Fonte: Huffingtonpost

Tratto da: Italian Irib

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Gen 07, 2016

 

Lo scontro tra Arabia Saudita e Iran non è tra sciiti e sunniti

di Nicola Pedde

 

La decapitazione del chierico sciita saudita Nimr al-Nimr non ha nulla a che vedere con l’insostenibile accusa di sedizione e terrorismo per cui è stato giustiziato. Lo sheik del governatorato del Qatif è stato ucciso con il deliberato proposito di sabotare il processo di distensione della comunità internazionale con l’Iran, ed impedire quindi a Tehran di emergere nel sempre più caotico quadro politico mediorientale.

Chi era Nimr al-Nimr e perché è stato giustiziato

Nimr al-Nimr era un religioso molto noto e stimato in seno alla comunità sciita, sia quella saudita che quella regionale. Era un pensatore indipendente e un intellettuale di spicco, che non temeva la repressione del regime e che a gran voce denunciava le storture della politica settaria che da anni marginalizza e umilia le minoranze sciite in Arabia Saudita. Non era in alcun modo collocabile nell’orbita degli interessi politici di Tehran, su cui anzi non di rado esprimeva giudizi critici, così come su Bashar al-Asad, che non aveva esitato a definire un dittatore sanguinario.

 

Nimr al-Nimr era espressione di una concezione religiosa marcatamente pacifica e tollerante, più vicina alle posizioni del Grande Ayatollah Sistani che non a quelle dell’eterogeneo consesso ideologico iraniano, e da anni impegnato in prima persona nella lotta per il riconoscimento delle prerogative sociali ed economiche della comunità sciita saudita.

Nimr protestava per chiedere una più equa redistribuzione dei profitti petroliferi, per combattere il settarismo alimentato dal regime saudita e per denunciare l’autoritarismo delle monarchie del Golfo. Non aveva alcun legame con il jihadismo, né con gli esponenti delle organizzazioni terroristiche di matrice qaedista con cui alla fine ha condiviso il patibolo.

La sua esecuzione è stata quindi il frutto di un mero calcolo politico, nell’ottica di provocare la comunità sciita della regione – come, purtroppo, puntualmente avvenuto – per additarla poi all’attenzione degli occidentali e delle monarchie arabe come violenta e settaria. Uno stratagemma indegno di un moderno sistema istituzionale, le cui conseguenze potrebbero essere gravissime nell’intera regione.

La crisi politica ed economica dell’Arabia Saudita e il suo incerto futuro

L’ascesa al trono di Re Salman, nel gennaio del 2015, era stata accolta con un tiepido favore dalla comunità internazionale, ritenendo l’anziano sovrano una tra le migliori alternative possibili in seno all’eterogenea famiglia reale degli al-Saud, e certamente la più idonea per frenare gli eccessi e il radicalismo delle nuove leve del palazzo. Il suo stato di salute, tuttavia, già compromesso all’atto della nomina, è radicalmente peggiorato nel corso dell’anno, riducendo in tal modo la capacità del monarca e spalancando al tempo stesso le porte alle sfrenate ambizioni di suo figlio Mohammad bin Salman al-Saud e suo nipote Mohammed bin Nayef al-Saud, rispettivamente deputy crown prince e ministro della difesa. I due sono noti per le loro posizioni radicali e per il marcato sentimento anti-iraniano, in funzione del quale auspicano l’adozione della linea dura per impedire a Tehran qualsiasi possibilità di consolidamento nella regione.

A marzo del 2015 il giovane principe Mohammad venne messo a capo della coalizione a guida saudita che avrebbe dovuto sedare la rivolta degli Houti sciiti in Yemen, riportando il destituito governo filo-saudita al potere. Le operazioni si sono trasformate tuttavia in una disfatta militare, che ha provocato non pochi imbarazzi ai sauditi soprattutto per l’elevato numero di vittime civili provocato dai bombardamenti a tappeto delle proprie forze aeree. In settembre, poi, una vera e propria carneficina di fedeli è stata provocata alla Mecca dalla chiusura di una strada, per consentire ad un membro della famiglia reale di raggiungere in auto i luoghi di preghiera. Non è ancor oggi stato possibile quantificare l’esatto numero delle vittime, tra cui moltissimi sciiti, ed il governo saudita non solo non ha mai formulato alcuna scusa, ma ha anzi espresso gratitudine e complimenti al crown prince, responsabile della gestione dei pellegrinaggi.

Tutto questo mentre le strategie di politica economica sono dominate dalla ferrea volontà di mantenere elevata la produzione di petrolio al fine di impedire da un lato lo sviluppo del mercato dello shale gas negli Stati Uniti e dall’altro l’ascesa dell’Iran in quello che sembra prospettarsi come l’entusiasmante periodo post-sanzioni. Con il risultato del crollo dei valori del greggio e della conseguente capacità di attrarre valuta straniere nelle casse dello Stato, che, combinato agli eccessi di spesa per la gestione dell’avventata operazione in Yemen e del sostegno ai paesi della propria coalizione regionale – Egitto in testa – ha determinato per la prima volta nella storia l’esigenza per l’Arabia Saudita di emettere debito. Il mercato finanziario inizia quindi a temere la possibilità di una sempre maggiore contrazione della capacità di investimento saudita, lanciando segnali di allarme che la comunità internazionale fatica a cogliere, nella tradizionale incapacità di comprendere le logiche politiche regionali e le parimenti complesse dinamiche interne alla corona saudita.

L’Iran come minaccia esistenziale, il settarismo come strategia

L’Arabia Saudita – e più in generale l’insieme delle monarchie del Golfo – ha sempre guardato con sospetto alla Repubblica Islamica dell’Iran sin da quando, nel 1979, lo Scià Mohammad Reza Pahlavi venne deposto e sostituito da una teocrazia. L’ayatollah Khomeini non fece mai mistero del suo disprezzo per la classe dirigente saudita, auspicando una propagazione dei valori della rivoluzione islamica anche nelle vicine monarchie, definite corrotte e decadenti. Venne ripagato con otto anni di guerra quando l’Iraq, sostenuto da tutti i paesi della regione e dagli occidentali, attaccò l’Iran nel 1980, provocando uno dei più brutali e duratori conflitti della storia contemporanea. Da allora le relazioni dell’Iran con i paesi arabi della regione entrarono in una fase di stallo, per riprendere tiepidamente solo nel decennio successivo.

Gli arabi hanno sempre guardato ai persiani come ad una minaccia esistenziale, non facendo parte i secondi del gruppo etnico dominante nella regione, e ben consci i primi dell’enorme differenza culturale e sociale tra le proprie arretrate società e quella persiana, maturata nel corso di oltre tre millenni. L’Iran non considera al contrario i paesi arabi come una minaccia esistenziale, limitandosi a collocare alcuni di questi nell’ambito di una più generica minaccia economica e militare, desiderando tuttavia al tempo stesso affermare le proprie prerogative economiche attraverso il conseguimento di un ruolo regionale.

Ciò che divide le monarchie arabe dall’Iran è tuttavia anche individuabile nel differente modello ideologico alla base dei rispettivi contesti istituzionali. L’Arabia Saudita e le monarchie del Golfo – non tutte, invero – considerano l’Iran una minaccia esistenziale perché espressione di un modello politico-sociale partecipativo e moderatamente pluralista, che, se non classificabile come democratico secondo i canoni occidentali, è quantomeno in grado di portare con regolarità alle urne i propri cittadini, di qualsiasi sesso e fede. Questo non colloca l’Iran entro i canoni di una democrazia piena, ma se il termine di comparazione deve essere quello regionale arabo, è evidente come il modello iraniano sia di gran lunga il più sviluppato e pluralista. Al contrario, la maggior parte delle monarchie arabe della regione è espressione di sistemi verticisti di tradizione dinastica, senza alcuna reale capacità decisionale sul piano popolare e quindi facilmente collocabile nella cerchia degli assolutismi.

Uno scontro ideologico insanabile quello tra il modello partecipativo (bottom-up) e quello assolutista (top-down), che nel caso delle relazioni regionali assume un connotato di ulteriore gravità, quando ne venga considerato il rischio in termini espansivi nell’una o nell’altra direzione. A questa conflittuale percezione reciproca deve poi essere aggiunto l’elemento confessionale, che vede sì gli sciiti come una minoranza nell’universo musulmano, ma al tempo stesso come una maggioranza nel più ristretto ambito della regione del Golfo Persico.

La combinazione dei fattori di percezione dei paesi arabi e della contestuale espansione degli interessi regionali iraniani, a partire dallo scorso decennio, ha portato l’Arabia Saudita e alcune altre monarchie locali alla definizione di una strategia di contrasto all’Iran basata essenzialmente sul settarismo, cercando di esacerbare le già tese relazioni tra le due comunità in molti dei paesi della regione, come ad esempio l’Iraq, il Libano, il Bahrain e la stessa Arabia Saudita.

Lo scontro sciiti-sunniti, in tal modo propinato, è diventato il leitmotif di una sempre più stereotipata capacità di analisi occidentale sulla regione, alimentando una produzione documentale e informativa colossale, scardinata tuttavia dalla reale dimensione del fenomeno sul terreno. Il conflitto in atto non riguarda la sfera confessionale, ma è tutto interno al mondo arabo della regione, dominato dall’anacronistica visione identitaria del wahabismo e oggi profondamente scosso dalla concreta possibilità di collasso di tutte quelle entità statuali che per un secolo hanno dominato la penisola araba attraverso il ruolo di modeste quanto autoritarie dinastie regnanti. Ciò che le monarchie arabe temono non è quindi un’invasione delle masse sciite, quanto una presa di coscienza delle proprie società, che potrebbero un domani forse non troppo lontano mettere in discussione il ruolo assoluto delle corone ed esigere una trasformazione in chiave partecipativa e moderna dei propri sistemi politici.

In questa dimensione l’Iran e il suo modello istituzionale – ma anche la Fratellanza Musulmana e altri movimenti islamisti – rappresenta un nemico mortale per la continuità degli assolutismi monarchici, contro il quale solo una lotta fratricida sul piano confessionale può nelle aspettative di Riyadh convogliare l’attenzione della società su piani diversi da quelli della democrazia e dell’eguaglianza.

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