo

Non molto tempo fa, la Turchia sembrava aver trovato la formula sfuggente per il successo della politica estera. La sua filosofia di recente adozione, "zero problemi con i vicini", ha vinto lode in patria e all'estero, mentre Ankara era nuovamente impegnata in Medio Oriente dopo un mezzo secolo di estraniamento. Si espandevano i legami d'affari e commerciali con gli Stati arabi, così come con l'Iran, revocate le restrizioni dei visti per i paesi vicini, aiutava anche a mediare alcune delle controversie più difficili della regione, l’intermediazione per i colloqui tra Siria e Israele, Fatah e Hamas, il Pakistan e l'Afghanistan.
E’ solo pochi anni dopo, sulla scia della primavera araba con le sue conseguenze, che la formula, un tempo così affidabile, sta cominciando a sembrare come un'alchimia. Il primo ministro Recep Tayyip Erdogan ha ormai tagliato i ponti con il regime militare in Egitto, battibeccato con le monarchie del Golfo che non hanno sostenuto il deposto presidente egiziano Mohamed Morsi, e ha iniziato una guerra di parole con Israele per la sua complicità nel colpo di stato che ha rimosso Morsy dal potere.

Per un attimo, l'Egitto è stato il fulcro della politica estera della Turchia nel mondo arabo.
Quando Erdogan, in visita al Cairo nel settembre 2011, dopo che la rivoluzione rovesciò Hosni Mubarak, fu ricevuto con un benvenuto da eroe, festeggiato non solo come il primo leader mondiale che chiese a Hosni Mubarak di dimettersi, ma come un potente mediatore regionale.

Oggi è tutto cambiato: la Turchia e l'Egitto, immersi nella controversia, hanno ritirato i loro ambasciatori e Erdogan ha stroncato pubblicamente il nuovo governo del Cairo. "Non vi è alcuna differenza tra Bashar al-Assad o il capo dell'esercito egiziano Abdel Fattah al-Sisi", ha detto la settimana scorsa. "Sto dicendo che il terrorismo di stato è attualmente in corso in Egitto"

Questa settimana, Erdogan ha trascinato Israele nella controversia, dicendo che Israele era dietro il colpo di stato del Cairo. La prova di questa perfidia, il suo ufficio l’avrebbe poi confermata, è un video del 2011 che riprende l’ex ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni e il filosofo francese Bernard-Henri Levy discutere della primavera araba.

L'ex ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman ha sparato su Erdogan Mercoledì, dicendo che "chiunque ascolta le parole di odio e l'incitamento di Erdogan capisce senza ombra di dubbio che egli segue le orme di Goebbels". Per non essere da meno, un portavoce del governo egiziano ha definito Erdogan come un "agente occidentale".

Tali controversie hanno lasciato gli osservatori in Turchia a chiedersi se l'approccio roboante di Erdogan stia minando la sua efficacia. "La Turchia ha fatto la cosa giusta" deplorando il colpo di stato egiziano, mi ha detto un ex diplomatico turco di alto rango, ma si è trovata "sul lato sbagliato della comunità internazionale." Ankara avrebbe dovuto imporre il suo peso ben prima che i Fratelli Musulmani fossero estromessi dal potere, ha aggiunto il diplomatico. "La Turchia ha messo troppa enfasi sulla storia di successo della democrazia in Egitto per non vedere correttamente le cose sbagliate che venivano fatte dal regime Morsy."

La verità della questione è che era sempre solo una questione di tempo prima che la politica "zero problemi" annunciata dalla Turchia affondasse. Avere zero problemi significa tenere il naso fuori dagli affari interni di altri paesi, e anche ingraziarsi gli uomini forti regionali. Questo è stato possibile, fino a quando veniva mantenuto lo status quo regionale: Turchia, per esempio, ha mantenuto il silenzio sulle violenze post-elettorali in Iran nel 2009, e nutrito un'alleanza con il siriano Assad prima della sanguinosa rivolta in quel paese. E in Libia, Erdogan era ben felice di ignorare la triste situazione dei diritti umani di Muammar al-Gheddafi, se quello era il prezzo da pagare per le offerte di costruzione agli uomini d'affari turchi con il suo regime.
Soffiando lo status quo nell’oblio, la primavera araba ha costretto la Turchia ad uscire da questa politica di non interferenza. Ankara ha lottato con l'idea che non poteva piegare la regione alla sua volontà: In Libia, prima che finisse per aiutare la deposizione di Gheddafi, la Turchia sosteneva che l'Occidente non aveva alcun interesse ad intervenire contro di lui. In Siria, ha rotto completamente con Assad, immischiandosi in un conflitto che non mostra segni esaurimento. E in Egitto, naturalmente, si è messa in rotta di collisione con lo stato più popoloso del mondo arabo.
La misura con cui la Turchia ha, da allora, abbandonato il suo dolce approccio a bassa voce, con la regione è stato sorprendente. Uno dei comandamenti di "zero problemi" era quello a cui, il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, si riferiva con il termine "equidistanza" cioè, il rifiuto di prendere parte nelle dispute regionali. Questo è sempre stato un mito, in particolare quando si è trattato della disputa israelo-palestinese, in cui il governo ha raramente perso la possibilità di rafforzare le sue credenziali islamiche offendendo gli israeliani. Ma sulla scia della primavera araba, l’equidistanza sembra essere andata nella fogna.
Non sé olo in Egitto, dove la Turchia è ora vista come un attore di parte, piuttosto che un risolutore neutrale di problemi. In Iraq, ha apertamente sfidato il governo del primo ministro Nouri al-Maliki, accusandolo di fomentare conflitti settari, per poi negoziare, alle sue spalle, accordi petroliferi con il governo regionale curdo, che amministra il nord del paese. In Siria, ha prestato sostegno incondizionato ai ribelli anti-regime, permettendo loro di operare liberamente sul suo suolo, chiudendo un occhio sulle loro atrocità e, come riferito, criticando gli Stati Uniti per aver marchiato Jabhat al-Nusra come al Qaeda, un gruppo terrorista.
L'ex diplomatico turco ha detto che Ankara aveva ragione a sostenere la fine del regime del presidente Bashar al-Assad, ma ha deplorato il modo maldestro con cui lo ha fatto. "La Turchia ha fatto bene a schierarsi con il popolo contro il dittatore, ma avrebbe potuto fermarsi lì. Bruciando tutti i ponti con il regime, la Turchia ha perso la sua influenza su Assad." E quando la comunità internazionale si è accorta di come i ranghi dei ribelli si stavano gonfiando di jihadisti, ha evitato di prestare ulteriore sostegno, "La Turchia, per usare un termine calcistico, si è trovata in fuorigioco".
Erdogan è alle prese con una nuova serie di sfide di politica estera anche in altre parti del mondo. L'immagine della Turchia in Occidente ha preso una bastonata questa estate con le proteste a Gezi Park. La decisione di Erdogan di reprimere le manifestazioni con la polizia antisommossa, lacrimogeni, cannoni ad acqua ha minato il suo rapporto con l'Unione Europea. Alla fine di giugno, nel bel mezzo della repressione post-Gezi, Bruxelles ha deciso di rinviare fino ad ottobre un nuovo ciclo di negoziati per l’adesione di Ankara. Erdogan, nel frattempo, è stato oggetto di critiche feroci della stampa americana.
La Turchia non ha fatto praticamente nulla per riparare il danno. Invece, i suoi funzionari hanno accusato i paesi occidentali di aver orchestrato le proteste e le varie "forze oscure", tra cui quelle che Erdogan chiama cripticamente "tasso di interesse delle lobby internazionali" da loro finanziate. Il nuovo consigliere superiore del primo ministro, Yigit Bulut, non ha remore a chiamare l'Unione europea "un perdente diretto verso un crollo all'ingrosso", mentre Egemen Bagis, lo stesso ministro responsabile per i negoziati di adesione, ha scherzato: "Se proprio dobbiamo, potremmo dire loro di perdersi."
Mentre le lotte della politica estera della Turchia in Medio Oriente potrebbero essere state inevitabili, il suo isolamento può anche sembrare, altrove, auto-inflitto. Oggi, il paese rischia di tornare alla mentalità degli anni ‘90, quando le tensioni abbondavano con i paesi arabi ed europei, le teorie cospirative avvelenavano il dibattito politico, e i turchi, convinti si trattasse di un paese sotto assedio, ripetevano fedelmente, "Il turco non ha amici, se non turchi". Erdogan, a quanto pare, ha portato il suo paese da "zero problemi" a mal di testa internazionali, per quanto l'occhio può vedere.


http://foreignpolicy.com/
August 22, 2013

How Turkey Went From ‘Zero Problems’ to Zero Friends
By Piotr Zalewski

And lost its leverage everywhere

Not so long ago, Turkey seemed to have found the elusive formula for foreign policy success. Its newly-adopted philosophy, "zero problems with neighbors," won praise both at home and abroad as Ankara reengaged with the Middle East following a half century of estrangement. It expanded business and trade links with Arab states, as well as Iran, lifted visa restrictions with neighboring countries, and even helped mediate some of the region’s toughest disputes, brokering talks between Syria and Israel, Fatah and Hamas, and Pakistan and Afghanistan.
Just a few years later, in the wake of the Arab Spring and its aftermath, that once-reliable formula is starting to look like alchemy. Prime Minister Recep Tayyip Erdogan has now burned his bridges with the military regime in Egypt, squabbled with Gulf monarchies for refusing to stand by deposed Egyptian President Mohamed Morsy, and started a war of words with Israel for having a hand in the coup that removed Morsy from power.
For a fleeting moment, Egypt was the centerpiece of Turkey’s foreign policy in the Arab world. When Erdogan visited Cairo in September 2011, after the revolution that toppled Hosni Mubarak, he arrived to a hero’s welcome, feted not only as the first major world leader to call on him to step down but as a regional power broker. That has now all changed: Turkey and Egypt pulled their ambassadors from each country amidst the dispute, and Erdogan publicly slammed the new government in Cairo. "Either Bashar [al-Assad] or [Egyptian army chief Abdel Fattah al-Sisi], there is no difference between them," he said last week. "I am saying that state terrorism is currently underway in Egypt."
This week, Erdogan dragged Israel into the dispute, saying that Israel was "behind" the coup in Cairo. The evidence for this perfidy, his office would later confirm, was a 2011 video of former Israeli Foreign Minister Tzipi Livni and French philosopher Bernard-Henri Levy discussing the Arab Spring.
Former Israeli Foreign Minister Avigdor Lieberman shot back at Erdogan on Wednesday, saying that "everyone who hears [Erdogan’s] hateful words and incitement understands beyond a doubt that he follows in the footsteps of Goebbels." Not to be outdone, an Egyptian government spokesman slammed Erdogan as a "Western agent."
Such disputes have left Turkey watchers wondering if Erdogan’s bombastic approach is undermining his effectiveness. "Turkey did the right thing" by deploring the Egyptian coup, a former high-ranking Turkish diplomat told me, but found itself "on the wrong side of the international community."
Ankara should have thrown its weight around well before the Muslim Brotherhood was ousted from power, the diplomat added. "Turkey put too much emphasis on the success story of democracy in Egypt and did not see properly the wrong things that were being done by the Morsy regime."
The truth of the matter is that it was always only a matter of time before Turkey’s heralded "zero problems" policy foundered. Having zero problems meant keeping your nose out of other countries’ domestic affairs, and even cozying up to regional strongmen. That was possible so long as the regional status quo held: Turkey kept mum on post-election violence in Iran in 2009, for instance, and nurtured an alliance with Syria’s Assad before the bloody revolt in that country. And in Libya, Erdogan had been only too happy to ignore Muammar al-Qaddafi’s dismal human rights record, if that was the price to pay for Turkish businessmen to ink construction deals with his regime.
By blowing the regional status quo into oblivion, the Arab Spring forced Turkey out of this policy of non-interference. Ankara has struggled with the notion that it could not bend the region to its will: In Libya, before it ended up helping unseat Qaddafi, Turkey argued that the West had no business intervening against him. In Syria, it has broken completely with Assad, embroiling itself in a conflict that shows no sign of ending. And in Egypt, of course, it is setting itself on a collision course with the most populous state in the Arab world.
The extent to which Turkey has since ditched its softly-softly approach to the region has been surprising. One of the commandments of "zero problems" was what Foreign Minister Ahmet Davutoglu referred to as "equidistance" — that is, the refusal to take sides in regional disputes. This was always something of a myth, particularly when it came to the Israeli-Palestine dispute, where the government seldom missed a chance to bolster its regional and Islamic credentials by slighting the Israelis. But in the wake of the Arab Spring, equidistance appears to have gone into the gutter.
It’s not only in Egypt where Turkey is now seen as a partisan actor, rather than a neutral problem-solver. In Iraq, it has openly defied Prime Minister Nouri al-Maliki’s government, accusing it of fomenting sectarian strife and going behind its back to negotiate oil deals with the Kurdish Regional Government, which administers the country’s north. In Syria, it has lent unqualified support to the anti-regime rebels, letting them operate freely on its soil, turning a blind eye to their atrocities, and reportedly  criticizing the United States for branding the al Qaeda-linked Jabhat al-Nusra a terrorist group.
The former Turkish diplomat said that Ankara was right to support the demise of President Bashar al-Assad’s regime, but deplored the ham-fisted way that it went about it. "Turkey was right to side with the people against the dictator, but it could have stopped there," he said. "By burning all bridges with the regime, Turkey lost its leverage with Assad." And when the international community, wary as the rebels’ ranks swelled with jihadists, shied away from lending further support, "Turkey, to use a football term, found itself offside."
Erdogan is struggling with a new array of foreign policy challenges in other parts of the world, too. Turkey’s image in the West took a beating this summer with the protests in Gezi Park. Erdogan’s decision to put down the demonstrations with riot police, tear gas and water cannons undermined his relationship with the European Union: In late June, in the midst of the post-Gezi crackdown, Brussels decided to postpone a new round of accession talks with Ankara until October. Erdogan himself, meanwhile, has come under scathing criticism in the American press.
Turkey has done virtually nothing to undo the damage. Instead, officials have accused Western countries of orchestrating the protests and various "dark forces" — including what Erdogan cryptically calls the international "interest rate lobby" — of bankrolling them. The prime minister’s new top advisor, Yigit Bulut, has no qualms about calling the European Union "a loser headed for a wholesale collapse" while Egemen Bagis, the very minister responsible for the accession talks, quipped, "If we have to, we could tell them, ‘Get lost’."
While Turkey’s foreign policy struggles in the Middle East may have been inevitable, its isolation elsewhere seems self-inflicted. Today, the country risks returning to the mindset of the 1990s, when tensions abounded with Arab and European countries, conspiracy theories poisoned the political debate, and Turks — convinced they were a country under siege — repeated faithfully, "The Turk has no friend but the Turk." Erdogan, it seems, has taken his country from "zero problems" to international headaches as far as the eye can see.

top