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mercoledì 10 agosto 2016

 

Dall’incontro Erdogan-Putin la nuova pax siriana

di Fabio Della Pergola

 

Recep Tayyip Erdo?an e Vladimir Vladimirovi? Putin alla fine si sono incontrati. E abbracciati.

 

L’uno, grande nemico del leader siriano Assad, e l’altro, storico sponsor e alleato dello stesso personaggio, hanno messo da parte gli ultimi, gravi dissapori seguiti all’abbattimento del Sukhoi russo da parte dei jet turchi (con annessa uccisione di uno dei due piloti) e, nello stesso tempo, alcuni secoli di tradizionale ostilità fra i due paesi.

L’incontro fra i due, lungamente e puntigliosamente preparato, si è svolto in un’atmosfera a dir poco amichevole (Erdogan ha iniziato con un prevedibile “caro amico”) e lascia presagire una cosa fondamentale: la guerra siriana potrebbe avviarsi alla sua conclusione.

E questa, anche se non sarà per l'immediato, sarebbe comunque una buona notizia. Soprattutto per i siriani, ma non solo per loro.

Il risultato finale - se la previsione sarà confermata - potrebbe evidenziare un sostanziale nulla di fatto dopo cinque anni di conflitto armato e mezzo milione di morti.

I ribelli democratici, presto soppiantati da quelli del fronte islamista foraggiati da Ankara e dai monarchi della penisola arabica, non sono riusciti ad abbattere il regime alawita di Damasco e questi, spalleggiato dal fondamentale aiuto militare russo, non è riuscito a estirpare definitivamente la ribellione.

Si registra quindi solo un ridimensionamento del “legittimo” governo siriano e il contemporaneo contenimento di quell’asse sunnita che univa, da nord a sud, la Turchia all’Arabia Saudita (attraverso il Califfato) finalizzato a interrompere e contrastare il contrapposto asse sciita Teheran-Baghdad-Damasco-Hezbollah.

Il riposizionamento politico in corso di tutti i protagonisti del confusissimo teatro bellico mediorientale è l’ovvia conseguenza di una situazione molto articolata in cui, non ultimo, si registra anche il doppio avvicinamento israeliano alla Russia - reso evidente dalla nomina del falco ultranazionalista di origini russe (e grande estimatore di Putin) Avigdor Liebermann a Ministro degli Esteri - e alla Turchia, dopo il cruento affaire della Mavi Marmara ormai definitivamente chiuso.

In questo complesso nuovo quadro, mentre sembra palese che il Califfato abbia i giorni contati o forse un semplice ridimensionamento sul campo, si cominciano ad individuare vincitori e vinti (almeno ad oggi).

La Russia ha riaffermato in gran spolvero la sua presenza in Medio Oriente e lo ha fatto nuovamente da grande potenza, pronta a diventare alleato strategico di una Turchia non più immaginabile come membro affidabile della Nato dopo il curioso golpe mal riuscito e la successiva epurazione dei partigiani di Fethullah Gülen, ospite degli Stati Uniti.

Contemporaneamente anche Israele ha minacciato di sostituire l’appoggio di un ostile Obama con quello presumibilmente entusiasta di Putin. Sono, è evidente, avvertimenti che tendono più a influenzare le prossime presidenziali che a segnare una vera e propria svolta strategica dello stato ebraico, ma sono pur sempre segnali di malumore che gli Stati Uniti, nella figura del leader a venire, devono tener presenti.

Anche la Grecia, sottoposta alle angherie tedesche, aveva minacciato a suo tempo di “navigare in altri mari” (riferendosi appunto alla Russia).

Veder slittare buona parte del Mediterraneo orientale nell’area di influenza russa potrà far piacere a qualche nostalgico filosovietico della Guerra Fredda, ma di sicuro farebbe agitare molte cancellerie europee e americane (e anche arabe).

Se la Russia (con Assad) e la Turchia appaiono vincenti, sono soprattutto i due protagonisti de facto del braccio di ferro sul nucleare iraniano a uscire da questa fase con una presenza politica molto appannata.

L’Iran, fortemente osteggiato dall’asse israelo-sunnita, vede svanire la sua recente capacità di egemonizzare attraverso governi amici tutto il Vicino Oriente fino alle sponde mediterranee e il suo alleato Assad molto più legato alla Russia di quanto non fosse prima: Mosca, non Teheran, ha salvato la sua poltrona dalla catastrofe e queste cose contano.

Gli Stati Uniti nel frattempo, odiati da tutti i paesi arabi e trattati a pesci in faccia da Israele per l’accordo sul nucleare che ha riportato in auge il regime iraniano, hanno ormai perso anche il fedele alleato turco che a più riprese ha insinuato complicità americane con i golpisti. L'incapacità di immaginare e gestire una qualsiasi politica estera degna di questo nome dopo il disastro della presidenza Bush (figlio) sta costando molto cara, in termini geostrategici, agli americani.

Anche l’autonominatosi Califfato sembra ormai sulla graticola; la sua forza consisteva solo nel fatto che nessuno, Assad a parte, aveva poi questo grande interesse a combatterlo. Ma che fosse in realtà ben consapevole della sua debolezza militare lo si deduce dalla banale osservazione che, al di là di proclami altisonanti quanto inconsistenti sulla riconquista di Gerusalemme, non ha mai tentato, nemmeno per sbaglio, di avvicinarsi davvero ai confini israeliani.

Con il progressivo sfaldamento del Califfato, la distrazione turca e lo sguardo altrettanto distratto di Israele, un altro protagonista della coalizione anti-sciita - l'Arabia Saudita - sembra aver perso lo smalto recente.

Umiliati dagli americani, irrisi dagli iraniani, messi da parte dai turchi, accusati di una imbarazzante prossimità con il terrorismo internazionale, gli arabi potrebbero reagire con l'orgoglio ferito che porta solitamente a conseguenze nefaste.

Fra gli sconfitti è impossibile dimenticare i due popoli senza patria.

Prima di tutto i palestinesi di cui, ad oggi, non importa più nulla a nessuno e questo potrebbe, paradossalmente, essere una buona notizia per i palestinesi stessi che potrebbero smettere di essere, come sono sempre stati, pedine di un gioco molto più grande di loro. E infine i curdi su cui incombe una prevedibile pesante rivalsa: si sono permessi di resistere contemporaneamente al Daesh e ai turchi e questo Erdogan, lo sappiamo, non lo perdona.

Il mosaico sembrerebbe ricomporsi su questi nuovi equilibri geostrategici, ma la situazione resta fluida ed è sempre difficile dire quale sarà davvero la forma dell’acqua. Cioè quale sarà il contenitore complessivo che darà forma definitiva alla liquida realtà mediorientale.

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