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Martedì 07 giugno 2016

 

Silenzio stampa

di Alessandra Bajec

 

Intervista al giornalista francese Pigaglio espulso dal paese. La libertà di informare è sempre più minacciata e repressa dal regime egiziano, che non accetta critiche. Il caso dei vertici del sindacato arrestati e processati.

 

Che la stampa e i giornalisti vivano giorni complicati in Egitto lo testimonia il processo che si è aperto a Il Cairo, il 4 giugno, contro il presidente del sindacato dei giornalisti egiziani, Yehia Qalash, e due membri del consiglio direttivo, Khaled al Balshi e Gamal Abdel Rahim. È la prima volta dal 1941, anno della sua fondazione, che i vertici del sindacato finiscono dietro alla sbarra. Sono accusati di aver offerto rifugio a due giornalisti accusati di affiliazione a un gruppo terroristico. Secondo il sindacato, invece, i due avevano solo effettuato una copertura giornalistica delle proteste del 15 e 25 aprile contro il trasferimento all’Arabia Saudita della sovranità delle isole Tiran e Sanafir.

Ma con il regime del presidente al-Sisi il clima di intimidazione e di repressione verso gli organi di informazione si è fatto pesante. Ne ha pagato le spese anche Rémy Pigaglio, giornalista francese corrispondente da Il Cairo per il quotidiano La Croix e la radio RTL, fermato lo scorso 24 maggio dalle autorità aeroportuali della capitale al ritorno dalla sua vacanza in Francia ed espulso dal paese dopo più di 24 ore trascorse in detenzione. Era provvisto di regolare visto e tesserino giornalistico. E ancora oggi non conosce le ragioni della sua espulsione.

 

Pigaglio, neppure durante le ore in cui è stato detenuto le hanno fornito le ragioni del provvedimento restrittivo?

No. Qualche ora prima del fermo, avevano confiscato il mio telefono dicendo che non mi era consentito entrare in Egitto. A quel punto, ho iniziato a chiedere, perché? Non ho avuto risposta né mi è stata data una spiegazione fino ad oggi. So solo che le autorità egiziane hanno riferito a quelle francesi che mi è stato vietato l’ingresso per «ragioni di sicurezza». Spiegazione che troverebbe conferma dal fatto che la decisione sarebbe stata assunta dai servizi di intelligence egiziani.

 

Lei è il primo giornalista occidentale, con documenti in regola, a cui è stato proibito l’ingresso nel paese. Pensa che la sua espulsione potrebbe creare un precedente?

Spero di no. Però l’Egitto sta attraversando una fase molto dura, con un crescente livello di repressione tocca sempre più larghe fasce della società. Alla luce del mio caso, nessun inviato può dirsi tutelato.

 

Non è però il primo giornalista internazionale ad essere stato costretto a lasciare l’Egitto?

Esatto. Ci sono state le sentenze contro i tre giornalisti della rete televisiva Al Jazeera e i loro colleghi, riusciti a lasciare il paese. O il caso di Ricard González, ex-corrispondente in Egitto per il giornale spagnolo El Paìs, costretto a partire in fretta la scorsa estate dietro la minaccia di arresto.

 

Lei viveva da due anni a Il Cairo. Di che cosa si occupava? Le è capitato di pensare che quello che scriveva potesse esporla a rischi?

Come gran parte dei corrispondenti in Egitto, scrivevo di svariati argomenti: dalla politica ai diritti umani, dai temi sociali a quelli religiosi. Il mio ultimo pezzo, pubblicato all’inizio di maggio, riguardava il contenzioso tra il sindacato dei giornalisti egiziano e il ministero degli interni per il blitz condotto dalla polizia nella sede del sindacato e l’arresto di due reporter egiziani la sera del 1° maggio. Forse mi hanno preso di mira per incutere timore agli altri giornalisti presenti nella capitale: hanno pensato che l’espulsione di un corrispondente straniero potesse fungere da deterrente contro una informazione internazionale critica nei confronti del regime.

 

In un’intervista lei ha detto che è difficile sapere dove sia la “linea rossa’’ in Egitto. Perché è difficile?

Questo è uno dei maggiori problemi per chi è giornalista in Egitto. Si sa che certi temi possono dare fastidio al potere, ma non si sa mai quali siano veramente. Un giorno ti occupi di un tema delicato e non hai problemi; un altro giorno lavori a un argomento per niente spinoso e ti ritrovi in un commissariato di polizia. Forse questo succede perché le autorità vogliono farti sentire a disagio, così non sai mai quale confine non devi oltrepassare.

 

Qual è il contesto attuale in cui gli operatori dei media si trovano ad operare in Egitto?

Chi corre più rischi, oggi, sono i giornalisti locali, tra minacce e attacchi dalla polizia, dalla magistratura, dall’intelligence. Attualmente almeno una trentina di loro sono in carcere – secondo i dati ufficiali del sindacato della stampa egiziano – ma ce ne sono probabilmente molti di più. In sintesi: se sei giornalista e critichi il governo ti trovi nei guai. Noi corrispondenti, invece, siamo più protetti, nel senso che le autorità non oserebbero farci quello che fanno ai nostri colleghi egiziani. Siamo monitorati, la gente ha paura a parlare con noi, ma non subiamo attacchi diretti dalle autorità di stato.

 

L’espulsione di un giornalista straniero compromette l’immagine dell’Egitto all’estero, paese già più volte criticato dai paesi occidentali. Come per il caso Regeni. Crede che sia una strategia perdente per Il Cairo?

Penso di sì. Il governo al-Sisi continua a dire pubblicamente che il paese tutela la libertà di stampa e che si sta incamminando verso la democrazia. La mia storia dimostra il contrario. L’Egitto non sta affatto avanzando verso la democrazia, si sta anzi avvicinando ancora di più verso la dittatura. Nelle ore successive al mio arresto in aeroporto, l’ambasciatore francese ha parlato del mio caso con il presidente al-Sisi, il primo ministro Ismail e il ministro degli esteri Shoukry, chiedendo di riconsiderare la decisione presa. Una scelta, la loro, davvero incomprensibile, soprattutto alla luce degli stretti rapporti diplomatici e di affari tra Parigi e Il Cairo.

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