http://piccolenote.ilgiornale.it/ 14 gennaio 2016
L’attentato in Indonesia e la frattura tra Iran e Arabia Saudita
Un bilancio che poteva essere ben più tragico: l’attacco dell‘Isis a Giacarta ha lasciato a terra un indonesiano e un funzionario dell’Onu, oltre a causare 7 feriti. Mentre cinque sono i terroristi uccisi dalle forze di sicurezza. È un bilancio provvisorio che indica, dato l’esito, che si è trattato di un attentato poco preparato e poco accurato. Tanto che si è potuto evitare uno scenario di tipo parigino, quello che secondo le autorità indonesiane si proponevano le forze del caos. Probabile sia stato improvvisato, usando della forza d’urto di miliziani locali, pochi per la verità, indizio che le forze del terrore non hanno ancora infiltrato in maniera significativa il Paese asiatico.
Dietro all’attacco all’Indonesia ci potrebbero essere le ragioni più disparate: tentare di dimostrare l’allargamento planetario del terrorismo internazionale; portare la sfida della destabilizzazione nello Stato islamico più popoloso del mondo (tale è l’Indonesia) per aumentare la propria massa di manovra; dar seguito all’attentato di Istanbul, ché il terrorismo ha necessità di alimentare in continuazione la sua sfida destabilizzante e la propria narrativa.
Detto questo ci potrebbe essere anche un’altra spiegazione, più specifica e significante, non necessariamente in contraddizione con quanto esposto. Tutto parte dalla decapitazione dello sceicco sciita Nimr al Nimr da parte dell’Arabia Saudita che ha creato una tragica frattura nelle relazioni tra Teheran e Ryad (vedi nota) con conseguente aumento della conflittualità tra sciiti e sunniti e il rallentamento del cammino del processo di pace siriano.
Una frattura che ha conosciuto una tragica impennata dopo l’attacco all’ambasciata saudita da parte di facinorosi iraniani e la conseguente rottura diplomatica con il vicino sciita da parte di Ryad. Da allora, però, sottotraccia, sono tanti ad adoperarsi per arginare la portata di questa pericolosa frattura.
In questa temperie si collocano le parole del principe ereditario saudita, Mohamed bin Salman, il quale ha chiarito che l’Arabia Saudita non è intenzionata a portare guerra all’Iran, aggiungendo che «“chiunque stia spingendo in quella direzione ha perso lucidità. Perché una guerra fra Arabia Saudita e Iran sarebbe l’inizio di una gigantesca catastrofe. E noi non permetteremo che accada”» (La Stampa, 8 gennaio: Riad cerca di rassicurare il mondo: “Non vogliamo la guerra con l’Iran”). . Frasi magari in linea con certa ambiguità saudita nei confronti del vicino iraniano e delle milizie islamiche di stampo jihadista, contrastate a parole ma in pratica sostenute. E però è possibile, ne abbiamo accennato in altro scritto, che all’interno del regime di Ryad non tutti condividano la linea anti-Teheran imboccata dall’attuale reggenza.
Al di là di possibili ambiguità sul punto, resta quanto scritto da Sergio Romano sul Corriere della Sera dell’8 gennaio: «“La chiusura dell’ambasciata potrebbe anche essere il picco di una crisi oltre il quale l’Arabia Saudita, dopo aver manifestato la sua collera, non intende spingersi. L’ambiguità in questi casi appartiene alle regole del gioco. Anche la diplomazia è un mercato in cui ciascuna della due parti nasconde fino all’ultimo minuto il sacrificio che è disposta a fare per evitare la guerra”» (A un passo dal conflitto la diplomazia di una crisi).
È di questi ultimi giorni, infine, l’apertura di credito di Teheran nei confronti di un piano di pace immaginato da Vladimir Putin, che si è posto come mediatore tra Teheran e Ryad. Non solo Putin, a cercare di calmare l’incendio divampato in Medio oriente ci sta provando proprio l’Indonesia (in una manovra probabilmente convergente con quella di Mosca).
Così ieri il ministro degli Esteri indonesiano, Retno Marsudi, era in Iran per poi giungere oggi in Arabia Saudita. "Il Califfato non può accettare un appeasement tra sauditi e iraniani, che restringerebbe i suoi margini di manovra e favorirebbe il processo di pace siriano. Così ha risposto a suo modo." |