http://www.notemodenesi.it/

Set 15, 2016

 

Nel turbine della storia: i miei giorni in Palestina

di Alessandra Pellegrini De Luca

 

Aggregata come volontaria a una piccola ong di Spilamberto, ho trascorso tre settimane in agosto tra Palestina (e Israele). Partita libera da ogni pregiudizio, il mio è stato un viaggio di conoscenza, "senz’altro scopo che quello di capire". Ecco quel ne ho ricavato. Prima parte.

 

Wadi Fukin è un villaggio rotolato in fondo al burrone della Storia. Arrivando da lontano, l’impatto visivo parla sé, e riassume i decenni di un conflitto su cui un viaggio di tre settimane si apre come una voragine. È questo, prima di tutto, che questo viaggio ha lasciato a me e ai ragazzi con cui sono partita. Come volontari di una piccola ong di Spilamberto, abbiamo trascorso quei giorni di agosto in Palestina. È stato un viaggio di conoscenza, siamo partiti senz’altro scopo, parafrasando Kapu?ci?ski, che quello di capire.

In effetti, dopo un viaggio del genere, le possibilità sono tre: non volerne sapere più nulla, perché troppo immenso è il groviglio di torti, ragioni, alibi e prevaricazioni che insanguina quella terra. Non voler sapere altro e farsi bastare il presente, sposando definitivamente la resistenza di chi combatte chi adesso ha, indiscutibilmente, il coltello dalla parte del manico. Oppure, e qui parlo per me, rendersi conto che rovesciare lo sguardo su Israele e Palestina implica la responsabilità di capire. E quindi studiare, leggere, tornare. Esercitare il proprio spazio critico sul passato, magari, più che su un presente che parla da sé, e non ammette opinioni di nessun tipo. Questa, credo, è la premessa necessaria per raccontare un po’ per volta quello che abbiamo visto. Per quanto mi riguarda, è un inizio.

Wadi Fukin, dicevo, è stata la nostra tappa principale, il nostro campo base, ed è un villaggio rotolato in fondo al burrone della Storia. È questo quel che appare, quando la sua posizione si staglia nel panorama. Wadi Fukin è un villaggio schiacciato tra la Green Line, la linea che divide lo Stato di Israele da quello di Palestina, e una colonia grande più o meno come Bologna, che progressivamente cola giù dalla collina. Si chiama Beitar Illit, ed è stata costruita nel 1985. Ricostruita, stando a quel che dice la sezione “historical background” del suo sito (a proposito, visitatelo). Ricostruita perché, dicono, esisteva nell’Antica Roma ed è citata nel Talmud: poi è scomparsa per duemila anni, e adesso è toccato ricostruirla. Continuare a costruirla. Le ruspe, infatti, lavorano incessantemente ogni giorno. Due dei nostri compagni di viaggio erano stati a Wadi Fukin anche durante l’estate del 2015: la differenza nel panorama è stato il loro primo silenzio. Dall’altro lato, come dicevo, la Green Line. Anche in questo caso, un confine inesistente: la colonia di Tsur Hadassah, infatti, sbrodola sempre più giù dall’altra collina, oltre il confine israeliano. I muri di recinzione vengono costruiti, distrutti e ricostruiti due palazzi più giù. Nella gola di questa valle occupata, insomma, c’è Wadi Fukin. Un villaggio agricolo, un contesto rurale palestinese. Qualcosa di cui non si parla granché, un piccolo tassello di questa Storia più grande.

Proprio per questo, proprio perché Wadi Fukin non è né Hebron né Nablus, verosimilmente, è destinato a scomparire. Viverci per poco tempo ha significato capire perché, ascoltare le storie, immergersi in un contesto tanto emblematico quanto minuscolo. Come volontari, abbiamo lavorato ogni mattina la terra con i contadini. Non c’era, naturalmente, bisogno di un aiuto vero e proprio in questo senso. Ma poteva suonare abbastanza strano, abbastanza fuori luogo, bussare a un qualunque portone palestinese chiedendo: “scusi, lei come vive questo conflitto? Scusi, qual è la sua storia? Scusi, lei cosa ne pensa del futuro?”. Entrare in contatto con chi questo conflitto ce l’ha inscritto nel dna, vivere una dimensione quotidiana con loro: questo ci ha permesso di poter cominciare a costruire il puzzle. E sarebbe un racconto lungo come ogni istante trascorso tra quei campi, a dirla tutta. Ci sono immagini, però, da cui partono storie, considerazioni più ampie, necessarie a qualsiasi attivismo che non sia becera lotta in cui piantare una bandiera.

A Wadi Fukin, la giornata comincia all’alba. Comincia con litri di caffè. Un po’ per svegliarsi prima di lavorare nei campi, un po’ perché il caffè è come dire benvenuto. A Wadi Fukin, si dice benvenuto mediamente cinque volte al giorno, con un qahwa (caffè) profumato al cardamomo. Nella piazzetta del villaggio, i ragazzi più giovani si organizzano per andare a lavorare tutti insieme. Alcuni in macchina, altri in fila indiana. La strada è sempre la stessa e risale le colline, da un lato e dall’altro. La maggior parte dei ragazzi palestinesi di Wadi Fukin lavora nelle colonie israeliane. Nel frattempo, le colonie israeliane colano giù dalle colline, proprio sulle loro case. Può sembrare una contraddizione in termini, ma a Wadi Fukin il futuro è una via senza uscita che torna indietro su se stessa. Il 60 per cento dell’economia del villaggio, infatti, è agricola. Ma gli insediamenti in espansione divorano pian piano la terra, e i più giovani, quelli che non possiedono un campo, finiscono per andare a lavorare come muratori nelle colonie. Non è facile avere alterative per trovare uno stipendio: Wadi Fukin, come molti altri contesti rurali palestinesi, è isolato da altri punti della Palestina. Le vie di comunicazione sono progressivamente interrotte da insediamenti, o check point. Molti palestinesi hanno il divieto assoluto di entrare in Israele. Non servono risse o manifestazioni armate, spesso. Basta una manifestazione pacifica, lo sventolamento di una bandiera. La lite con un soldato che ti fa stare due ore in coda al checkpoint, e tu magari lavori tutte le mattine dell’altra parte. Tutto ciò che presenta “pericolo di terrorismo” secondo le leggi di uno Stato che, bisogna farci i conti, è in guerra da quasi settant’anni (e anche di più). E quindi a Wadi Fukin nessun movimento di protesta, nessuna manifestazione prende piede: si tratterebbe di rivoltarsi contro se stessi, contro il proprio datore di lavoro. Contro i propri figli, per i più anziani.

Durante il giorno, mentre i contadini lavorano una terra destinata a scomparire, alcuni dei loro nipoti lavorano proprio con le ruspe che fanno da sottofondo durante tutta la giornata di lavoro nei campi. Sarebbe anche un bel posto, Wadi Fukin, con tutti quegli ulivi e quei campi assolati. Ma alzando lo sguardo oltre l’orlo della piantagione, l’orizzonte è un cantiere in costruzione. O una distesa di ulivi bruciati. Il conflitto a bassa intensità che si respira sul confine di Israele e Palestina è anche questo: scaramucce, dispetti, odio senza volto portato avanti con piccoli gesti. La sera prima che arrivassimo, un gruppo di coloni ha dato fuoco a un campo di ulivi. Una delle nostre prime sere nel villaggio, seduti nel patio di un contadino, abbiamo notato una luce verde muoversi insistentemente nella nostra direzione, e poi su tutto il villaggio. Ogni tanto, più o meno un giorno sì e uno no, dalla colonia partono laser agitati a casaccio sul villaggio. Durante la nostra prima mattinata di lavoro, invece, un gruppo di coloni è sceso sul confine del campo di Abu Wael, il contadino da cui stavamo lavorando. Il gruppo è sceso a bordo di una macchina scalcagnata e rumorosa, per poi scendere e dirigersi verso di noi. Nulla a che vedere con i civilissimi ebrei ortodossi che popolano le strade di Gerusalemme, coi loro riccioli e cappotti neri che si muovono in massa fuori città il venerdì sera, per prepararsi al Sabbath.

Gli israeliani delle colonie di confine sono, spesso, poveracci dell’Est Europa (quando non sono fanatici ultraortodossi). Il governo di Netanyahu paga loro la casa e una quota mensile per la semplice occupazione di occupare: in tal caso, avere parentele ebraiche può essere più comodo che riparare tubi a domicilio in una qualunque città italiana per guadagnarsi da vivere. Sono scesi dalla macchina, armati, e si sono spogliati tuffandosi nella sorgente d’irrigazione del campo: una piscina di pietra un po’ sporca, ma pur sempre una piscina della terra promessa in cui è lecito rinfrescarsi, facendo schiamazzi e cercando di provocare la rissa. Abu Wael, chino sulle sue foglie di insalata, ha continuato a lavorare, silenzioso e passivo, raccomandandoci di fare lo stesso. E noi lo abbiamo fatto, fino alla rinuncia dei coloni, che si sono rivestiti, e sono saliti in macchina tornando a Tsur Hadassah. Poco dopo, all’ombra di un ulivo, Abu Wael ha arrangiato un fornello con del legno e ci ha servito un tè alla menta profumatissimo, e dei fagottini di formaggio e zatar preparati da sua moglie. È sempre così, ha detto, ma l’importante è far finta di non vedere, e continuare a lavorare la terra. Mi raccomando, ha detto, togliete tutte le erbacce intorno ai cavoli, altrimenti tolgono energia alla pianta, e poi cresce male. Lo abbiamo fatto, e mentre lo facevamo ci chiedevamo che senso avesse prendersi cura ogni giorno di una terra destinata a scomparire, ad inaridirsi.

Ma in fondo, a Wadi Fukin, il conflitto a bassa intensità assume vari volti. Quello della resistenza passiva, e anche quello della rassegnazione. Una sera, nel villaggio, Ibrahim ci ha fatto incontrare i ragazzi più giovani. Ibrahim è il responsabile del PARC (il Palestinian Agricoltural Relief Committes, ong palestinese operante nello sviluppo rurale), e quella sera ha voluto farci incontrare i ragazzi di Wadi Fukin per parlare di eventuali progetti futuri insieme a loro. Alla proposta di unire le loro forze e presentare un progetto comune (alcuni di loro insegnano la dabka, tipico ballo palestinese, ai bambini, altri musica o calcetto), loro hanno risposto che subiscono l’occupazione, che non ci sono prospettive, che qualsiasi progetto non uscirà dal villaggio, che è inutile e non serve a niente. E lo si respira, quando i bambini in vacanza da scuola ciondolano qua e là per le strade un po’ malandate del villaggio. O quando un bambino si avvicina per giocare a palla e ti porge una piccola bombetta a gas trovata per strada. Negli occhi di Ibrahim, che parlava ai ragazzi della generazione successiva con alle spalle il cielo stellato in costruzione dei lampioni della colonia, il conflitto a bassa intensità ha la misura di una sfida. “Dovete smetterla di vittimizzarvi per l’occupazione: – ha detto – l’occupazione è un problema solo nella vostra testa, finché non avete fiducia nel futuro che è prima di tutto in mano a voi”.

“Siete giovani, non potete pensare che il vostro futuro sia quello, dovete costruirvelo, il vostro futuro. Con un progetto, con un obiettivo che sia prima di tutto vostro: l’occupazione non la dovete subire, ma la dovete combattere”. “E non si combatte lanciando le pietre ai coloni: ma rimanendo qui e cominciando a costruire la vostra vita partendo da qui”, ha concluso, mentre, come quando eravamo nel campo a togliere erbacce dai cavoli, eravamo obbligati a chiederci cosa significasse, lì, e anche per noi, il futuro.

Il conflitto a bassa intensità ha mille volti. Anche quello della gioia e della noncuranza, come durante il matrimonio cui siamo stati invitati. È durato due giorni, gli uomini in un punto del villaggio, a ballare dabka e a bere litri di caffè, e le donne in un altro, ballando musiche pacchiane in mezzo a un’esplosione di stoffe colorate e occhi allungati. Le donne e gli uomini di Wadi Fukin, durante i due giorni di matrimonio, ballano fino a notte fonda. Le donne, quando ballano tra loro e non ci sono uomini in mezzo ai piedi, sfoggiano tacchi alti e mini gonne vertiginose. E noi, che la cosa più chic che ci eravamo portate era una lunga gonna di lino, cercavamo di seguirle ballando in cerchio. Sullo sfondo, c’era sempre il cielo stellato in costruzione della colonia, ma in quel momento Wadi Fukin se ne fregava.

Quel conflitto, una sera, ha avuto anche il volto di una storia molto più grande di no, nelle parole di Joseph. Ha novantatrè anni ed è il più anziano del villaggio. Abita a due passi dalla sua casa distrutta nel 1948: è ancora un rudere e ce la indica mentre parla arabo lentamente, appoggiato a un bastone. È nato a Wadi Fukin e nel 1948 è scappato, quando Wadi Fukin è stata sgomberata, nel vicino campo profughi di Dheisheh. Fino al 1972, Wadi Fukin è stata un inferno. Lo era stata anche prima del 1948, racconta Joseph, quando le milizie ebraiche saccheggiavano e rapinavano. Dopo il 1948, la gente di Wadi Fukin poteva entrare solo in determinate fasce orarie, per lavorare i campi, e poi doveva obbligatoriamente andare via. Ma le vie di comunicazione erano interrotte, e qualcuno restava a dormire di nascosto. Qualcuno è stato ucciso, sia durante che oltre le fasce orarie permesse. Nel 1972, dopo la guerra dei sei giorni, Israele ha dato un ultimatum alla gente di Wadi Fukin: se fossero tornati tutti in una notte, sarebbero potuti restare. Sono tornati, e nel giro dei mesi successivi uomini e donne insieme hanno ricostruito tutto. Ora Joseph parla sedendo all’ombra di un ulivo, nel patio della casa in cui, verosimilmente, resterà per sempre. È avvolto in un abito tradizionale arabo e noi lo ascoltiamo per tre ore. Per parlare con noi salta anche la preghiera in moschea. Solo verso la fine, al richiamo dell’imam, si alza sorretto da una sua nipote per sedersi verso la Mecca e pregare in silenzio qualche minuto. Poi si risiede, appoggiato al bastone, e ricomincia a raccontarci di cosa è stata Wadi Fukin, dalla sua infanzia, negli anni Venti, fino ad oggi. Noi lo ascoltiamo e pensiamo a quanto possa essere immediato incrociare un percorso così lontano nello spazio come nel tempo, e ascoltare la sua voce antica.

 

Wadi Fukin, oltre al conflitto a bassa intensità, è anche un luogo nel Sud del mondo. E come tale è ospitale. Andare a Wadi Fukin è un po’ come andare a trovare la nonna calabrese: si mangia, si mangia tantissimo. Continuamente, mediamente cinque volte al giorno. Pane arabo, hummus, zatar, formaggio palestinese, makhlouba (rovesciata di riso e pollo speziato con la frutta secca), fagottini di pane sofficissimi ripieni di erbe fresche, dolci di semola di grano duro e pasta di dattero (ma’amoul), tè zuccheratissimi e profumatissimi. Spesso in compagnia, con famiglie allargate di quindici persone tra zii nipoti coniugi e bambini. Durante una di quelle sere, non c’è stato neanche bisogno di mediazioni linguistiche.

In fondo, Wadi Fukin è un posto come un altro. Ha solo questa dimensione soffocata, schiacciata tra due file di palazzi arroccati che sembrano una Genova brutta e senza mare, che ti costringe a voler sapere come ci sia finito, in fondo al burrone della Storia, a come si possa permettere a due diaspore, perché sono due, di trovare una terra senza insanguinare quella altrui. È una dimensione utopica, forse per questo ci pensa la spiritualità. Una delle ultime sere, al tramonto, il villaggio e le ruspe tacevano. Era uno di quei momenti magici in cui il richiamo dell’imam aleggia su tutti i tetti. In arabo, proprio rimbalzando contro la schiera di palazzi dell’insediamento, l’imam parlava di convivenza e rifiuto di ogni violenza. Anche in quel caso, il tuo sguardo estraneo era obbligato a interrogarsi su quel confine.

 

Alessandra Pellegrini De Luca Nata a Genova, ma modenese da qualche anno dopo diversi pellegrinaggi. Laureata in Lettere Moderne e in Italianistica, collabora con la Gazzetta di Modena e altri giornali locali. Ama la scrittura in ogni sua forma.

top