Tratto da: Occhi della Guerra http://www.controinformazione.info/ Mar 19, 2016
L’idea imperiale di Putin Matteo Carnelietto intervista Paolo Borgognone
Non è facile comprendere una Nazione geograficamente ampia e storicamente ricca come la Russia. Paolo Borgognone, giovane studioso di soli trentacinque anni, sembra avercela fatta.
Nel suo Capire la Russia. Correnti politiche e dinamiche sociali nella Russia e nell’Ucraina postsovietiche(Zambon Editore), Borgognone ripercorre la storia del pensiero filosofico e politico di questo Paese. Dal titolo si comprende già come i destini della Russia e quelli dell’Ucraina siano legati a doppio filo (e non può essere altrimenti dato che la Rus’ – la forma embrionale della Russia – nasce a Kiev). Il 1989 è l’anno zero della Russia. Perché? Cosa cambia nel Paese? Il 1989 è l’anno di quella che l’insigne filosofo Costanzo Preve (1943-2013) definì, assai appropriatamente, “maestosa controrivoluzione dei ceti medi sovietici” che condusse allo smantellamento dell’Urss e alla frammentazione geopolitica dell’immenso (e millenario) impero bicontinentale (eurasiatico) chiamato Russia. Tra il 1989 e il 1991 non si verificò soltanto il tracollo ideologico del comunismo storico novecentesco, vilmente e autonomamente levatosi dai piedi in quanto incapace di egemonizzare i ceti medi autoctoni alla propria causa di proletarizzazione forzata dell’intera società, ma ebbe luogo quella che, giustamente peraltro, Vladimir Putin ha definito “la più grande catastrofe geopolitica della storia del XX secolo”. Le riforme semi-liberali di Gorbaciov, un politico di estrazione culturale e sociale piccolo-borghese che tentò, fallendo miseramente, di “modernizzare” l’Urss de facto adeguando la “struttura nazionale” (tradizionalista ed eurasiatica) dello sterminato Continente-Impero alla forma mentis eurocentrica, hanno aperto la strada al “caos costruttivo” caratteristico degli anni Novanta, il cosiddetto “decennio eltsiniano”, un periodo storico tragico, sotto ogni punto di vista, per il 95 per cento dei russi, che furono, dopo il 1991 (a fronte dell’arricchimento oltre ogni limite di un pugno di speculatori filoccidentali, i cosiddetti oligarchi), privati di ogni sostentamento e umiliati nel proprio, comprensibile quanto giustificato, orgoglio patriottico. Soltanto confrontandoci, rinunciando a ogni velleità eurocentrica, con quella che è la summenzionata “struttura nazionale” del popolo russo (un popolo culturalmente tradizionalista, politicamente conservatore ed economicamente socialista), possiamo capire fino in fondo l’attuale “fenomeno Putin”. Con il nuovo millennio, Vladimir Putin sale al potere. La Russia ha bisogno di facce nuove. Eltsin e le sue figuracce in mondovisione hanno fatto il loro tempo. Perché la scelta cade proprio sull’ex membro del Kgb? Perché dai servizi di sicurezza proviene la migliore tradizione politica del Paese. Vladimir Putin fu tenente-colonnello del Kgb (Primo Direttorato, servizio di controspionaggio, Pgu) e servì in tale apparato dal 1975 al 1991. Fu anche un membro del Pcus e solo poche settimane or sono ha ribadito che le sue scelte politiche non furono dettate da mera necessità o da opportunismo, nonostante non potesse definirsi, già all’epoca, un “comunista modello”. Vladimir Putin muove le proprie linee politico-programmatiche sulla scorta di quella che fu l’esperienza di azione politica e operativa del Kgb di Jurij Andropov e del Svr (il servizio di informazioni per l’estero dopo il 1991) presieduto da Evgenij Primakov. Credo che per comprendere realmente il ruolo giocato dagli “uomini degli apparati di sicurezza” (siloviki) all’interno dell’attuale governo russo occorra leggere le memorie di Evgenij Primakov, dal titolo Dall’Urss alla Russia. In questo libro, Primakov, che fu ministro degli Esteri (1996-1998) e premier federale (1998-1999), parlò apertamente di “stabilizzazione” politica della Russia a seguito dell’ascesa di Putin al Cremlino dopo gli anni bui di Eltsin e del governo indiretto degli oligarchi filoccidentali. Arrivati a questo punto, è comunque d’uopo ricordare che quegli stessi leader “democratici” occidentali, Famiglia Clinton in testa, che oggi accusano Putin di essere una sorta di “dittatore”, tra il 1991 e il 1999, in nome del primato della transizione al “libero mercato globalizzato” della Russia postsovietica, perdonarono al fiduciario e garante di tale transizione, Boris Eltsin (e al suo entourage di privilegiati, per censo ed estrazione politico-sociale, Chicago Boys provenienti dalle seconde linee del Pcus), la corruzione generalizzata, l’alcolismo istituzionalizzato e il bombardamento del Parlamento (4 ottobre 1993). Putin sembra aver dato un nuovo volto alla Russia. Forse un volto a sua immagine e somiglianza. Quali sono i pensatori e le culture politiche che lo hanno aiutato a trasformare il Paese? Il cosiddetto “putinismo” è un fenomeno politico semplice e complesso allo stesso modo. Dev’essere però letto e interpretato rinunciando a qualsivoglia retaggio culturale (e finanche psicologico) eurocentrico. Innanzitutto, Vladimir Putin è indubbiamente un postcomunista ma non un comunista. Putin, pur mantenendo un formale rispetto per il passato sovietico della Russia, non fa mistero di avere, tra i suoi riferimenti e modelli politici, lo zar Alessandro III (1881-1894) e l’ex primo ministro di Nicola II, Pëtr Arkadevic Stolypin (1906-1911). Entrambi, Alessandro III e Stolypin, furono personaggi storici a vario titolo conservatori (ma non “immobilisti”). Il primo, che nel 1881 aveva visto il padre, lo zar Alessandro II, ucciso in un attentato maturato in ambienti rivoluzionari, è passato alla storia per il proprio rigido tradizionalismo, sintetizzato nella celeberrima frase “La Russia ha solo due alleati, il suo esercito e la sua flotta”; il secondo, attraverso un programma di riforme, soprattutto in ambito agrario, assai audace, mirava “a elevare la prosperità economica del Paese”. Per definire ideologicamente Putin riprendo e riporto le parole, pronunciate in merito, dal politologo russo Aleksandr Dugin: “Putin è […] soprattutto un nazionalista e uno statalista russo che professa, al contempo, lungi da ogni riflessione filosofica, delle idee piuttosto liberali in economia. Certamente, egli prova anche simpatia per la Chiesa ortodossa. Ma gli manca una visione del mondo coerente. Sotto certi aspetti, continua a condividere certe pulsioni liberali degli anni Novanta, benché abbia forse cominciato a perderle. Sul piano economico, sembra favorevole a un capitalismo statale, con lo Stato che controlla i più importanti monopoli e i rami strategici dell’industria e il resto abbandonato al mercato”. In Capire la Russia ho personalmente definito il partito di Vladimir Putin, Russia Unita, un soggetto politico popolar-conservatore, con valori di destra e un programma politico-economico di centro, per alcuni aspetti socialdemocratico. Uno dei più influenti ideologi del “putinismo”, Vladislav Surkov, aveva dichiarato, già nel 2007, alla rivista Limes, che Russia Unita occupa “il versante conservatore di destra” del quadro politico interno. Trovo assai indicativo, per contestualizzare la collocazione politica di Russia Unita, il fatto che, assai recentemente, credo il mese scorso, uno dei più influenti esponenti del partito e del governo, il vicepremier Dmitrij Rogozin, abbia incontrato pubblicamente, a Belgrado, Vojislav Seselj, manifestando l’appoggio di Russia Unita al Partito Radicale Serbo, nazionalista e patriottico (ossia, euroscettico), alle elezioni parlamentari che si terranno in Serbia nell’aprile di quest’anno. I vertici di Russia Unita coltivano anche rapporti di collaborazione politica con il Front National di Marine Le Pen, con la FP?, con il Vlaams Belang e con la Lega Nord. Il partenariato europeo tra Russia Unita e determinati attori politici sovranisti dei Paesi della Ue ha gettato in profondo allarme il “circo mediatico” radical-liberale di sinistra e benpensante facente capo al monopolio giornalistico “democratico” Repubblica–La Stampa–Il Fatto Quotidiano–il manifesto, tant’è vero che tali testate non hanno esitato a stigmatizzare il ritrovato dinamismo politico di Russia Unita e dei suoi interlocutori “euroscettici” coniando l’antistorica definizione di “Internazionale Nera” pro-Putin. In ogni modo, l’importante è che Putin abbia concretamente preso le distanze dal “flagello Gorbaciov”, l’uomo cui «si riconosce universalmente ‘il ruolo di becchino, per conto terzi, del comunismo ufficiale’”. Nel suo libro parla di “epicentro ‘conservatore-rivoluzionario’”. Un ossimoro bello e buono. Di cosa si tratta? Per rispondere a questa domanda è doveroso partire da un presupposto essenziale. La “struttura nazionale” russa (l’inconscio collettivo dei popoli d’Eurasia) è integralmente nazional-bolscevica o, appunto, “conservatrice-rivoluzionaria”, ossia culturalmente tradizionalista, politicamente nazional-patriottica ed economicamente socialista (e non individualista). Chi si è accorto per tempo di ciò è Stenio Solinas, che nel 2012, proprio su Il Giornale, scrisse un articolo dedicato alle “avventure politico-letterarie” del “nazional-bolscevico” più “celebre” al mondo, Eduard Limonov. Personalmente credo che l’eterogeneo polo rivoluzionario-conservatore sia, in Russia, l’epicentro politico che, andando oltre l’obsoleta dicotomia eurocentrica sinistra/destra (che in Russia non ha alcuna rilevanza e che non può assolutamente essere presa in considerazione come fattore di determinazione per l’analisi critica delle varie culture politiche presenti nel Paese in particolar modo dopo il 1991), più si avvicina ad interpretare gli autentici sentimenti nazionali e culturali della maggioranza della popolazione. Nei fatti, in Russia, un 18-20 per cento dell’elettorato fa in qualche modo riferimento esplicito all’eurasiatismo, magari orientando la propria scelta su Russia Unita o sul Partito comunista della Federazione russa (Kprf) di Zjuganov ma, a livello di psicologia collettiva, penso che tutti i russi, tranne i liberali più accaniti (un 5-6 per cento dell’elettorato, segnatamente la fascia sociale maggiormente benestante e cosmopolita delle città di Mosca e San Pietroburgo), siano in fin dei conti eurasiatisti. Tant’è vero che il presidente del Partito comunista della Federazione russa, Gennadij Zjuganov, ha più volte affermato di orientare le proprie coordinate ideologiche sul lascito politico del conte Sergej S. Uvarov, ministro dell’Istruzione dello zar Nicola I (1825-1855), ossia sulla triade valoriale “Autocrazia, Ortodossia, Principio Nazionale”. Zjuganov è un ammiratore dichiarato del monaco Filofej (1465-1542), che nel XVI secolo affermò: “Il mondo ha conosciuto due precedenti Roma, ci sarà la Terza Roma [Mosca, nda], e la quarta non esisterà mai”. Vorrei, a questo proposito, far notare la sostanziale (quanto incolmabile) divergenza tra il patriottismo eurasiatista dei comunisti russi e il cosmopolitismo eurocentrico della “Sinistra Europea” (Sel, Prc, Front de Gauche, Die Linke, Syriza e Podemos), i cui pittoreschi leader coltivano i propri orizzonti in riferimento alla triade postmoderna “matrimonio gay/femminismo modaiolo dei ceti ricchi, liberalizzazione delle droghe ‘leggere’, apertura delle frontiere statali in nome della retorica del migrante e del nomadismo globale”. Russia e Usa si stanno contendendo diverse zone di interesse. Il conflitto in Siria ne è la dimostrazione più evidente. Bush e Putin erano in parti affini, anche se i russi hanno avuto una politica di minor intervento (pensiamo in Iraq). Con Obama sembra che qualcosa sia cambiato. Perché? La politica estera americana è diventata più aggressiva sotto i democratici rispetto ai conservatori? I democratici americani sono storicamente assai più inclini, rispetto ai conservatori “classici”, o paleoconservatori, all’intervento neocoloniale all’estero, attuato per via militare o tramite il soft power (rivoluzioni colorate, ossia colpi di Stato postmoderni). I democratici sono cosmopoliti e pertanto estremamente compatibili con gli attuali processi di globalizzazione, fondati sulla cultura politica della liberalizzazione. La figura politica di Hillary Clinton è paradigmatica in tal senso e rimando, per un approfondimento, all’ultimo libro di Diana Johnstone (Hillary Clinton. Regina del caos, Zambon, Frankfurt, 2016), che analizza nel dettaglio le varie guerre coloniali (Jugoslavia, Libia, destabilizzazione geopolitica della Siria e dell’Ucraina tramite invasioni militari compiute “per procura” sul modello nicaraguense degli anni Ottanta) condotte dai democratici statunitensi sotto copertura ideologica “umanitaria”. Con Bush II i conservatori conobbero la loro svolta interventista (già ben delineata, peraltro, sotto Reagan e Bush I), perché influenzati dalle teorie anarco-coloniali del movimento dei neocon, perlopiù composto da ex trotzkisti e da ex democratici approdati alle fila del “conservatorismo democratico” e, diciamo così, internazionalista-liberale. Non tutti i repubblicani però sono neocon (invito a riguardo a leggere l’interessante pubblicazione The American Conservative, assai critica con ogni forma di “interventismo democratico” all’estero e piuttosto obiettiva sugli eventi accaduti in Ucraina a partire dal novembre 2013). Non lo è certamente Ron Paul, non lo è mai stato Pat Buchanan e presumibilmente non lo è neppure Donald Trump, un populista piuttosto rozzo ma pragmatico, contro cui, guarda caso, si sono già schierati i principali centri finanziari internazionali con sede a Wall Street. Si veda, in merito, l’esplicito sostegno politico tributato dal noto banchiere internazionale George Soros a Hillary Clinton. Putin, per ragioni di politica estera e di interesse nazionale, ma anche per forma mentis, è più simile ai repubblicani paleoconservatori che non ai neocon o ai cosiddetti “falchi liberali” à la Hillary Clinton. Naturalmente però, ogni riferimento in tema non può sfuggire a inevitabili forzature e semplificazioni di sorta, perché ovviamente Putin è un politico russo, alieno, comprensibilmente, da una mentalità americanocentrica. Come è cambiata la Russia in questi sedici anni? In questi sedici anni la Russia è cambiata in meglio perché rispetto agli anni Novanta è nuovamente padrona di decidere le proprie strategie di politica interna e più indipendente in politica estera. L’evoluzione militare e geopolitica dello scenario siriano rappresenta al meglio il tentativo russo di porre un argine all’unipolarismo di Usa e vassalli europei. Naturalmente, il rinnovato dinamismo difensivo della Russia e la sua ristabilita sovranità inquietano non poco l’Occidente a guida Nato. Un Occidente le cui classi dirigenti (politiche, affaristico-speculative e sindacali) e mediatiche (accademiche e giornalistiche) non esitano a legittimare il più ignobile e paranoico dei modelli socio-politici e culturali della storia della civiltà, il liberalismo totalitario contemporaneo, attraverso l’incessante demonizzazione dei protagonisti dello scacchiere geopolitico internazionale ritenuti “nemici” di tale cultura politica, Russia “di Putin” in primis. Tuttavia, questa strategia ha sortito l’effetto opposto a quello per cui è stata pensata e attuata e oggi Putin è, in Occidente, il politico più apprezzato dalle classi popolari e dai ceti medi produttivi non attratti dalle sirene del cosmopolitismo, del parassitismo bohémien e del liberalismo. Non a caso, personaggi politici come Marine Le Pen, Nigel Farage, Milos Zeman, Heinz-Christian Strache e Viktor Orbán, assai popolari tra l’elettorato operaio e impiegatizio dei rispettivi Paesi, non fanno mistero della propria ammirazione nei confronti di Vladimir Putin, mentre gli appartenenti alla “nuova classe media globale”, disincantata, giovanilistica, esterofila e narcisistica, votano per la sinistra liberale filo-Usa. Quale sarà il suo futuro nello scacchiere internazionale? Riuscirà ad essere un impero? La Russia è un impero per vocazione e storia. Nessuno, sia esso Napoleone, Churchill, Hitler o la Famiglia Clinton, riuscirà a sottrarle questo ruolo speciale all’interno degli scenari geopolitici internazionali. L’idea nazionale russa, come visto, è profondamente imperiale (ma non imperialista). La Russia è tra i principali ostacoli sulla strada dell’affermazione globale di un colonialismo americanocentrico a copertura culturale di sinistra (liberaldemocratica) e a programma politico iperliberista e libertario. A tale neocolonialismo la Russia, la “struttura nazionale” russa, contrappone una resistenza basata su valori culturali di “destra” (tradizionali, neosignorili) e su un programma politico centrato sul recupero e sulla valorizzazione della sovranità statale e nazionale, nell’ambito di un Continente-Impero multinazionale, plurilinguistico e multireligioso. La Russia (eccezion fatta per il vergognoso intermezzo gorbacioviano e eltsiniano, durato comunque non più di un quindicennio nel novero di una storia millenaria) non ha mai rinunciato alla propria dignità e alla propria indipendenza. |