Fonte: http://dissidentvoice.org http://www.comedonchisciotte.org/ Sabato, 20 febbraio 2016
Come ti smantello la libertà di parola in Francia di Arindrajit Basu Traduzione di Skoncertata63
Con l'aumento della globalizzazione, negli ultimi decenni si é assistito a una crescente eterogeneità di nazioni e comunità. Questo fenomeno ha generato la necessità di ospitare all’interno del tessuto sociale diverse identità culturali, religiose, storiche e linguistiche. In molti casi, questo è avvenuto attraverso un processo coercitivo di assimilazione in cui le comunità in minoranza sono state costrette a rinunciare alla propria identità e ad assimilare i valori culturali e le norme sociali di quelle in maggioranza. Lo Stato-nazione Francia ne è un esempio lampante. Citando costantemente liberalismo e progresso come sua ragion d’essere, lo Stato Francese ha manipolato molti valori liberali, andando ad alimentare una dialettica che rifiuta l’idea di un’identità Francese che possa esistere in simbiosi con altre identità religiose e sociali. Esplorando la ‘gestione’ Francese del diritto assoluto alla libertà di parola, ho riscontrato quest’ ipocrisia di fondo e ho sentito il bisogno di sfatare questo falso mito, e non solo in Francia, ma anche in altri paesi del mondo. Dopo gli attacchi alla rivista satirica Francese Charlie Hebdo, il governo Francese ha portato avanti una prolungata campagna per difendere e giustificare il diritto assoluto alla libertà di parola. Un gran numero di accademici e di giornalisti ha sostenuto questa campagna invocando “ad nauseam” il famoso detto di Salman Rushdie:. “Nessuno ha il diritto di essere offeso”. In un pezzo per The Intercept di inizio anno, Glenn Greenwald sottolinea l'ipocrisia di questa posizione alla luce del giro di vite sulla libertà di parola successivo agli attentati di Parigi del mese di novembre 2015. In quel pezzo, Greenwald mette anche in dubbio la presenza oggi in Francia di veri difensori della libertà di parola, e attribuisce questa ‘crociata’ selettiva a questioni di opportunismo e strategia, dove la libertà di parola non è una fede reale ma “…uno strumento cinico che alimenta l’islamofobia." Credo che quest’ ipocrisia evidenziata da Greenwald non sia un’istanza isolata, ma il prodotto di un atteggiamento radicato nello Stato Francese moderno fin dai suoi inizi. Gli errori insiti nel concetto di libertà di parola, si ritrovano nell’intricato labirinto delle leggi che la regolano. Dopo la rivoluzione Francese, la Francia ha abrogato tutte le leggi che consideravano la blasfemia un crimine. Tuttavia, è ancora un crimine "provocare la discriminazione, l’odio o la violenza nei confronti di un individuo o gruppi di individui a motivo della loro origine o appartenenza ad una particolare etnìa, nazione, razza o religione." (Legge di libertà di stampa, 1881). Questo, essenzialmente, significa che fare la caricatura a Maometto o insultare il Profeta non è un crimine, mentre lo è incitare all’odio verso i musulmani come comunità nel suo insieme. Questa distinzione deriva dalle tradizioni anticlericali dei Francesi, con il conseguente profondo radicamento del principio assertivo di laicità (laïcité), per cui lo Stato rifiuta attivamente la visibilità pubblica della religione. Questo è in contrasto con il modello di 'laicità passiva' seguito negli Stati Uniti e in altri paesi, secondo il quale lo Stato permette la pubblica professione di qualsiasi religione, senza avallarne alcuna. In altre parole, si può essere un musulmano Francese nella misura in cui essere musulmano non sia in contrasto con il modo di essere Francese. Purtroppo, ciò che costituisce l’ essere Francese viene naturalmente imposto dalla maggioranza (non musulmana); da qui all’inevitabile conclusione che per essere Francese idealmente non si può essere musulmano. Questo quadro giuridico tenta in modo fallace di scindere l’identità di un individuo dal suo credo religioso. J.A. Coyne difende questa demarcazione scrivendo, "Charlie Hebdo non prendeva in giro i musulmani, prendeva in giro l’Islam. Lo scopo non era quello di insultare gente religiosa, ma attirare l’attenzione su quali possano essere gli effetti nocivi di una religione.” Coyne non distingue tra i vari livelli di significato che una fede religiosa possa avere nella formazione dell’identità di un individuo o di una comunità. Molti musulmani si considerano in gran parte "seguaci del Profeta”, e un affronto al Profeta si traduce in un affronto a loro stessi e alle identità che hanno scelto. Inoltre, Coyne non chiarisce quali siano gli effetti nocivi di una fede, ma limita la sua tesi ad affermare che “la religione può far fare alle persone cose terribili”. Lo Stato Francese sembra condividere le opinioni di Coyne, dal momento che da sempre promuove la laicità considerandolo l’unico credo giustificato. La laicità, il secolarismo. E’ una posizione che comporta automaticamente la soppressione di comunità che praticano devotamente una certa religione. Coyne caratterizza questo conflitto tra due principi cardine: il Liberalismo-Multiculturalismo e l’Illuminismo. Egli sostiene che “assorbire gli immigrati può arricchire una società in molti modi, ma non se questi immigrati esigono una deferenza pubblica verso la loro religione in conflitto con i valori democratici”. Coyne non tiene conto del fatto che mostrare deferenza ai vari credi e assimilare molteplici culture all’interno del tessuto sociale è di per sé un principio fondamentale del liberalismo. Inoltre, questi valori democratici sembrano non avere alcun ruolo nella legge Francese introdotta nel 2004 di vietare alle donne musulmane di indossare il velo nei luoghi pubblici. Indossare lo hijab in pubblico è una forma di espressione e celebrazione di un'identità che né il governo Francese né la società Francese hanno ritenuto meritevole di tutela. In questo modo, la promozione aggressiva del secolarismo nella società Francese, si propone di sopprimere lo sviluppo di qualsiasi identità che lo rifiuta. E’ questo un atteggiamento in evidente contrasto con i principi liberali che Coyne sembra voler sottolineare. L’insidiosa natura del concetto di libertà di parola non si limita a questo. Si scopre che la Francia non ha mai avuto un diritto assoluto di libertà di parola. Tale diritto assoluto non potrebbe assolutamente spiegare l'esistenza della legge Francese contro il negazionismo dell’Olocausto (Gaysson-Act). Una famosa vittima di questa legge è Robert Faurisson, un ex-professore di letteratura di Lione, il cui lavoro ha messo in dubbio l’esistenza delle camere a gasad Auschwitz e in altri campi di concentramento tedeschi: in conformità alla legge Gaysson, è stato rimosso dalla sua cattedra universitaria. La Commissione per i Diritti umani delle Nazioni Unite (UNHRC) ha confermato questa decisione,sostenendo che mettere in discussione la decisione del Tribunale di Norimberga incoraggiava sentimenti antisemiti e, quindi, provocava l’odio verso la comunità ebraica. Infatti, questo stesso approccio che consente a un Charlie Hebdo di prendere in giro il Profeta e l’assenza di un ‘diritto di essere offeso’, sopprimono in modo dicotomico il diritto di un Faurisson di mettere in discussione dei fatti storici. Il trattamento preferenziale riservato agli ebrei può essere spiegato da un sentimento patologico di colpa e di compassione. L’aver consentito questa particolare immunità, è stato, molto probabilmente, un mezzo per espiare il lungo passato antisemita della Francia, culminato nell’ “Affaire Dreyfuss”. Tuttavia, un tale trattamento preferenziale può diventare molto problematico, poiché l’approccio storicamente attribuito all’identità ebraica è quello della persecuzione e della repressione. I sentimenti che la Francia cerca di proteggere non sono legati alla fede, alla cultura o alla condizione sociale ebraica, o a qualsiasi altro fattore che sia parte integrante di tale identità. Pertanto, possiamo sostenere che questa particolare ‘tutela’ non ha niente a che vedere con la promozione dell’identità ebraica, ma di un’identità che è stata attribuita agli ebrei. I valori liberali si sono modellati e fusi nel pensiero dominante, come armi preferite per offuscare quelle sensibilità e sfumature che caratterizzano in vario modo – positivo o negativo - le culture e le religioni delle diverse comunità. Alcune forme di ‘parola’ sono considerate prioritarie rispetto ad altre. Alcuni sentimenti sono considerati più meritevoli di tutela che altri. La libertà di parola non potrà mai essere un diritto assoluto. Non mancheranno mai quelli che necessariamente ne ostacoleranno la sua totale applicazione; e questo per motivi di sicurezza nazionale, di ordine pubblico e di coesione sociale. Uno stato responsabile deve valutare tali motivazioni in modo giusto ed equo e, quindi, garantire che tutte le comunità possano trarre beneficio dall’applicazione della legge. L’atteggiamento dicotomico dei Francesi, tuttavia, sembra essere saldamente radicato nella direzione opposta. L’assenza totale di un "Je suis Faurisson" finisce con il denigrare in gran parte la legittimità liberale di un "Je Suis Charlie."
Arindrajit Basu è uno studente di Legge di Kolkata, India. Scrive per diverse riviste e quotidiani in materia di Diritto Internazionale, Privacy, Politica internazionale, Sicurezza Informatica ed Etica. Link: http://dissidentvoice.org/2016/02/who-says-je-suis-faurrisson/ 17.02.2016 |