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15 novembre 2016
Mosca scatena una nuova offensiva in Siria, aspettando Trump
di Marco Santopadre
A Mosca, Damasco e Teheran si attende di capire se veramente il presidente eletto Donald Trump cambierà radicalmente la politica estera statunitense in Siria, cessando di destabilizzare il paese, di sostenere le cosiddette opposizioni e di perseguire il rovesciamento del suo governo. L’outsider repubblicano ha infatti più volte affermato che considera il regime siriano un possibile alleato nella lotta contro lo Stato Islamico e il jihadismo in generale che ritiene il nemico principale, in questo frangente, della superpotenza americana in declino.
Intanto però la battaglia infuria. Poche ore dopo la telefonata tra Vladimir Putin e Donald Trump le ingenti forze militari russe di stanza in Siria hanno dato il via oggi ad "una operazione su vasta scala" contro i jihadisti di Daesh e di al Nusra nelle province occidentali di Idlib e Homs; lo ha reso noto lo stesso ministro della Difesa russo Serghei Shoigu, il quale ha sottolineato che la portaerei Admiral Kuznetsov è coinvolta nell'operazione. I caccia Su-33 di Mosca che decollano dalla portaerei che stazione al largo delle coste siriane stanno attaccando le fabbriche di armi e i depositi di munizioni ed esplosivi dei terroristi, oltre ai loro campi di addestramento, nel corso di raid definiti “massicci". Le forze russe, ha detto Shoigu, hanno preso di mira "stabilimenti per la produzione di diversi tipi di armi di distruzione di massa, abbastanza seri; si tratta di una produzione industriale bene organizzata".
Dalla fregata Admiral Grigorovich sono stati lanciati invece missili da crociera Kalibr.
Da segnalare che poche ore fa un MIG-29K della Marina russa si è schiantato nel Mediterraneo, mentre era in avvicinamento per l'atterraggio proprio sul ponte della portaerei Admiral Kuznetsov. Incolume il pilota.
Del resto negli ultimi giorni il numero delle navi da guerra russe arrivate a ridosso della costa siriana è aumentato parecchio, coinvolgendo ormai una ventina di vascelli appartenenti sia alla Flotta Settentrionale che ha quella Baltica. Il loro passaggio nelle acque della Manica prima e del Mediterraneo poi aveva destato tensione e polemiche con la Nato, che però ora non può che prendere atto del rafforzamento del dispositivo militare russo in Medio Oriente proprio nel momento di maggiore debolezza a Washington determinato da un traumatico ‘cambio della guardia’ alla Casa Bianca.
E la battaglia sembra essere ripresa anche ad Aleppo, stando alle testimonianze di alcuni residenti che parlano di bombardamenti durante la giornata (i primi da un mese), dopo che nei giorni scorsi le truppe di Damasco e i suoi alleati sciiti iracheni, iraniani e libanesi avevano cacciato i jihadisti dai quartieri occidentali occupati dieci giorni fa dalle ‘opposizioni’ a colpi di kamikaze e camion bomba. Domenica l’esercito governativo aveva concentrato i suoi sforzi sui quartieri orientali di Karam al-Turab e sull’area di al-Aziza, a sud est della città ancora parzialmente occupata da al Nusra (o Jabhat Fatah Al-Sham, come si fa chiamare ora) e altre correnti fondamentaliste e salafite. Del resto l’ultimatum di 24 ore lanciato ieri ai combattenti jihadisti affinché abbandonassero Aleppo è scaduto.
Anche la Turchia ieri ha intensificato gli attacchi contro le postazioni di Daesh nel nord della Siria (dopo aver protetto a lungo il Califfato). I miliziani siriani (e non) sostenuti da Ankara hanno lanciato un attacco contro al-Bab, grazie alla copertura aerea dei caccia turchi che hanno bombardato vari obiettivi nella cittadina. Ma così come era avvenuto quando lo sponsor principale dei cosiddetti ‘ribelli’ erano gli Stati Uniti, anche il regime di Erdogan deve fare i conti con le faide interne tra le diverse fazioni della ‘opposizione’. Ieri infatti alcune unità dell’Esercito Siriano Libero e i salafiti di Ahrar al-Sham (non meno fondamentalisti dei tagliagole di al Baghdadi) si sono affrontati in una lunga battaglia per il controllo della cittadina di Azaz e del valico di frontiera di Bal al-Salam.
Intanto la produzione di cibo in Siria ha raggiunto il minimo storico con una situazione di insicurezza generale e condizioni meteo sfavorevoli in alcune regioni che continuano ad ostacolare l'accesso dei contadini a terra e ai mercati anche nelle zone dove teoricamente i combattimenti sono cessati. A sostenerlo è una missione effettuata dalla Fao che mostra come dopo cinque anni di conflitto molti contadini abbiano perso la capacità di coltivare i propri campi. La scarsità e l’aumento dei prezzi dei fertilizzanti, dei semi e degli strumenti, se non si invertirà subito la tendenza, obbligherà molti agricoltori ad abbandonare le loro terre e ad emigrare avverte l’agenzia delle Nazioni Unite.