il Fatto Quotidiano 6 gennaio 2016
Non è un plebiscito su Renzi. In gioco c’è la democrazia di Silvia Truzzi
I tempi: “L’11 gennaio le riforme saranno votate dalla Camera, ragionevolmente si andrà a stretto giro al Senato. Immaginiamo il referendum a ottobre 2016”. E i modi: “Se perdo il referendum costituzionale considero fallita la mia esperienza in politica”. Nella conferenza stampa di fine anno, Matteo Renzi ha dettato le condizioni. Più della sicumera, a preoccupare è la volontà di legare il proprio destino al cambiamento della Carta: se il referendum diventa un plebiscito a favore o contro il premier, il contenuto delle riforme passerà in secondo piano. Per questo il comitato dei No alla riforma è già in piena attività: lunedì ci sarà un primo confronto, nella sala della Regina alla Camera dei Deputati, proprio mentre a Montecitorio i deputati voteranno il ddl Boschi: tra i relatori ci sarà anche Gaetano Azzariti, ordinario di Diritto costituzionale alla Sapienza.
Professore, quali sono i rischi della personalizzazione del Referendum? Renzi ha ragione: il referendum costituzionale è più importante delle amministrative. Sbaglia però, per egocentrismo, pensando che la rilevanza della sfida sia legata alla sua persona. La posta in gioco è ben più importante, concerne la qualità del nostro sistema democratico. Con questo referendum si deve stabilire se si deve porre il suggello ad un ventennio di regresso o se è possibile immaginare una ripartenza per una riqualificazione della democrazia. Il pericolo che vedo è che il dibattito pubblico non sia incentrato sul contenuto delle riforme, bensì solo sulla figura del presidente del Consiglio.
Per come l’ha messa il premier sembra che il referendum sia una gentile concessione. O una regalia. I miei studenti vengono bocciati su questa domanda: basta leggere l’articolo 138. C’è scritto che in seconda votazione è necessaria la maggioranza dei due terzi. Tutto si può immaginare salvo che questa maggioranza qualificata venga raggiunta. Quindi il referendum potrà essere richiesto da quei soggetti elencati nell’articolo richiamato: tra questi non figura il governo.
I sostenitori del ddl Boschi puntano sui futuri risparmi del Senato dimezzato. Vogliamo risparmiare? Chiudiamo il Parlamento. Vuol mettere il risparmio? Battute a parte, l’argomento è poco nobile. Per tagliare le spese basterebbe una diminuzione del numero dei nostri rappresentanti e degli emolumenti che percepiscono. Mille parlamentari sono troppi, ridurre però solo il numero dei senatori è un sintomo di falsa coscienza.
Cosa vi proponete di fare con i Comitati del No? Bisogna in tutti i modi evitare di farsi trascinare nella rissa mediatica a base di slogan per concentrarsi sulle effettive ragioni di contrasto. Il primo punto riguarda la crisi della rappresentanza: la riforma e la nuova legge elettorale cercano di definire una democrazia senza popolo. Questa tendenza va contrastata proponendo un rilancio della rappresentanza politica: senza popolo non si governa democraticamente. L’altro elemento di crisi riguarda il sistema parlamentare. Il dibattito di questa riforma è stato dominato dalle tecnicalità del bicameralismo perfetto, perdendo di vista la crisi in cui versa il Parlamento. Io credo che sarebbe necessario riformare le istituzioni per dare più potere al Parlamento e meno al governo: l’opposto di quanto la maggioranza sostiene ora. I veri conservatori sono coloro che sono al governo: la riforma Boschi è in stretta linea di continuità con il ventennio precedente, caratterizzato dalla conservazione.
Avete parlato di nuovo di “torsione autoritaria”. Mi stupisce la finta ingenuità della politica: negli studi di Diritto costituzionale se ne parla da vent’anni. Bisogna chiedersi se Italicum e ddl Boschi favoriscono o contrastano la tendenza verso la verticalizzazione del potere. Mi pare evidente che la risposta è affermativa.
Può chiarire la questione del referendum con funzione oppositiva? L’articolo 138 prevede che possano fare domanda di referendum “un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali”. È uno strumento pensato per le minoranze che si vogliano opporre alla decisione del Parlamento. Il referendum del 2006 contro la riforma del centrodestra ne è un esempio: il corpo elettorale ha cancellato la decisione assunta dal Parlamento. Nel 2001 fu invece la maggioranza di centro sinistra a chiedere un’inutile conferma della riforma del Titolo V, snaturando la natura del referendum che da oppositivo si è fatto plebiscitario. Mi pare che Renzi abbia intenzione di riproporre questa formula: ma il referendum o è oppositivo o non è. |