Memo. Infopal 27/6/2016
Israele chiede una maggiore pulizia etnica Traduzione di Domenica Zavaglia
Israele è uno stato che deve la sua esistenza a pulizie etniche, massacri e guerre apparentemente infinite. Gli eventi del ’47-’48, quando lo stato fu fondato, sono conosciuti come la “Nakba”, una catastrofe per gli Arabi. Questo per il semplice fatto che ben 750 mila Palestinesi sono stati espulsi dai violenti militari sionisti che poi costituiranno l’esercito israeliano. La Palestina è stata letteralmente cancellata dalle mappe, e i rifugiati mandati in esilio negli stati vicini. Loro e i loro discendenti non possono ancora fare ritorno. Da quella palese ed estensiva campagna di pulizia etnica, Israele è stato coinvolto in un lento e insidioso processo di rimozione delle persone rimaste in terra palestinese. Con la colonizzazione e l’annessione di terre palestinesi, lo stato ha pian piano rimosso tutti i palestinesi. Colonie di soli ebrei, descritti in termini eufemistici come “insediamenti”, sono state poi costruite nelle terre da cui i palestinesi sono stati violentemente scacciati. In alcuni casi, come a Hebron e Gerusalemme, gli estremisti ebrei hanno preso la situazione in mano, prendendo prima l’esercito israeliano e istituendo poi dei sistemi di corte per legittimare in modo retroattivo questi vili atti di furto e aggressione. In altri casi, la loro fame è stata saziata in modo differente. In entrambi i casi, l’effetto è lo stesso per le vittime palestinesi: la pulizia etnica. Ma i palestinesi hanno rifiutato di farsi intimidire, e continuano la loro lotta secolare contro il progetto sionista. Resistono tutti i giorni, in primo luogo con il semplice fatto di continuare a esistere nella loro terra. Questo, più di ogni altra cosa, vanifica il progetto di insediamento coloniale. A causa di ciò, le voci estremiste in Israele sono sempre più in crescita, affermando che un lento processo non porta nulla di buono. Chiedono un’espulsione rapida. Queste voci, che una volta erano agli estremi del sionismo, sono ora al centro della scena – anche nel governo, come ho precedentemente fatto notare. Lo testimoniano questo mese le provocazioni da parte di fanatici israeliani della “Giornata di Gerusalemme” nella capitale occupata della Palestina storica. Come riportato da David Sheen e Dan Cohen, l’evento annuale è il più grande raduno annuale di “Morte agli Arabi”. Quest’anno si potevano leggere manifesti che inneggiavano all’espulsione dei Palestinesi, “Non può esserci convivenza con loro (i Palestinesi), trasferiteli, adesso”, che venivano liberamente distribuiti durante la marcia dell’attivista di estrema destra Baruch Marzel. Dei giovani ebrei intonavano “Possa il tuo villaggio bruciare!” mentre marciavano verso la Città Vecchia. Tema principale era la distruzione della Moschea di Al-Aqsa – il terzo luogo sacro dell’Islam. Il movimento cosiddetto “Tempio fedele” vuole sostituirlo con un “Terzo tempio”. In realtà, questo è più una provocazione nazionalista che un anelito religioso. La pratica ebraica tradizionale riteneva che il “Monte del Tempio” fosse il luogo “Santo dei Santi” delle storie della Bibbia – il luogo stesso della presenza di Dio sulla Terra. Perciò gli ebrei osservanti non dovevano avvicinarsi. Queste voci popolari di agitazione fascista vorrebbero schiacciare ogni forma di esistenza palestinese sulla terra. Affermano la superiorità di Israele. Certamente estremisti in ogni modo, queste persone sono, purtroppo, sempre più vicino al centro politico in Israele. Durante il raduno del giorno di Gerusalemme al Muro del pianto (Muro di Buraq, ndr), uno dei capi rabbini di Israele (che sono finanziati dallo stato) ha chiesto la distruzione di Al-Aqsa. Uri Ariel, ministro dell’Agricoltura, colono che vive in Cisgiordania, ha raccolto l’eco di tali appelli: “La sovranità è nel potere dello Stato di Israele, lo dobbiamo usare e implementare in tutti gli ambiti. Diciamo al primo ministro Netanyahu che è il momento per la sovranità. Il tempo per la sovranità sul Monte del Tempio è arrivato”. Pochi giorni dopo Ariel ha chiesto che l’Area C della Cisgiordania (che costituisce il 60 per cento della superficie) venga allegata formalmente ad Israele. Sottovalutando le cifre relative alla popolazione palestinese in quelle regioni, ha affermato: “Queste sono zone dove non ci sono arabi, ad eccezione di poche migliaia che non costituiscono un fattore numerico significativo” Deve evidentemente fare i conti con la realtà, dato che l’annessione implica che le persone che vivono in quei territori avranno la piena cittadinanza israeliana, cosa che il cosiddetto “stato ebraico” vuole assolutamente evitare quando si parla di Arabi. La probabile alternativa alla cittadinanza sarebbe la pulizia etnica: cacciare con la forza i palestinesi che vivono lì. Infatti, in una precedente intervista dei Tempi di Israele in cui Ariel chiede l’annessione, in modo definitivo il ministro afferma: “Ne rimuoveremmo qualche migliaio, che di per sé non costituisce un numero significativo”. Più tardi, il sito web ha corretto dicendo che si trattava di un “errore di traduzione” poiché il ministro non chiedeva l’evacuazione. Qualunque sia la verità, l’annessione dell’Area C è uno dei punti di forza del partito di Ariel, “Casa ebraica”. Il partito fa parte della coalizione di governo ed è costituito da un gruppo di coloni privi di qualsiasi misura oggettiva. Il piano di annessione non tiene conto del numero di Palestinesi che vivono nella parte più rurale. Infatti, secondo dati più realistici, sono più di 150 mila i Palestinesi che vivono lì. Indipendentemente dai numeri, la pulizia etnica è chiaramente la logica imperativa. Israele deve essere fermato. |