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8 feb 2016

 

Il detenuto-desaparecido Giulio Regeni poteva essere salvato

 

I primi risultati dell’autopsia a Giulio Regeni, che datano la morte a poche ore prima del ritrovamento del corpo, affermano senza equivoci che il dottorando friulano è stato per circa nove giorni un detenuto-desaparecido nelle mani di qualche polizia o corpo paramilitare della dittatura amica di Al Sisi, al quale l’ambasciatore Massari rende addirittura il merito per aver contribuito a ritrovarne i resti.

In questi nove giorni Regeni è stato torturato, umiliato, massacrato, ma è rimasto in vita extragiudizialmente in una caserma o in una prigione clandestina all’interno di un contesto tutt’altro che caotico, ma organizzato e metodico come è SEMPRE organizzata e metodica la repressione del dissenso nei regimi di polizia quali quello egiziano. Dei discorsi di oggi, in presenza del corpo massacrato di Giulio, delle richieste di verità importa poco, ministro Gentiloni. È di quando la notizia faceva fatica a farsi strada che dovremmo parlare. Lo sapete o no che, con Giulio ancora in vita, i messaggi sui social che si appellavano a #whereisgiulio, compresi i miei se posso, raccoglievano un infinitesimo di condivisioni rispetto a qualunque stupidaggine?

Durante i nove giorni nei quali Giulio Regeni è rimasto vivo nelle mani dei suoi torturatori, un gran numero di persone, con vari livelli di responsabilità, all’interno della catena di comando che da Al Sisi portava giù fino a chi gli ha spezzato l’osso del collo, e poi ha buttato i suoi resti in quel fosso della periferia del Cairo, sapevano chi fosse e dove fosse. Qualcuno ha sequestrato Giulio Regeni extragiudizialmente, qualcuno gli ha presumibilmente estorto informazioni con la tortura, qualcuno ha avuto interesse a tenerlo in vita per nove giorni e infine deciso che dovesse morire. Qualcuno ha ritenuto più opportuno che il corpo fosse ritrovato invece di farlo sparire per sempre. Tutte queste persone fanno parte di un’organizzazione criminale nota che chiamiamo “Terrorismo di Stato”. Quando il Terrorismo di Stato è applicato da governi amici, non necessariamente dittatoriali, come fu per il GAL spagnolo, si chiude sempre un occhio.

Tutto ciò dimostra che Giulio poteva essere salvato. Bastava toccare i fili giusti; e sia il corpo diplomatico che i servizi segreti sono pagati per saperli toccare. Nelle strade può succedere di prendere una pallottola destinata ad altri, ma nelle camere di tortura non si muore per sbaglio o per caso. Fosse morto immediatamente, avremmo ancora potuto nasconderci dietro a un dito. Ma nove giorni è durato il calvario del ragazzo.

Quanta pressione la Farnesina e il governo italiano hanno messo sul governo egiziano in quei nove interminabili giorni nei quali Giulio agonizzava nelle mani degli aguzzini? Quanti titoli sui giornali ci sono stati sulla sua sparizione dal 25 gennaio al 3 febbraio, mentre il supplizio di questo ragazzo italiano si compiva? Perché finché era in vita non è diventato un caso nazionale? Quanta pressione ha messo l’opinione pubblica sui giornali e sulla politica perché in ognuno di quei nove lunghissimi giorni è stato possibile salvargli la vita e non è stato fatto? Perché Giulio Regeni non è diventato il fratello e il figlio di tutti, come lo diventò Valeria Solesin assassinata il 13 novembre al Bataclan di Parigi? Perché non era un Marò o un giornalista con l’articolo uno, ma un lavoratore precario della ricerca nelle neglette scienze umane e sociali? Era uno che se l’è cercata, che faceva un’inutile ricerca su chissà chi, stando a spasso per il mondo a spese del governo inglese? Perché il detenuto-desaparecido Giulio Regeni non era importante e il morto ammazzato Giulio Regeni lo è almeno in parte diventato?

La risposta a tutte queste domande è scontata. La pressione fatta dalla nostra Ambasciata e dal nostro governo ad un regime autoritario al quale abbiamo appaltato la tenuta dell’ordine in quell’area disordinata e firmato lucrosi contratti, non è stata sufficiente a salvargli la vita. Il governo egiziano è sì un’idra, ma bisogna avere pazienza. I giornali non sono pervenuti, i corpi intermedi, associazioni e movimenti sono stati bastonati per anni nella loro credibilità e forse l’hanno davvero un po’ perduta, l’opinione pubblica da tempo non ha più un’agenda autonoma dal potere mainstream, nonostante la Disneyland dei social network farebbe pensare il contrario.

La non fatalità della morte di Giulio Regeni rende così ancora più emblematico il suo caso. Giulio paga il voler capire e studiare un mondo, nel suo caso quello arabo, che all’italiano e all’occidentale medio viene rappresentato come il regno degli stereotipi, tutti negativi, come testimoniò il famoso editoriale di Maurizio Molinari su La Stampa sui presunti stupratori di Colonia. È questo il grande inganno della cosiddetta libertà di stampa, non deviare mai da una rassicurante conferma degli stereotipi e delle semplificazioni accomodanti. Chi come Giulio consuma scarpe per capire realtà complesse e smontare stereotipi non è utile, anzi.

Non solo sui giornali, anche nell’università italiana non c’era posto per Giulio Regeni, nel paese che da decenni forma studiosi e li regala, alla Gran Bretagna, alla Francia, alla Germania, perché ha deciso di disinvestire sulla comprensione del mondo. A cosa serve studiare l’Egitto? Li regala l’università italiana questi studiosi, così come ha regalato il battito del cuore di Giulio ai suoi aguzzini per quei nove interminabili giorni. Nel frattempo, quegli stessi che nell’era Bush si erano riempiti la bocca della retorica perversa dell’esportazione della democrazia, oggi si contentano di sostenere i nostri “figli di puttana”, da Al Sisi a Erdogan, come degli Anastasio Somoza qualsiasi, e la grande stampa dà loro ragione: ci vuol pazienza con Al Sisi, scrivono quelli abilitati a scrivere sui giornali. Meglio lui che il caos per quei popoli incivili. Purtroppo sì, in questo mondo e in questa Italia Giulio Regeni se l’era cercata.

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