Avvenire.

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24/02/2016

 

Da Sigonella a Sigonella

di Fulvio Scaglione

Vice-direttore di Famiglia Cristiana

 

"Con il Nord Africa in subbuglio e il Daesh in Libia grazie anche ai pasticci europei, l’Italia è una postazione preziosa per gli Usa: a noi l’onere di non farci usare solo come rampa di lancio"

 

Avere amici grandi e grossi è spesso un vantaggio. A patto di superare con agilità i momenti in cui la mole dell’amico fa cadere il vaso della nonna o sfonda la poltrona buona del salotto. Adesso, però, l’amicizia con gli Stati Uniti ha messo a rischio anche la disinvoltura con le patate bollenti del premier Matteo Renzi. Non è facile digerire in poche ore che nel periodo 2008-2011 il Governo italiano, nella persona del primo ministro Silvio Berlusconi, fosse spiato dai servizi di sicurezza americani, che il "Wall Street Journal" faccia sapere agli italiani che Sigonella sarà usata come base per attacchi armati dei droni Usa sulla Libia, che la Corte europea dei diritti dell’uomo condanni l’Italia (unico Paese a subire l’onta dopo la Macedonia) per aver violato la Convenzione europea avendo apposto il segreto di Stato con quattro Governi e non avendo chiesto con sei ministri della Giustizia l’estradizione degli agenti della Cia che nel 2013 rapirono, portarono in Egitto e fecero torturare Abu Omar, l’imam egiziano estremista che operava a Milano ed era indagato per terrorismo internazionale. 

 

Di tutto un po’, insomma. Con un carico di suggestioni che magari incidono poco sui rapporti diplomatici, ma molto sui sentimenti e sull’orgoglio. Sigonella è la base in cui, nella notte tra il 10 e l’11 ottobre 1985, i militari italiani impedirono alle forze speciali Usa di portarsi via i terroristi palestinesi che avevano attaccato la nave "Achille Lauro" e ucciso un cittadino americano. E poi, per gli altri casi, la recente trasferta del presidente Sergio Mattarella negli Usa, il suo incontro con Barack Obama, la grazia concessa da non molto a due degli agenti Cia che rapirono Abu Omar... Renzi ha reagito convocando l’ambasciatore americano John Phillips per avere, sulla vicenda delle intercettazioni ai danni dell’intercettatissimo Berlusconi, quei "chiarimenti" che avrà solo dal punto di vista formale. 

 

La realtà è una e non cambierà: gli Usa spiano tutto e tutti, anche chi scrive queste note e chi le legge, e continueranno a farlo. Berlusconi è solo uno di una lunga lista che comprende Merkel, Sarkozy, Netanyahu e persino quel brav’uomo di Ban Ki-moon, il segretario generale dell’Onu.

Tutti hanno protestato con l’aria stanca di chi sa che è inutile farlo, pronti ovviamente ad ascoltare le telefonate altrui appena se ne presentasse la ragione e l’occasione. Se i servizi segreti spiassero solo i nemici avrebbero chiuso bottega da tempo. Più serie, in una normale dialettica tra alleati, le altre due questioni. Per quanto fatta passare come "pulita" e "mirata", la guerra dei droni è il suo esatto contrario. L’Ong inglese Reprieve ha studiato gli esiti di una lunga serie di attacchi, e ha calcolato che per ogni terrorista colpito i droni uccidono altre 28 persone, tra cui donne e bambini. 

 

Renzi ha fatto sapere che i voli da Sigonella saranno autorizzati "caso per caso", in base «all’evidenza che ci sono potenziali attentatori che si stanno preparando». Ma la sostanza non cambia. Il caso Abu Omar, poi, a dispetto della colpevolezza dell’imam che fu infine condannato a 6 anni, ci rimanda a una stagione, quella delle extraordinary renditions, di cui c’è poco da esser fieri. Sistemi di lotta al terrorismo che non hanno funzionato, peraltro, visto che da allora attentati e vittime sono sempre aumentati.

 

Detto questo, la crisi – se crisi c’è – verrà presto composta. Il rapporto tra Usa e Italia è solido per definizione e tradizione, e la gerarchia chiara. In più, ora ci lega la reciproca necessità. Con il Nord Africa in subbuglio e il Daesh in Libia grazie anche ai pasticci europei, l’Italia è una postazione preziosa per gli Usa: a noi l’onere di non farci usare solo come rampa di lancio. Ma anche all’Italia serve, eccome, l’appoggio americano. Non sembra che il nostro Paese trovi troppo ascolto presso molti partner europei. E per sedersi a certi tavoli, la spinta di un amico grande e grosso serve davvero. È l’ennesimo caso in cui bisognerà riuscire a comporre la necessità e l’onore. L’una non senza l’altro.

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