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8 aprile 2016

 

17 aprile. La posta in gioco del referendum

 

Lo aveva fatto Craxi invitando la gente “ad andare al mare”, piuttosto che votare nel referendum sulla preferenza unica nel 1991. Lo fece Berlusconi per il referendum contro la privatizzazione dell’acqua e per lo stop al nucleare nel 2011. Alla medesima genìa non poteva mancare Matteo Renzi che, sul referendum contro le trivelle del prossimo 17 aprile, sta apertamente lavorando per far saltare il quorum. I due precedenti lo smentiscono. Sia nel 1991 che nel 2011 la gente andò a votare e il quorum fu raggiunto. In entrambi i casi erano diventati referendum sulla leadership del paese e la voglia di buttarla per aria vinse la riluttanza nel recarsi alle urne.

Il Governo ha emanato il decreto di indizione del referendum solo il 16 febbraio, cioè appena 62 giorni prima della data indicata. Lo ha fatto unilateralmente, senza consultare i promotori del referendum né verificare la garanzia dell’informazione ai cittadini, attraverso le disposizioni da inviare a Rai e TV private da parte dalla Commissione parlamentare di Vigilanza RAI e da AgCom, ossia l’Autorità per le Comunicazioni. L’operazione “dissuasione” sembrava poter funzionare, ma lo scandalo del ministro Guidi con la Total e l’arroganza di Renzi hanno prodotto nel paese un tremito di indignazione che potrebbe – come accadde a Craxi e Berlusconi – riservare brutte sorprese al bugiardo Total.

Per questa ragione nei prossimi giorni dobbiamo adoperarci affinchè domenica 17 aprile la gente vada a votare nel referendum e voti SI per dire NO. Non solo alle trivellazioni in mare ma anche ad un governo colluso e connesso con le lobby petrolifere e i poteri forti. Queste relazioni affaristiche sono emerse fin troppo chiaramente sulla vicenda delle trivellazioni della Total in Basilicata, ma trasudano da ogni riga di quel Decreto Sblocca Italia fatto dal governo Renzi a uso e consumo proprio dei comitati d’affari. I napoletani che sono scesi in piazza contro il commissariamento di Bagnoli e i diktat di Renzi avevano e hanno ragioni da vendere, così come i movimenti popolari, dal Meridione alla Val di Susa.

Nei prossimi giorni tutte le legioni di esperti e opinion maker convinti, o pagati per esserlo, che si stia “modernizzando il paese”, tireranno fuori tutto l’armamentario di argomenti per far passare chi si oppone alle devastazioni ambientali come dei trogloditi o dei “fighetti”. “Se abbiamo il petrolio o il gas perché lo dovremmo comprare dall’estero?”. “Un paese competitivo ha bisogno di grandi infrastrutture”. “Queste opere portano lavoro” e via cantando. La replica a queste tesi è semplice e diretta.

1)  Sul piano energetico, secondo i dati diffusi dall’Agenzia Internazionale dell’Energia (Iea), nel 2012 l’Europa pesava per il 59% delle nuove installazioni nel fotovoltaico, nel 2014 invece il 60% della nuova potenza è stato installato in Asia e solo il 18% nel vecchio continente. Cina, Giappone e Stati Uniti, sono nell’ordine i mercati più importanti, rispettivamente con il 10,6, 9,7 e 6,2 GW di nuova potenza connessa in rete nel 2014. Le previsioni internazionali confermano la leadership di questi tre paesi anche nel 2016 con gli Usa che dovrebbero più che raddoppiare, fino al 13%.  In Italia il fotovoltaico soddisfa  invece solo il 7,9% della domanda elettrica; la media dell’Europa è del 3,5%, ma in Germania si sale al 26%. Ma viene spontaneo chiedersi il perché dell’arretratezza dell’uso del fotovoltaico in un paese come l’Italia che ha sicuramente una esposizione solare maggiore e assai più redditizia della fredda e nuvolosa Germania. Se abbiamo poco petrolio, pieno di zolfo e in mano a multinazionali straniere, e abbiamo invece tanto sole, non è il caso di indagare e sviluppare potenzialità vere e diverse per il fabbisogno enegetico del paese?

2) La modernizzazione del paese – di cui prima Craxi, poi Berlusconi e adesso Renzi cantano i salmi – può fondarsi su priorità diverse da quelle decise, determinate e varate su misura degli interessi dei grandi gruppi d’affari. In secondo luogo, da quando sono al comando i sacerdoti della modernizzazione e della competitività, i risultati dicono che l’Italia è diventato un paese ancora più asimmetrico tra Nord e Sud e dentro la stessa società sono cresciute enormemente le disuguaglianze. Risultato? Sviluppo zero, disoccupazione crescente, salari immiseriti, consumi e investimenti sotto zero, degrado sociale e ambientale aumentato.

E allora? Di cosa vogliamo parlare? Il 17 aprile occorre andare a votare nel referendum e votare SI, per cercare di menare un primo colpo e preparare il campo allo scontro definitivo sul referendum/plebiscito controcostituzionale di ottobre.

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