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07-07-2016

 

Propaganda Isis in lingua bengali: «Combatteremo fino alla fine»

di Matteo Miavaldi

 

A nemmeno una settimana dalla strage di Gulshan, prima manifestazione plastica di una innegabile presenza dell’Isis in Bangladesh, le squadre della propaganda mediatica del Califfato passano a incassare i dividendi del terrore, rilanciando la minaccia di un’offensiva islamista nell’area.

Lo fanno con un video, diffuso nella giornata di ieri dall’agenzia di stampa Amaq: cinque minuti di immagini prese da telegiornali in inglese che inseriscono l’attentato all’Holey Artisan Bakery nella striscia di attacchi che dal 2015 hanno insanguinato Egitto, Parigi, San Bernardino, Bruxelles, Orlando fino, appunto, a Dhaka (si nota la curiosa assenza di Istanbul e Medina). Per ogni segmento, gli effetti speciali della grafica annotano morti e feriti, sopra ai sottotitoli in arabo e in bengali.

 

Il video, intitolato «Ai cavalieri del Califfato in Bengala» (Bengala, non Bangladesh, indicando quindi una regione più vasta che sfocia fino all’India nordorientale e a parti del Myanmar occidentale), prosegue con le interviste a tre jihadisti, probabilmente registrate a Raqqa, che per la prima volta in lingua bengali – uno, in parte, in inglese – ribadiscono la minaccia di Isis, che vorrebbe fare del Bangladesh la propria base per sferrare attacchi in India e in Myanmar, come riportato in un articolo comparso nell’edizione di aprile di Dabiq – il magazine patinato di Isis – dedicato al jihad in Bengala.

 

I tre, sicuramente di origini bangladeshi ma ancora non identificati, secondo i media locali, rivolgendosi a un immaginario pubblico bangladeshi attaccano il governo democratico di Dhaka: «Come fate a sostenere un simile shirk (ndr, il peccato di idolatria, nell’Islam) come la democrazia? Non sapete che [la democrazia] dà il potere di far applicare le leggi al popolo mentre [secondo il Corano] il potere spetta solo ad Allah?».

Di conseguenza, chiunque appoggi la democrazia bangladeshi viene bollato come kafir (infedele), nemico da combattere ad ogni costo, fino al martirio.

 

In inglese, il primo intervistato spiega: «Voglio mandare questo messaggio ai crociati, ai cristiani, agli ebrei e ai loro alleati. Quando il nostro sheikh Adnani, riferendosi a Abu Mohammad al Adnani, portavoce dell’Isis, ci ha ordinato di combattere contro di voi, non stava scherzando. Noi combatteremo fino alla fine. O vinceremo, o otterremo la vittoria, o otterremo la “shahada”, ovvero il martirio [il termine shahada, in arabo, indica anche la dichiarazione di fede all’Islam: «Non c’è altro Dio all’infuori di Allah e Maometto è il Suo profeta»]. Non abbiamo nulla da perdere e questa è una battaglia che non potrete vincere mai».

 

Il video propagandistico, arrivato in seguito alle prime rivelazioni delle indagini che collegano i sei ragazzi del commando di Gulshan a un predicatore estremista islamico e a un presunto reclutatore online, entrambi cittadini indiani, ha messo in allarme i servizi di intelligence oltreconfine: sia la Research and Analysis Wing (la Cia indiana) sia il dipartimento di intelligence della polizia del Bengala occidentale hanno esteso l’allarme alle autorità centrali di New Delhi, paventando la minaccia che l’India possa essere nel mirino di nuovi attentati targati Isis (e finora non ce ne sono mai stati).

 

Rimane il grande dubbio che affligge tutti i governi del subcontinente indiano: la propaganda di Isis riflette una penetrazione avanzata del Califfato nel tessuto sotterraneo della comunità islamica locale – tradizionalmente espressione del sufismo, la branca mistica dell’Islam, ma negli ultimi anni minacciato dall’avanzata del wahabismo sostenuto economicamente dall’Arabia Saudita – oppure si tratta di esche lanciate a gruppi terroristici autoctoni con l’obiettivo di inglobarli?

 

Si tratta di una differenza dirimente, poiché nel primo caso ci troveremmo davanti a un consolidamento anche logistico dei gangli del terrore di Isis, con un potenziale destabilizzante di gran lunga maggiore dei numerosi gruppi minori, in lotta tra loro, già censiti in Bangladesh.

 

Domande che si spera troveranno una risposta entro massimo il 24 di agosto, quando la Corte di Dhaka dovrebbe ricevere il rapporto finale della polizia di Gulshan sull’attentato di venerdì scorso.

 

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