Articolo pubblicato su: http://enricocampofreda.blogspot.it http://contropiano.org/ 22 dicembre 2016
I misteri del delitto Karlov di Enrico Campofreda
Dopo le prime sessanta ore d’indagine trapelano diverse cose sulla vita e la morte di Mevlut Mert Altintas, il poliziotto che ha freddato ad Ankara l’ambasciatore russo Andrey Karlov. Dei circa due minuti che precedono la scarica assassina nella Galleria d’arte contemporanea gira un filmato dove il giovane è appostato alle spalle del diplomatico. Appare nervoso, si tocca sotto la giacca, quasi ad assicurarsi che l’arma sia a posto, si prepara psicologicamente all’azione, agenti di sicurezza avrebbero sicuramente notato un comportamento agitato e sarebbero intervenuti. A sparatoria iniziata, e assassinio compiuto, durante i proclami lanciati su Aleppo martire, su scopo, costituzione e orgoglio della battaglia jihadista e sulla grandezza di Allah, il quotidiano Hurriyet riporta che due agenti della polizia stradale, entrati nei locali, abbiano intimato all’uomo di arrendersi.
Erano le 19:27. Non è accaduto nulla. Il killer continuava a motivare il gesto predicendo la sua fine, che non è avvenuta immediatamente. Quando un reparto speciale è intervenuto erano le 19:32. Colpi reciproci e Altintas dopo un paio di minuti è a terra colpito a una gamba. Ma la sparatoria prosegue, lui riesce a sostituire il caricatore dell’arma, viene colpito una prima volta al collo, poi ripetutamente al petto, fino a spirare. Il referto medico dice per la ferita al collo. Sono le 19:40. Forse la squadra speciale ha provato a neutralizzarlo, senza ucciderlo. Certo che da vivo sarebbe stato più utile per le indagini. Questa descrizione della sparatoria confligge con la tesi di chi afferma che l’eliminazione del killer puntava a prevenire ulteriori lutti, potendosi trattare d’un kamikaze. Però l’abbigliamento non lasciava trasparire gonfiori o cinture esplosive, valutazioni che nella concitazione occhi e menti esperte possono compiere. Eppure chi è intervenuto appartiene all’eccellenza della sicurezza. Il tema della sicurezza infiltrata dai gulenisti è al centro delle spiegazioni turche, sia quelle politiche fornite dal governo e dallo stesso presidente, sia le investigative a opera del Mit. Il versante russo, che sta indagando autonomamente con 18 super investigatori giunti da Mosca, è assai più cauto. Un loro portavoce sostiene che parleranno solo quando avranno il conforto prove. Le congetture servono a poco. Invece per i turchi le prove ci sono tutte. Sono state trovate nell’abitazione del poliziotto, a Soke, nella provincia di Aydin. Testi gulenist che si raccordano alla sua formazione passata avvenuta appunto in una delle scuole del movimento Hizmet. Ma bisogna ricordare che fino a un paio d’anni addietro di quelle scuole in tutta l’Anatolia ce n’erano migliaia, istituti che hanno istruito milioni di bambini e ragazzi turchi, non tutti necessariamente appartenenti a famiglie filo Fethullah. Infatti la magistratura si sta muovendo con maggiore cautela. Dopo aver interrogato i familiari stretti di Altintas (padre, madre, sorella, cognato, zii) li ha rilasciati perché li ritiene estranei all’azione delittuosa. In verità lo zio Hasan Furuncu, aveva lavorato proprio in una scuola del network Hizmet a Kusadasi, elemento al vaglio degli inquirenti che potrebbe diventare un’accusa. Una certezza è che il poliziotto non abbia agito da solo e che nella Scuola reclute di Izmir, da lui frequentata, s’annidi una struttura di affiliati al gruppo Feto, sfuggita a precedenti retate e in grado di tramare ancora contro Erdogan e la nazione. Per questo sono stati arrestati e sono tuttora interrogati sei colleghi di Altintas, anche loro non colpiti dalle epurazioni dei mesi scorsi. L’Intelligence turca fa trapelare la notizia che il killer avrebbe partecipato a incontri di gruppi gulenisti nel 2015. E allora non si comprende perché non sia rientrato nelle copiose retate avvenute dopo il tentato golpe. C’è poi il mistero del suo giorno di congedo richiesto per il 15 luglio (giorno del colpo di mano), che l’esentava dal servizio dalle 7:45 del mattino. Qualora venisse confermata la sua adesione al movimento l’assenza potrebbe risultare un alibi oppure un’aggravante, poiché l’allontanamento per l’intera giornata (e nottata) puntava ad alleggerire i sospetti sulla sua persona. Resta, comunque, inspiegata la permanenza nel nucleo delle scorte private del presidente.
E poi se i golpisti, com’è stato ricostruito, volevano rapire Erdogan e magari assassinarlo, perché un piano simile non è scattato anche successivamente, potendo disporre di infiltrati così prossimi al sultano com’era Altintas? Altre indiscrezioni riportate dai media (l’emittente Al Jazeera) sostengono che Ankara e Mosca saprebbero che dietro l’omicidio del diplomatico c’è lo zampino gulenista, con tanto di sostegno passivo della Cia o di un diretto coinvolgimento statunitense. L’amministrazione Usa marginalizzata, e autoesclusa, dalle ultime vicende della crisi siriana cercherebbero in tal modo di mettere zizzania sulla neo collaborazione fra le leadership russa e turca. Voci cui ha risposto piccato il portavoce del Segretario di Stato uscente Kerry, secondo il quale “il riferimento pur teorico di un’implicazione americana nella vicenda criminosa è un’affermazione ridicola e falsa”. Più pragmaticamente gli 007 russi sono sguinzagliati alla ricerca di prove. Uno strumento importante può risultare la disamina del telefono mobile ritrovato dagli agenti turchi sul cadavere del killer. Per decriptarne i codici di sicurezza le due strutture investigative potrebbero unire le forze e avviare una collaborazione. Questa servirebbe a chiarire un’altra voce inquietante: la ricezione da parte dell’attentatore di informazioni provenienti dall’interno dell’ambasciata russa. Una talpa potrebbe aver fornito indicazioni precise sulla presenza del diplomatico alla mostra fotografica. In primo momento Altintas aveva affittato una camera presso la Galleria d’Arte il 16 e 17 dicembre, l’aveva lasciata il 18 trasferendosi in un hotel attiguo. Solo casualità?
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