Il Sole 24 Ore http://www.lantidiplomatico.it/ 16/05/2016
100 anni dopo Sykes-Picot: la lezione della storia che l’occidente non vuole ascoltare di Alberto Negri
Il video di maggiore successo dell’Isis in tutto il Medio Oriente è stato quello in cui un bulldozer abbatte un cartello ai confini tra Siria e Iraq con la scritta “Fine di Sykes-Picot”, l’intesa anglo-francese firmata il 16 maggio 1916 per spartire l’impero ottomano.
Siamo dunque davanti a una dura lezione della storia nata dall’imperialismo occidentale? La tentazione, e forse la necessità, di disegnare cento anni dopo nuove frontiere è ancora fortissima e non è difficile capirne i motivi: almeno quattro stati della regione – Siria, Iraq, Yemen e Libia – sono in fase di disgregazione con eventi così devastanti che sembrano costituire un vendetta postuma contro quell’accordo tra un diplomatico britannico, Mark Sykes, e uno francese, Francois George Picot.
La questione è ovviamente al centro della manovre diplomatiche e delle operazioni belliche. Inoltre ci riguarda direttamente: per il bruciante destino della Libia sulla sponda Sud, di fatto già spartita, ma anche per la presenza militare in italiana Iraq che presto in Mesopotamia diventerà consistente – 1.100-1.200 soldati compresa la difesa della diga di Mosul – seconda quindi soltanto a quella americana.
I vituperati accordi di Sykes-Picot non tracciarono veri e propri confini ma piuttosto zone di influenza tra la Francia e la Gran Bretagna allora alleati contro la Germania e desiderose di dividersi le spoglie della Sublime Porta. Un po’ come sta accadendo adesso sul terreno dopo l’intervento della Russia a favore di Assad sostenuto anche dall’Iran: la Turchia e le potenze sunnite che appoggiano l’opposizione a Damasco tentano di fissare le loro aree di interesse.
Recentemente il presidente turco Erdogan, che non manca occasione per scagliarsi contro Sykes-Picot, ha ribadito di essere pronto a entrare in territorio siriano per stabilire una “fascia di sicurezza”, nominalmente per contenere l’Isis in realtà per spezzare la continuità tra le linee di difesa dei curdi siriani, il vero incubo strategico di Ankara. Se oggi i curdi stanno cacciando il Califfato, con le donne a capo scoperto in prima linea, è dovuto in parte all’eredità di Sykes. L’ufficiale britannico allora assicurò a Londra che «a Est del Tigri i curdi sono pro-arabi». Così i curdi vennero inglobati in una zona sotto controllo francese e dopo la fine della prima guerra mondiale sparirono dalla carta geografica.
Nonostante i negoziati di Vienna – che riprendono il 17 maggio a livello di gruppo di contatto – e i tentativi di fissare delle labili tregue, la sanguinosa tendenza a continuare la guerra per prendersi pezzi di territorio, direttamente o per procura, è destinata continuare.
Tanto più che se Assad controlla meno di un terzo della Siria, come dimostra la feroce battaglia in corso ad Aleppo, in Iraq e Siria la presenza del Califfato si è ridotta di almeno il 30-40% in un anno.
La guerra, a strappi, ufficialmente solo contro l’Isis e Jabat al Nusra, per il momento prevale sulla diplomazia perché serve a disegnare nuove ma sempre mobili frontiere. Come del resto accadde ai tempi di Sykes, che tra l’altro accolse con entusiasmo la dichiarazione di Balfour del 1917 a favore dello stato ebraico in Palestina.
Per la verità cento anni fa quelle frontiere non furono tracciate su una carta geografica muta, erano basate su realtà politiche sociali ed economiche preesistenti e sulle divisioni amministrative dell’impero ottomano. I confini attuali furono definiti dopo l’accordo del 1916, prima con la conferenza di San Remo poi con il trattato di Sévres del 1920 quindi con il mandato francese sulla Siria del 1923. Se avessimo visto la Siria di allora avremmo potuto vederla divisa anche in uno Stato alauita fino al Sangiaccato di Alessandretta e in uno del Gebel druso, perché tutto questo obbediva al principio “divide et impera” coloniale.
In seguito, nel 1926, con l’annessione all’Iraq della vilayet di Mosul e le provincie di Baghdad e Bassora prese forma il regno hashemita iracheno.
Ma se volessimo davvero capire cosa è successo in questa area bollente dovremmo rintracciare la sequenza degli spostamenti delle popolazioni in Iraq e Siria, puntare il dito non solo contro gli “innaturali” confini coloniali ma soprattutto contro le politiche autoritarie dei governi di Baghdad e Damasco che nel tempo hanno alimentato le divisioni etniche e religiose: arabi, curdi, assiri, turcomanni, yezidi, sciiti, sunniti, cristiani, mandei, si sono avvicendati forzatamente più volte sugli stessi territori e nelle stesse città per un secolo fino ai nostri giorni.
La spirale delle rivendicazioni è infinita. E ora con milioni di profughi in movimento tra Iraq e Siria, circa 10 milioni di persone, diventerà ancora più complicato disegnare un’altra Sykes-Picot. Basti pensare a un dato sconcertante dell’Unhcr: la permanenza media di un rifugiato in un campo profughi è di 17 anni. Non è difficile immaginare che questi insediamenti “provvisori” diventino nuove città e quartieri che affiancano o si sovrappongono ai vecchi agglomerati urbani. La divisione del Medio Oriente significa, come sappiamo bene, la crudele spartizione delle vite degli altri. |